Marxismo libertario. Maximilien Rubel – Il partito della mistificazione; da: “Le Monde”, 7 maggio 1976.

Il partito della mistificazione
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Maximilien Rubel

Nel dibattito sull’«abbandono» da parte del partito comunista francese della dittatura del proletariato, nessuno sembra aver menzionato un fatto che meriterebbe tuttavia di essere posto in luce. Esso permette di illuminare, infatti, meglio di ogni altro il senso e la natura di questa procedura: è il partito che si arroga il diritto di decidere se il proletariato deve oppure non esercitare la sua dittatura; è il partito, addirittura il suo segretario circondato dai suoi ideologi, che, sostituendosi alla classe e alla massa dei lavoratori, decide di cancellare con un colpo di penna ciò che, secondo Marx, rappresenta un “periodo”, transitorio certo, ma necessario e inevitabile dell’evoluzione della società e affatto un fenomeno accidentale suscettibile di essere abbandonato o accettato a piacere degli imperativi della nuova strategia politica dettata dal programma comune. Il partito si guarda bene dal rimettere in questione l’essenziale, e cioè le sue prerogative, di rappresentante autoproclamato della classe operaia. E’ sempre lui che, attraverso la voce dei suoi capi, decide al posto della classe operaia, è lui che definisce la natura e la forma che deve assumere l’azione di questa classe; e nulla garantisce che l’abbandono della dittatura del proletariato comporti l’abbandono della dittatura sul proletariato, la sola che importa al partito.

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Il concetto di dittatura del proletariato è parte integrante della teoria dello sviluppo del modo di produzione capitalista e della società borghese, sviluppo di cui Marx afferma di aver rivelato “la legge naturale”. Engels colloca questa teoria tra le due grandi scoperte scientifiche del suo amico, dopo la concezione materialistica della storia comparabile alla scoperta di Darwin: “Così come Darwin ha scoperto la legge dell’evoluzione della natura organica, Marx scoprì la legge dello sviluppo della storia umana”. Il postulato politico della dittatura del proletariato si inscrive nella prospettiva di una società capitalista pienamente sviluppata, terreno dello scontro tra una classe possidente fortemente minoritaria, ma al culmine del suo potere, e una classe operaia ampiamente maggioritaria, espropriata economicamente e socialmente, ma intellettualmente e politicamente matura e adatta a stabilire il suo dominio per la “conquista della democrazia” per mezzo del suffragio universale. Giunta a questa posizione dominante, il proletariato non userà la violenza, soltanto nel caso in cui la borghesia lasciasse il terreno della legalità allo scopo di conservare i suoi privilegi di dominio. La dittatura del proletariato è descritta nella conclusione di Il Capitale come “espropriazione degli espropriatori”, detto altrimenti come “espropriazione di alcuni usurpatori da parte della massa”.

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Pur limitate a una determinata tappa dell’evoluzione globale del genere umano, le leggi e le tendenze dello sviluppo dell’economia capitalista “si manifestano e si realizzano con una necessità di ferro”, i paesi sviluppati industrialmente mostrano ai paesi meno sviluppati “l’immagine del loro proprio futuro”. Donando la parola a un critico russo di Il Capitale, Marx sottoscriveva senza riserva una interpretazione che poneva del tutto l’accento sul determinismo implacabile della sua teoria sociale: essa “dimostra”, dichiarava questo critico, “al contempo la necessità dell’attuale organizzazione, la necessità di un’organizzazione nella quale la prima deve necessariamente passare, che l’umanità vi creda creda oppure non, che ne abbia oppure non coscienza”. Marx stesso non è meno categorico: “Quando una società è giunta a scoprire la pista della legge naturale che presiede al suo movimento (…) essa non può superare con un salto né abolire attraverso dei decreti le fasi del suo sviluppo; ma può abbreviare il periodo della gestazione e attenuare i mali del loro parto”. (Il Capitale).

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Cosa si dovrebbe pensare di una società di scienziati che oserebbe proclamare la “rinuncia” alla legge newtoniana dell’attrazione universale o alle leggi mendeliane della ibridazione delle piante e dell’ereditarietà nei vegetali? E chi invocherebbe, per giustificare la sua decisione, il carattere “non dogmatico” di queste leggi, senza preoccuparsi di confutarle con dei metodi scientifici, ma pretendendo un profondo cambiamento dei modi di pensiero nelle classi non intellettuali? Questa società “sapiente” si ricoprirebbe di ridicolo. Questo è tuttavia l’atteggiamento della compagnia sapiente che si proclama comunista e marxista che, pur richiamandosi ad una teoria di cui non cessa di proclamare il carattere scientifico, ne respinge l’insegnamento maggiore, quello stesso che interessa l’esistenza della maggioranza degli uomini: agendo in nome del “socialismo scientifico”, i suoi dirigenti e ideologi non dichiarano che l’evoluzione delle società capitaliste ha reso caduco l’imperativo della dittatura del proletariato, il che equivarrebbe a rimettere in questione una tesi che Marx stesso considerava come il suo principale apporto al socialismo scientifico.

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Importa poco di sapere se “l’abbandono della dittatura del proletariato” risponde a degli imperativi di tattica elettorale o rinvia ad altre preoccupazioni: perché questo “abbandono” significa in fondo che i responsabili della politica del partito eliminando dal dibattito il principale interessato, il proletariato, il solo che abbia come “missione storica” di liberare le società dalla schiavitù del denaro e dello Stato, dunque di esercitare la sua dittatura. Così lo esige la scienza di Marx così come il semplice buon senso non marxista: la dittatura del proletariato non potendo essere altro che affare degli sfruttati – dunque della quasi totalità della specie umana, – la decisione di un partito, qualunque esso sia, di cancellare un postulato la cui portata etica la contende al rivestimento scientifico non potrebbe non avere il minimo effetto sull’evoluzione della società e la vocazione rivoluzionaria ed emancipatrice dei moderni schiavi. Perché se il movimento operaio è, secondo il “Manifesto comunista“il movimento dell’immensa maggioranza”, la dittatura del proletariato può essere definita come il dominio dell’immensa maggioranza nell’interesse dell’immensa maggioranza, detto altrimenti, l’autodeterminazione del proletariato. Insomma, essa è destinata a realizzare le promesse di una democrazia integrale, l’autogoverno del popolo, contrariamente alla democrazia parziale (borghese) di cui le istituzioni assicurano la dittatura dei possidenti – del capitale che controlla il potere politico, dunque di una minoranza di cittadini – sui non possidenti, dunque sull’immensa maggioranza dei cittadini. In queste condizioni, come spiegare che un partito che si richiama a Marx e al comunismo abbandona una concezione della dittatura del proletariato che – a torto o a ragione – annuncia l’avvento della democrazia integrale?

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Quando prima del 1917 Lenin sognava per la Russia un autogoverno degli operai e dei contadini, dopo la presa del potere, si orienterà verso la concezione di una dittatura del proletariato suscettibile di essere esercitata dalla “dittatura di alcune persone”, addirittura “dalla volontà di uno solo”; questa concezione corrispondeva perfettamente allo stato economico e sociale di un paese che poteva tutto “sviluppare” tranne il… socialismo, la dittatura del partito avendo come obiettivo la creazione del proletariato “sovietico” e non l’abolizione di quest’ultimo. Dunque la creazione di rapporti sociali compatibili con lo sfruttamento del lavoro salariato e il dominio dell’uomo sull’uomo. E’ a questa scuola e non a quella di Marx che i dirigenti dei partiti comunisti hanno preso le loro lezioni di uomini politici. E’ essi stessi che condannano prendendo la distanza con un regime che ha saputo costruire per milioni di contadini proletarizzati un arcipelago di gulag la cui descrizione non ha eguali che nell’Inferno di Dante.

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L’imperativo della dittatura del proletariato implica la visione dell’abbreviamento e dell’addolcimento dei mali del parto della società infine umana. Le rivoluzioni “marxiste”, russa e cinese, non hanno fatto che suscitare il male che esse ritenevano di aver soppresso. Questa è la mistificazione della nostra epoca. E se i partiti detti operai possono decretare “l’abbandono della dittatura del proletariato”, non è perché il proletariato non ha (ancora?) questa coscienza rivoluzionaria che la concezione materialista della storia considera come il risultato fatale del divenire-catastrofico del modo di produzione capitalista in piena espansione mondiale?

[Traduzione di Massimo Cardellini]

Marxismo libertario. L’agonia postuma di Karl Marx – Maximilien Rubel intervistato da Olivier Corpet e Thierry Paquot, Le Monde dimanche, 10 aprile 1983.

L’agonia postuma di Karl Marx

In quest’anno (1983), del centenario della morte di Marx, le commemorazioni, colloqui, pubblicazioni, fioriscono, sia a Parigi che sulla piazza Rossa. Ma cosa si sta per celebrare esattamente: l’opera di Marx o ciò che ne hanno fatto dei marxismi differenti? Qual è, di fronte a questo nuovo funerale, la reazione di un marxologo, familiare dell’opera in questione, ma che si riconosce anche nel progetto etico e rivoluzionario di Marx di una autoemancipazione delle classi oppresse?

Quando avremo fatto il bilancio delle manifestazioni e delle mascherate di ogni genere alle quali questa celebrazione avrà dato luogo, in quest’anno memorabile, potremo constatare che il messaggio rivoluzionario dell’autore di Il Capitalesarà stato soffocato in tre diversi modi: Primo, attraverso la glorificazione eccessiva del preteso fondatore del marxismo, fandazione alla quale i fedeli del culto marxista associano, come regola generale, l’alter ego di Marx: Friedrich Engels. Secundo, attraverso la messa a morte postuma del pensatore le cui dottrine, lungi dall’essere scientifiche, sarebbero state comprovate o smentite dalla storia economica, politica e sociale degli ultimi cento anni e sarebbero erronee da capo a piedi. Tertio, attraverso l’apprezzamento detto oggettivo che sa separare il grano dall’oglio degno, il primo, di essere immagazzinato per l’arricchimento delle scienze umane.

Di queste tre maniere di evacuare la sostanza emancipatrice dell’opera marxiana, la terza mi sembra la meno riprovevole. Essa può rendere giustizia allo spirito scientifico che impregna la teoria sociale di Marx, senza deformare sistematicamente la sua opera. Il marxologo che mi sforzo di essere assume un compito difficile: far rispettare l’ultimo desiderio di Marx che protestava contro l’usurpazione del suo nome a fini ideologici e politici, ma che si solleva anche contro l’identificazione quasi religiosa della coscienza supposta degli schiavi moderni con una teoria abusivamente battezzata “marxismo”.

Un difensore “borghese” dei diritti dell’uomo.

Questa doppia usurpazione ha finito con l’assumere la forma di un vero culto onomastico. E’ la ragione dell’insistenza che pongo nel ricordare l’ultimo avvertimento di Marx: “Ciò che vi è di certo, è che io non sono marxista”. Non si tratta di una battuta, ma di un divieto assoluto, conforme a un insegnamento scientifico e a una convinzione etica che hanno la loro fonte nel movimento emancipatore autonomo del proletariato moderno, e non nell’opera di quell’individuo cosmo-storico come gli ammiratori di Hegel, quell’anti-Marx, chiamavano  Marx quando egli era ancora vivo.

Da qualche anno, vediamo numerosi intellettuali dedicarsi a una critica severa di Marx e del marxismo. Alcuni hanno creduto vedere in Marx un “borghese tedesco”, prigioniero dello “spirito” del suo tempo; per altri, Marx non avrebbe pensato il politico. Da cui il gulag. L’opera di Marx vi sembra totalmente innocente da tutte queste derive, deviazioni, peggio, da questi crimini di cui la si rende responsabile?

– La vostra domanda riguarda soprattutto i due ultimi modi di soffocare l’appello rivoluzionario e emancipatore di Marx. Il primo consiste nell’opporre alla sua teoria la smentita dell’esperienza storica. Da questo punto di vista, quest’ cento anni sarebbero stati segnati da un progresso immenso, inimmaginabile per i più grandi pensatori del diciannovesimo secolo, compreso Marx. Malgrado terribili catastrofi e regressioni di ogni ordine, il bilancio sarebbe “globalmente positivo”, La storia del ventesimo secolo avrebbe dunque sventato tutte le speculazioni di Marx sulla sparizione del capitalismo e la sua sostituzione con il socialismo nei paesi industrialmente sviluppati; in compenso, dei paesi industrialmente e politicamente arretrati sarebbero riusciti ad avviarsi sulla via del comunismo. In breve: naufragio della teoria dell’uomo di scienza, inefficacia totale della politica dell’uomo di partito!

In quanto agli affossatori accademici, va fatta una distinzione netta. Non è questione, infatti, di rifiutare di ascoltare coloro la cui critica utile, necessaria, prende in conto lo stato di incompiutezza dell’opera scientifica di Marx per separare gli elementi teorici, la cui validità permanente deve essere riconosciuta, dagli errori storicamente e psicologicamente spiegabili. Al contrario! Ma cosa dire quando quelli che, ieri, non giuravano che sul padre fondatore lo rendono oggi responsabile degli errori di una posterità intellettuale e politica la cui perversità rileva della patologia più elementare?

Questi apostati del marxismo sospettano il padre ripudiato di aver di proposito omesso o sottovalutato il “politico” e di non aver risposto alla domanda essenziale del perché della messa in tutela della società civile da parte del potere dello Stato. Altri lo accusano di “accecamento di fronte ai diritti dell’uomo”. Ora, i fatti parlano da sé: Marx ha passato i quattro decenni della sua carriera di comunista militante a vituperare, come difensore “borghese” dei diritti dell’uomo, le tre maggiori forme del “totalitarismo” del suo tempo: il bonapartismo, lo zarismo e l’assolutismo prussiano.

È questo nemico accanito del Leviatano moderno che tutta questa letteratura accademica antimarxista assocerà al “gulag”! Aggiungiamo che è per scelta che egli si è collocato nel campo della democrazia “borghese”: vittima sin dai suoi esordi letterari della violazione dei diritti dell’uomo in Germania, in Francia e in Belgio, si è rifugiato in Inghilterra, questa metropoli del capitale che gli ha offerto un rifugio sicuro dove poteva non soltanto continuare a scrivere liberamente, ma anche condurre campagna per il diritto di associazione e il suffragio universale.

Su questo Marx democratico e liberale, ma anche democratico rivoluzionario, mi è stato dato di dire l’essenziale nei miei lavori come nei miei commenti degli scritti di Marx pubblicati nella Pleiade: mi applico a demolire la leggenda di Marx costruita sia da degli adepti zelanti che da avversari ottusi. In questo stesso momento, preferisco tenermi lontano dalla mischia e dal baccano provocati dalle celebrazioni ufficiali e ufficiose. Ho in cantiere un opuscolo dedicato a questa leggenda, di cui i misfatti ideologici, tanto intollerabili possano essi essere, sono poca cosa in confronto alla miseria reale del mondo, che nessuna teoria, fosse essa marxiana o marxista, non potrebbe far scomparire. Sarà il mio contributo a un omaggio di cui il defunto celebrato e maledetto può certo fare a mano, ma che si collocherà fuori dalla triplice impresa di sotterramento ricordato.

Ma riaffermando che si deve considerare Marx come il primo – e il più efficace – critico del marxismo, ci si può domandare se, a vostra volta, non contribuite anche a una certa mistificazione di Marx, ad esempio scaricandolo totalmente dal peso dei suoi “discepoli”, caricando Engels di tutti i mali e in particolare quello di aver inaugurato il culto del suo amico, il giorno stesso del suo funerale?

– Mi sono accontentato di mostrare che una intelligentsia affetta da ideologia consolatrice si sforza nel ridurre, spesso per pura piccola gloria, in qualche specie come l’investimento più redditizio del suo capitale intellettuale, la potenza demistificatrice dell’opera di Marx. Soltanto la sua carriera di autore marginale e privo di mezzi ha impedito Marx di elaborare sistematicamente il progetto di una triplice critica scientifica delle istituzioni borghesi.

Ma basta leggere la sua opera per capire che, lungi dal rifiutare di “pensare il politico”, egli ha posto il “politico” al centro delle sue preoccupazioni. Sicché la sua Economia è rimasta incompiuta, che non ha potuto che a fatica porre l’ultima mano all’unico libro del Capitale, mentre l’insieme dei suoi scritti storico-politici, di fatto, la sua critica del politico, appariva come un insieme relativamente compiuto. Essa si impone oggi alla nostra riflessione con più pertinenza convincente della Critica della filosofia e la Critica dell’economia politica, come l’opera del primo teorico dell’anarchismo, dunque del critico e denunciatore senza concessione sia del vero capitalismo quanto del falso socialismo.

È su questo punto essenziale che dovrebbe aver luogo il dibattito riguardante il ruolo di Engels. Contrariamente a ciò che si pretende a volte, non lo ritengo affatto come responsabile di tutte le metamorfosi e distorsioni subite dal pensiero marxiano – soprattutto dopo l’istituzione del marxismo-leninismo come religione di Stato – nella fondazione di ciò che ha vincolato, suo malgrado, sotto il concetto di “marxismo”.

Ma come rimanere indifferenti di fronte alle conseguenze, oggi chiaramente percettibili, di questo gesto di consacrazione elevato presto alla dignità di un dogma indiscutibile? Come disconoscere il fatto che specializzandosi nelle questioni militari Engels ha lasciato, senza sospettarlo, alla posterità marxista un’eredità ambigua e alienante che, battezzato “marxismo-leninismo”, costituirà la negazione assoluta della causa emancipatrice per la quale Marx ha vissuto e combattuto?

Tuttavia, quest’ambiguità può volgersi contro gli eredi alienati: Engels avrebbe senza difficoltà riconosciuto in loro i continuatori arrabbiati e ciechi della politica zarista. Non dimentichiamo che Marx stesso non ha cessato di predicare “la guerra rivoluzionaria”. A prezzo di una concessione volgarmente “riformista” alla vocazione civilizzatrice dell’Occidente borghese, contro il dispotismo asiatico, e specialmente contro la Russia, questo “ultimo bastione della reazione europea”.

Siamo seri! Engels sarebbe stato l’ultimo a farsi prendere in trappola da una ideologia politica accomodata in salsa “marxista”, e nulla di ciò che ha detto o fatto, in quanto legatario spirituale del suo amico, può servire a legittimare quel marxismo.

Il monopolio della Mecca marxista

In quali condizioni e in quale spirito avete intrapreso la pubblicazione delle opere di Marx nella “Pléiade”? Con quali ostacoli e critiche, sopratutto politiche, vi siete dovuto confrontare? Non pensate di essere oggi meglio recepito e capito? In fin dei conti, vi è, a vostro parere, un uso possibile, fecondo, di Marx? O si tratta di un pensiero superato?

Accettando la pesante responsabilità di un’edizione delle opere di Marx nella “Bibliothèque de la Pléiade”, conoscevo i rischi di un’impresa concepita a controcorrente di una tradizione radicata. Essa urtava un’usanza editoriale diventata per così dire una legge non scritta, affrontando il mito della doppia fondazione di una scienzia nova chiamata “marxismo”. Inoltre, essa spezzava il monopolio che la Mecca marxista possiede nel campo delle edizioni che si pretendono scientifiche dei “classici del marxismo”.

Se oggi ho la convinzione di essere riuscito, malgrado le difficoltà e gli ostacoli che è facile immaginare, in compenso, ho fallito in una simile impresa, ma molto più ambiziosa: il progetto di un’edizione del giubileo delle opere di Marx nel testo originale. La storica di questo scacco formerà indubbiamente un capitolo della Leggenda di Marx che ho in cantiere. Il mio progetto doveva conformarsi al desiderio dell’autore di far udire un appello sempre ricominciato e sempre attuale, una requisitoria eticamente giustificato.

L’edizione del giubileo doveva soprattutto far apparire perché quest’opera, non appena essa si afferma in simbiosi con le sue fonti apertamente o tacitamente riconosciute, ripugna a presentarsi come un tutto compiuto, il compimento non essendo concepibile in questo continuo processo di teoria e di prassi, orientato verso una fine chiaramente enunciata: la generazione della società umana o dell’umanità sociale, compimento delle concezioni degli utopisti, dei riformatori e dei rivoluzionari.

Non avendo mai ricercato l’approvazione o brigato il verdetto della confraternita degli specialisti, la disapprovazione dei Magister scholarum della teologia marxista non è affatto riuscita ad ostacolare la ricezione più che favorevole del mio lavoro di editore e di commentatore dell’insegnamento marxiano. Ciò che mi importava innanzitutto, è che questa edizione possa raggiungere gli ambienti ai quali Marx destinava le sue opere.

La classe operaia è rivoluzionaria o non è nulla“, ha dichiarato Marx, cosciente che tutti i prestigi del verbo dialettico rimangono vani davanti all’atteggiamento di rassegnazione o di sottomissione degli iloti moderni. A rischio di urtare l’opinione universalmente ammessa, affermo che la vita postuma dell’autore di Il Capitale è lungi dall’aver cominciato. Se è vero, come credeva Nietzsche, che “alcuni individui nascono postumi”, questa proposizione non si applica ancora a Marx.

In verità, i cento anni di marxismo trionfante dimostrano il contrario di una resurrezione spirituale di questo pensatore che si riconosceva essenzialmente nella sua attività di educatore in situazione di apprendimento permanente. Il trionfo del marxismo come ideologia del socialismo realmente inesistente dissimula di fatto una sconfitta flagrante: la carriera postuma del pensatore e pratico dell’etica proletaria somiglia a una lunga agonia piuttosto che a una presenza rivoluzionaria.

[Traduzione di Massimo Cardellini]