Il Sogno della Luna – Speciale 50° DSOTM Pt. II

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DSOTM

 “Sembrava fosse nell’aria da tempo.

Sembrava che qualcuno dovesse farlo.

Lo abbiamo fatto noi.

Discuterne oggi a 50 anni di distanza, con 50 milioni di copie vendute, pare che per i Pink Floyd sia sempre stato tutto facile. Eppure DSOTM, uscito nel 1973, in linea cronologica fu l’ottavo album di una band in attività da ben 6 anni (1967). Ci sono stati gruppi coevi che hanno rivoltato la storia del rock sin dagli esordi, si pensi ai Velvet Underground (The Velvet Underground & Nico – 1967), i Doors (The Doors – 1967), i King Crimson (In The Court of the Crimson King, 1969), ai Genesis (Nursery Crime nel 1971 fu il terzo album), ai Led Zeppelin (Led Zeppelin I e II entrambi del 1969). Per i Floyd non fu così, il riconoscimento del successo fu la conseguenza di un lungo rodaggio come gruppo. Non che l’esordio mancasse di qualità. “The Piper of The Gates of Dawn” uscito nel 1967 con l’ensamble ancora capitanata da Barrett nella sua apparente semplicità musicale era troppo avanti per poter essere compreso. Soprattutto fu un episodio isolato, labile, non suffragato nella continuità da un gruppo che di li a breve avrebbe mutato la bussola della propria modalità compositiva, trovandosi in crisi d’identità.

Il successivo “A Saucerful of Secrets” (1968)  fu un album di transizione, con un gruppo che aveva perso il faro della propria ispirazione. Iniziò un lungo e duro lavoro di fucina, di fabbri e architetti prestati alla musica, più che artisti, alla ricerca della propria dimensione sonora collettiva. “More“, colonna sonora dell’omonimo film di Barbet Schroeder, fu una buona palestra per tornare al formato canzone, una palestra di melodia, canzoni semplici eppur così evocative che poi la band avrebbe dilatato nei live iniziando a tessere le fila di una dimensione collettiva. E si arriva ad “Ummagumma” (1969), opera bifronte, tra le più sperimentali nel percorso della band. Un primo CD ritrae la band nella loro dimensione live, eseguendo brani dei dischi precedenti, dilatati in trance alla ricerca della musica d’insieme; nel secondo CD ogni membro porta delle composizioni singole, spesso sperimentali, ardite, ostiche, avanguardistiche.

Il cambio di decade, più che un passo in avanti, segna un passo laterale. E’ la volta di “Atom Heart Mother” (1970), la madre dal cuore atomico, dalla foto di una rivista di una donna incinta con il peace-maker. La suite campestre. Era l’epoca del rock sinfonico, e i Floyd non volevano restare in disparte, a costo di abbandonare, in parte, la loro matrice psichedelica. Atom fu una scelta ardita sotto ogni punto di vista; dalla copertina, una mucca, “Lullebelle III” che spaccava come un’opera di Andy Warhol, che non aveva il nome del gruppo in copertina; alla suite omonima, divisa in sei atti; inizialmente un tema western, a cui fu aggiunta un’orchestrazione di ottoni ad opera di Ron Geesin, a supporto di una band in crisi di identità. Gilmour e Waters arrivarono a rinnegare l’opera, difficile anche da portare sul palco, eppure Atom donò alla band il n. 1 in Inghilterra; fu anche il primo disco a ricevere il missaggio quadrifonico. I primi gemiti della chitarra gabbiano di Gilmour. Atom occupava la prima facciata del vinile; nel secondo lato composizioni singole, “If” (Waters). “Fat Old Sun” (Gilmour), “Summer of ’68” (Wright),  e un collage sonoro senza parole “Alan Psichedelic Breakfast” che sembrava sancire la crisi d’identità del gruppo, quasi incapace di procedere senza aiuti esterni.

Il 1971 fu la volta di “Meddle”, un recupero della psichedelica onirica propria della band. Un’opera discontinua che alterna capolavori a riempitivi, ma i capolavori sono autentici gioielli. Dalla minisuite d’apertura “One of These Days“, una nota di basso filtrata attraverso l’unità Ecorec Binson (suonato da Gilmour) su cui si stende la slide guitar di David, una voce distorta, un tripudio di energia diventata proverbiale in Italia come sigla del programma sportivo “Dribbling“. Segue una serie di canzoni non immortali, ma nel secondo lato, una suite che riempie l’intera facciata, contiene i semi della svolta. “Echoes“, suite psichedelica di 23:31 nata dall’unione di 24 frammenti sonori, inizialmente denominata “Return of The Son of Nothing: from 1 to 24” vede finalmente il gruppo, alla fine di un lungo rodaggio, mettere in scena se stesso, la propria musica, un invito al  viaggio. Un “Ping”, una nota di piano filtrata attraverso l’altoparlante Leslie valvolare da il là ad una dimesione fluida, liquida, in cui la poesia del testo di Waters si avvicenda alle voci legate di Gilmour e Wright; il tappeto di tastiere, le chitarre sognanti, evocano un mondo sottomarino che finalmente scorge la luce. Eternata dal “Live at Pompeii” (1972) la suite  segna il punto di non ritorno.

Pompeii“, film concerto registrato senza pubblico nei resti dell’anfiteatro (con alcune scene in esterna ai Campi Flegrei) regala una band allo Zenith delle proprie capacità espressive. E ci restituisce, tra un’intervista e l’altra, un gruppo che stava lavorando ai primi frammenti musicali che avrebbero reso leggendario “Dark Side” (On The Run, Us and Them, Brain Damage). Prima del capolavoro, c’è ancora spazio per un passo laterale, “Obscured by Clouds” (1972), soundtrack from the film “The Vallee“. Una raccolta di canzoni, quasi fuori tempo e fuori dimensione, per molti appassionati floydiani quasi fuori discografia.

Il solco era già tracciato, andava perseguito.

CrossPurposes

Il Ghigno della Luna – Speciale 50° DSOTM Pt. I

Il Sogno della Luna – Speciale 50° DSOTM Pt. IIultima modifica: 2024-07-22T22:32:06+02:00da CrossPurposes

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