159. la magia del Natale o la poesia del Natale?

Ed ecco tra poco sarà di nuovo Natale. Cerco di difendermi dalla tristezza che mi prende, dalla mancanza di tenerezza; mi ricollego con qualche ricordo, con le pagine in cui viene descritta la nascita di un bimbo in una notte di miracoli, ma sempre mi manca nel cuore la carezza che lo plachi, perché il Natale è la festa per me più bella ma, guardandomi intorno, ormai da molti anni non ho più idea di quale festa si tratti.
Io vedo consumo e istigazione al consumo. E’ il periodo dell’anno in cui ciò che vedo e percepisco somiglia di più al quadro ‘La nave dei folli’ che Hieronymus Bosch dipinse nel 1492. E per questo provo tristezza.

“Noi” festeggiamo il Natale cattolico-cristiano, cioè la nascita in forma umana sulla terra del Figlio di Dio. Per chi ci crede. E anche chi non ci crede festeggia in qualche modo questo Natale, perché sul calendario è un giorno segnato rosso, non si lavora; e anche perché per secoli la religione cattolica è stato il modello che, sempre qui da noi, ha pervaso e informato di sé la rappresentazione dominante del mondo. Nella festa cattolica non c’è nulla che parli di consumo, caso mai di dono gratuito, poiché Gesù è un dono per chi ci crede.
I miei Natale sono stati così: il presepe, la letterina di Natale sotto il piatto del babbo nella cena -parca- della vigilia, qualche piccolissimo regalo tra noi, la messa di mezzanotte, il pranzo –misurato- del giorno di Natale insieme a qualche parente; poi arrivò l’albero, non sapevo da dove, forse dalle città che cominciavano ad addobbarsi, forse da chi voleva festeggiare in modo laico e secondo altri riti religiosi: e il mio babbo andava nei boschi a prendere rametti di ginepro da addobbare e con cui ci pungevamo tutte le dita perché il ginepro ha gli aghi più pungenti di quelli degli abeti; poi i regali si fecero più impegnativi, se ne diffuse la distribuzione tra parenti amici conoscenti colleghi e ciò avveniva spesso più per forma e convenienza che per sostanza e convincimento: si insinuava il consumismo sotto forma di gentilezza. Poi tutto è aumentato in maniera esponenziale, ogni consumo sembra diventato d’obbligo, il Natale non è Natale se non c’è consumo. Il consumismo è entrato nella nostra vita usando ogni maschera.

Io festeggio il Natale cristiano. Fino agli anni dell’adolescenza a casa mia c’erano presepi stupendi grazie anche all’operato di mio padre; e c’era anche l’albero di Natale. Poi vennero gli addobbi in casa: palle argentate e dorate, angeli, nastri rossi, pigne. Gli addobbi erano laici e il presepe non proprio veritiero, perché un bimbo nato a Betlemme lo collocavamo in mezzo al muschio, accanto a ciocchi di edera e felci, e laghetti fatti con pezzetti di specchio; giusto le carte dello sfondo erano dipinte con paesaggi di sabbia e palme e sembrava normale una riproduzione di un paesaggio umbro a ridosso del deserto, anche perché il tutto veniva messo in pace con la carta-cielo fatta di un blu intenso, piena piena di stelline dorate che sembravano la rappresentazione dei nostri sogni. Ci sarà un motivo e più d’uno se a una persona poi, da grande, piace l’armonia, cercare ciò che unisce, andare d’accordo 🙂
Sono un’appassionata del presepe, forse per quegli spazi della mia casa che lo diventavano, forse per la predisposizione di mio padre e mia madre a creare in casa lo spazio che ricordasse un miracolo, forse perché, oltre quelli in casa, ho fatti-inventati tanti presepi in chiesa, forse perché il presepe lo ha inventato San Francesco, forse perché sono umbra, forse perché sono io … non lo so perché, ma lo amo, e ciò penso mi ponga in una posizione di insospettabilità se dico anche che già nella rappresentazione presepiale c’è un certo allontanamento dalla realtà dei fatti o, almeno, di quelli descritti nel vangelo.
Un allontanamento poetico, innocente, fatto addirittura da un santo. Un passo un po’ più in là che ci intenerisce il cuore, con i suoi riti dolci, il Bimbo che non deve essere messo nella grotta prima di mezzanotte, i pastori da decidere dove, “però guarda, questo con la mano alzata e il volto pieno di meraviglia, lo mettiamo sui monti, lontano dalla grotta, anche perché è più piccolo, vedi?” mi diceva il babbo “ e così rispettiamo le proporzioni e tutto sembra più vero” e già si era spostato a fare il fuoco coi bastoncini e la lucina rossa e tutto era insegnamento, tutto era condivisione.
Però era un passo più in là della realtà narrata, un passo che era andato bene per secoli insieme all’immagine di Gesù con gli occhi azzurri e i capelli biondi, ché dispiace anche un po’ scoprire poi che era scuro di occhi di pelle e di capelli, ci si sente un po’ presi in giro,  perché –si pensa- che ci voleva a farmi conoscere il Gesù vero, così diverso da noi? … anzi …
Ma è in quei passi un po’ più in là, è in quello spazio di allontanamento che si può cominciare a mettere ogni cosa, qualsiasi cosa che non corrisponda a quella vera, “tanto che male c’è?”…; e se poi sono cose dolci tenere – il regalo, il panettone, le città addobbate, il maggior consumo – che male c’è? Che male c’è se poi ‘natale non è natale se non consumi un certo prodotto’, se ‘è più natale se consumi un altro tipo di prodotto’, se ‘è natalissimo se ti intabarri nell’ultimo abito alla moda’, se ti fai la vacanza proprio lì, se mangi fino a stare male? Che male c’è se ti trovi chiuso in ferree prigioni dalle quali non puoi uscire, retto da leggi insane che ti hanno reso solo consumatore, spettatore e incapace anche della più evidente delle distinzioni?
Anche nel linguaggio c’è uno scivolamento e un’alterazione per suscitare e indirizzare al consumo attraverso mescolamenti. Nel Natale cattolico si parla di miracolo, si può parlare di poesia; nel natale laico si parla di magia e di poesia. E’ noto che in ambito cattolico non si parli di magia. Però noi siamo circondati di espressioni tipo ’la magia del Natale’ che includono anche la festa religiosa; e il termine-ponte è ‘poesia’. Così che il Natale religioso diventa un fatto magico, e allora ecco che babbo natale le renne gli elfi le fatine svolazzano intorno alla capanna della Natività, in un tripudio di sincretismo che non ha nulla a che vedere con il multi-inter-culturalismo e il sereno abitare insieme delle diversità, e nemmeno l’inevitabile  transculturalismo,, ma è l’ennesimo cavallo di Troia che serve all’avanzare del consumismo. Io non ho niente contro la magia, ma ho molto contro l’interesse personale che si insinua nelle relazioni, ho molto contro il doppio fine che sembra essere diventato l’elemento fondante dei rapporti umani e che si maschera di tenerezza(pseudo), bontà(pseudo) e giustizia (pseudo).

Lo stesso vale anche per chi vuole riproporre i riti celtici del risveglio della natura, del ritorno della luce. Amo conoscere le diversità anche in questo senso, e conosco i riti pre-cristiani e mi affascinano. E sia nel Natale cristiano che nelle festività pre-cristiane la festa era ricordata anche mangiando, tanto più che si viveva in povertà e la festa doveva fare la differenza, ma fino ai tempi della mia adolescenza –per lo meno nel mio mondo- si conosceva la misura. E la misura non era una legge esterna ed imposta, era una legge di connessione, cioè data dal conoscere le cose e dal sapersi rapportare. Era quella che la madre, insegnando alla figlia a cucinare, sulle dosi le diceva: ‘ti regoli’, chiamandola ad essere regina nel mondo, come ho scritto in altri precedenti blog, regina nel senso dell’archetipo della regina.

Trovo nella mia cassetta postale un dépliant che pubblicizza le iniziative natalizie organizzate dal comitato festeggiamenti del mio paese: vi si parla di cene, di alberi, di messa di mezzanotte, di vin brulè distribuito dopo la messa di mezzanotte, di tombole, di funzioni religiose, tridui e rosari, e si parla di comunità e di altro. Il titolo del depliant è “La magia del Natale”…. 🙁

E allora, poiché mi va di rispettare sia il Natale cattolico che quello laico-celtico-antico o qualsiasi altro Natale, io desidero quest’anno parlare di poesia, poesia del Natale. E di etica. E disegnare limen-superamenti con le parole, in questo mondo di parole-limes-consumistiche che ci illudono di convivenze mentre ci separano sempre più tra ricchi e poveri sul piano del consumo.
Nel mio calendario dell’avvento su questo blog parlerò, anzi, trascriverò parole di due personaggi umbri che amo da sempre, l’uno ateo l’altro credente, seppure di una religione ‘libera’; grandi nella loro cultura e nella loro vita, etici nella pratica quotidiana. Perché questo è il mio Natale: dopo e in mezzo a tante “belle” parole di tante “belle” persone che nella pratica hanno sferzato e sferzano colpi davvero bassi, ho bisogno di altezze e profondità, serietà e comportamenti diretti senza doppio fine.

Buon Avvento. Buon Tempo dell’Attesa, e mettiamoci dentro l’attesa come nel più bell’abito, viviamola, godiamocela , abitiamola fino all’ultimo secondo dell’Attesa prima dell’Evento.
Buon Tempo del Buio, e lasciamolo lì, ad essere buio fino al suo massimo; non lo tormentiamo con le lucine prima che finisca.
Sono tempi preziosi quelli dell’Avvento e del buio prima del ritorno della luce. Io una volta regalai il buio a un mio amico, non so se ha mai capito la preziosità del dono che gli feci,  ma io intanto gliel’ho regalato, è nella sua vita, pronto per ogni attimo in cui serve saper restare nel buio. Anche per me, per tutti noi, fa bene rispettare questo tempo del buio.
Non facciamo come i negozi e i centri commerciali che, col secondo-primo fine di vendere, si accendono di lucine false prima che il tempo della natura ci regali il primo secondo in più che dà inizio al ritorno della luce.
O prima che nasca un Bimbo lucente come l’universo.
E’ proprio in quegli ambiti che i simboli alberodinatale-renne-ecc. si evidenziano; e, davvero, ci vorrebbe una poderosa e arrogante incoscienza a mettere nelle vetrine-luoghi del consumo un presepe, che invece ci invita a ben altri tipi di ricchezza.
Atei, laici e/o credenti, difendiamolo il nostro Natale dall’assalto del predatore-consumo.
Insomma, è Natale, mica cose da poco.

E questo Natale parco e silenzioso, dolce e tenero e potente è la carezza tutta per me, quella che mi salva dalla tristezza e mi placa il cuore; è l’abbraccio che mi scalda a mezzanotte, la canzone d’amore che non è mai tardi che arrivi, il bacio sulla bocca che ci salva, come dice Fossati, e … guarda ‘quanto tempo nuovo che arriva con te’.

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https://www.redacon.it/2013/12/18/il-fascino-e-lincanto-dei-presepi-di-carta/

 

 

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http://www.leccesette.it/dettaglio.asp?id_dett=43557

158. origini e narrazioni

“Qual è oggi la visione del mondo che possiamo costruire?”
“E ditemi se tutta la cultura del Novecento non è debitrice a quella rottura epistemologica di paradigma. Quando cambia la visione del mondo, della materia, cambiano le relazioni con gli altri, cambiano le relazioni con noi stessi. L’identità, l’io, il rapporto con sé, l’amore, non sono più le stesse dei primi del Novecento […] nulla è più come prima.”
(Vittorio Tonelli, video youtube ‘Genesi: il grande racconto delle origini’)

“La storia della nostra civiltà non ebbe prima di sé e dietro di sé un pre-istoria. La nostra storia porta l’impronta di altre storie, dalle trame altrettanto intricate e altrettanto coerenti. E’ nata dalla fine di storie e dall’origine di nuove storie.
E’ nata dall’occultamento e dall’annientamento di civiltà materiali e di paesaggi mentali che un tempo avevano regolato la vita quotidiana degli uomini e delle donne. E nasconde anche la memoria, e spesso la nostalgia, di quelle civiltà e di quei paesaggi.”
(GIANLUCA BOCCHI, MAURO CERUTI, Origini di storie, Feltrinelli 1993, pp. 8-9)


Sto seduta al tavolo di un bar, in una posizione dalla quale posso vedere e ascoltare due donne che parlano tra loro, sedute al tavolo accanto al mio. Le chiamo A e B.
A: “E allora come va questa nonna? Come ti senti in questo nuovo ruolo? E la bimba, come sta?”
B: “Mah … guarda … quando seppi che lo sarei diventata, per i primi giorni sono stata molto preoccupata, perché mio figlio e mia nuora sono giovani, stanno insieme da quando erano ragazzini, non hanno  mai avuto altre esperienze … ho sempre temuto, anzi, mi aspettavo e quasi speravo che si lasciassero, perché conoscessero altre persone, magari per poi tornare insieme … invece addirittura hanno deciso di avere un figlio!”
A: “Beh, è una loro decisione. E’ la loro vita, sicuramente andrà bene. E la nipotina?” Cerca di riportare il discorso sull’argomento “nipotina”.
B: “Poi però, dopo qualche giorno ho cambiato idea. Ho pensato che il mio ex-marito non sta bene, e nemmeno io, con quello che ho avuto … chissà come andrà … E allora ho pensato che, però, con questa figlia mio figlio non sarà mai solo. Questa bambina è e sarà una presenza nella sua vita. E poi anche mia nuora me l’ha detto: in questi sei mesi, lui è già diventato più attento, più responsabile, più maturo.”

Penso a quella bimba, quella vita ancora piccola piccola e già definita-narrata “in funzione di”, in modo che sia funzionale alla vita di suo padre. Non ho visto sul volto della nonna un’espressione amorosa verso la nipotina, ma solo moti di orgoglio per aver avuto quelle idee salva-figlio.
Intorno alla bimba, ancor prima che nascesse, è stata costruita una narrazione (che però, da sola, ne include altre) di “persona funzionale a”, di “essere da sacrificare”; una narrazione che non la riconosce e non la rispetta per ciò che è, che non vuole ‘scoprirla’, bensì l’ha annullata come persona unica e originale ancor prima di nascere, che le ha affidato un compito, che l’ha resa strumento, oggetto da usare.
B è contenta di sé, ha parlato con autocompiacimento, con l’estremo orgoglio di sentirsi una brava madre che sa pensare al proprio figlio; totalmente inconsapevole della portata di ciò che sta dicendo;  chiusa in un’autopercezione che si soddisfa di ciò che chiama sentimento materno, per nulla scalfito dall’idea che oltre quel rapporto madre-figlio unicizzato, ci sono altre vite nel pieno diritto della propria eccezionale irripetibile singolarità.

E’ un esempio di narrazione, una tra le tante. Un racconto fatto all’origine di una vita su quella vita.

Racconti. Necessari. Ma racconti.

 

https://www.mauroceruti.it/origini-di-storie/

http://www.gianlucabocchi.it/chi-sono/

https://books.google.it/books?id=K3UQAQAAIAAJ&q=inauthor:%22Henri+Atlan%22&dq=inauthor:%22Henri+Atlan%22&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjwsJSIwJrmAhVwl4sKHcUrCd0Q6AEIKTAA

 

 

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Anassimandro (610 – 546 a.C.), Mappa del mondo

 

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Mappa del cielo alle alte energie, costruita utilizzando quattro anni di osservazioni del telescopio spaziale Fermi. I punti verdi indicano le posizioni dei 150 blazar usati nella ricerca sul fondo luminoso extragalattico pubblicata su <i>Science</i>.
Cortesia: NASA / DOE / Fermi LAT Collaboration

 

157. l’autunno lungo di mio padre

Quest’anno l’autunno è stupendo: i gialli, gli arancioni, i rossi delle foglie caduche si stagliano sugli sfondi dei verdi scuri e dei verdi argentei dei sempreverdi, in una sinfonia di forme e di toni da togliere il fiato per la bellezza.
A volte tutto questo si mostra su un cielo azzurro, a volte sono le nuvole grigie a far risaltare le forme e i colori, a volte è la nebbia a nascondere e far apparire secondo un disegno di armonia e di grazia.

Ho una parola per descrivere un autunno così, ed è “lungo”; e l’espressione completa è “autunno lungo”.
Me la regalò mio padre, tanti anni fa.
Gli stavo dicendo di com’era bello l’autunno quell’anno. Le foglie rimanevano attaccate ai rami e avevano il tempo di colorarsi, i venti e le piogge erano clementi e non le strappavano via, lasciandole al completamento del loro ciclo vitale, fino al naturale staccarsi e volteggiare poi a terra, per costruire un tappeto morbido e variegato, pronto a farsi concime per nuove vite.
Parlavo a mio padre con entusiasmo della bellezza tenera e forte dei paesaggi di fronte ai quali sostavo per ore, e lui mi ascoltò assorto, finché disse:
“E’ un autunno lungo”.
“Lungo?” ribadii.  “Cioè?”
E mio padre mi spiegò il significato di quell’espressione:
“E’ l’autunno che dura, è quello che vedi e che descrivi. E’ quando tutto sembra mettersi d’accordo – le piogge, i venti, la temperatura, la luce – affinché non ci sia niente di violento che acceleri il processo del distacco delle foglie, che così avviene in modo naturale, secondo i tempi suoi. L’autunno lungo è proprio bello.”, e mi sorrise.

Accade che a volte troviamo la parola giusta per dire quello che sentiamo. Accade molto spesso leggendo i libri, d’altronde è compito degli scrittori saper ‘nominare’ , novelli Adamo con lo speciale incarico di dire il mondo. E a volte accade ascoltando una parola, da una persona che conosciamo o anche ascoltandola per caso pronunciata da qualcuno. E quando accade è come lo spalancarsi di una finestra su un paesaggio , come l’aprirsi di un pezzetto di cuore, come diventare un po’ più ricchi, come il sorgere di un senso di appartenenza.
Così accadde a me, quella volta: una parola venne a occupare il suo posto in me nel mio processo di completamento; e fui strafelice che mi venisse da mio padre. Gli chiesi allora di ricordare insieme le prime parole che avevo pronunciato, e di ricordare qualcuna di quelle che proprio lui mi aveva insegnato. Giocammo un po’, io giovane donna e lui uomo anziano.
E ricorderò sempre le volte che col suo libro azzurro di astronomia in mano,  indicava, a me bambina,le costellazioni prima su quelle pagine e poi nel notturno cielo stellato, il suo dito puntato in alto, a congiungersi con l’universo e con una antica tradizione astronomica che aveva dato nomi di divinità a quelle stelle lontane.
“Ecco, vedi, quelli sono I Mercanti – e indicava Orione, nome che diceva dopo, con una certa riverenza – e vedi quella ‘w’? quella è Cassiopea.”
E così, passo dopo passo, a procedere tra le stelle, con i loro nomi che mi portavano subito in un mondo che già amavo, quello delle mitologie e dei loro eroi e delle loro divinità.

Ogni mio gesto, ogni mia parola contiene tutto questo, e chi sa amare riesce a vedere il mondo che c’è dentro una persona.
Tutto in me assomma nel presente ciò che ho vissuto nel passato e immagino del futuro. E’ per questo che nulla può omologarci, che nessuno può imitare o copiare un altro; e, nonostante il mondo spinga nella direzione dell’uguale, ognuno di noi ha il proprio autunno, le proprie stelle, il proprio padre.
Il mio, di padre,  è un autunno lungo che riempie di colori e di unicità tutti i giorni di ogni stagione della mia vita.

 

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http://www.nationalgeographic.it/popoli-culture/storia/2018/10/09/news/una_mappa_utilizzata_da_colombo_500_anni_fa_rivela_i_suoi_segreti-4147632/

 

 

156. figure di donna 15: io ti vedo

http://espresso.repubblica.it/foto/2019/11/25/galleria/femminicidio-dati-1.341154?fbclid=IwAR30dEPqxGQT7pPjRnuBUFbUWO4H-G6w2G91w62nQtmaxX-cI6KO4na_D4o#1

 

La sera ha già scurito il cielo e sono visibili alcune stelle, lucenti come l’aria di tramontana che ha portato via le nuvole.
Sta scendendo la notte e io sono qui, nel silenzio a me caro tanto quanto mi fu cara la tua voce che pronunciava il mio nome per dire la parola amore.
Oggi è la “Giornata mondiale contro la violenza sulle donne” e io, per quanto ne so del potere creativo del linguaggio, preferisco pensare a una “Giornata per lo sviluppo di animus e anima” o a una “Giornata di radicamento degli archetipi del femminile e del maschile negli uomini e nelle donne”, ma …
Ti penso in questa giornata, sperando che animus a anima vengano a farci crescere e confortarci a vivere con la loro incommensurabile completezza.
Quando ti conobbi era ancora in me un briciolo di fiducia, credevo ancora di poter vivere un rapporto sano con qualcuno, avevo granelli di sogno sparsi nel mio cuore.
Dopo che te ne sei andato, un vento tempestoso ha portato via anche quei frammenti di speranza, lasciando una terra di deserto e le mie lacrime.
Spero che arriverà il momento in cui sarò capace di non pensarti più, l’attimo in cui le  lacrime risveglieranno i semi che ogni terra, anche la più desertica, ha in sé copiosi e inaspettati.

Io non ero un porto di mare, come non lo sono adesso; non faccio sesso come sport; non vado alla ricerca di uomini con cui saziare voglie. Sono una persona, come lo sei tu; sono un essere umano, come lo sei tu; ho desideri, speranze, dolori, progetti, lacrime, sorrisi, proprio come te. Ma probabilmente abbiamo un modo molto diverso di considerare tutto questo.
Sei arrivato colmo di fascino avvolgente, sembravi il luogo magico dove potevo poggiare tutta la mia vita, l’inaspettata radura dentro un bosco che, negli anni, si era fatto oscuro e inestricabile.
Si può uccidere in tanti modi, per esempio avvicinandosi come un dio e poi allontanandosi come un bambino ferito; e in mezzo la progressiva discesa da dio a uomo a bambino arrabbiato. Tu lo hai fatto, all’inizio ammaliando con ogni mezzo quella mia speranza e alla fine allontanandoti per conservare tutto quello che per breve tempo sembravi aver messo in discussione. Come sono strane quelle persone che si riassettano in un loro mondo palesemente in crisi, falciando da se stesse rami e radici vitali per la sopravvivenza…
Ma all’inizio era tutto meraviglioso: l’impossibile sembrava diventare possibile.
Altrimenti perché ti eri mosso? Perché eri uscito dalla tua vita certa e costruita? Perché eri uscito verso me?
Io non pensavo che certi passi si facessero per scherzare, per vedere come va, per fare un tipo di sesso che potrebbe essere soddisfatto in altro modo.
Perché io? Questa domanda è l’aratro che spacca la terra di tutto ciò che sono, e spero che i solchi aperti prendano tutta la pioggia e il sole e l’aria necessari a che nuova vita rinasca da quelle ferite.
Ho una ferita a forma di speranza, lo dico da sempre, e tu hai preso quella speranza per farla diventare l’arma con cui aprire ancora di più quella ferita.

Non lo so perché hai fatto questo con me. Perché ti sei affacciato, perché hai navigato,  perché hai scrutato un altro mondo e ti sei fermato al mio porto; o, forse, ‘anche’ al mio porto, uno dei tanti, uno insignificante per te; qualsiasi cosa per dimenticarti un po’, o per ricordarti.
Non lo so, tu non hai dato spiegazioni, sono io a dover arrovellarmi per trovare un senso che mi salvi.
Tu potevi fare tutto, anche offendermi, anche dirmi impunemente che forse amavi un’altra. Io, appena manifestato il mio disagio, sono stata lasciata in un angolo del tuo cammino, senza una parola, senza chiedere scusa. In quel mutismo sono affondata e nessuna barca è passata a salvarmi.
Si uccide anche così. Non mi hai vista, non mi hai voluto vedere; e ciò che hai visto di me lo hai usato per farmi del male.
Pensavo all’amore, io che ci credo davvero. Tu a farti una passeggiata dentro la mia vita.
Tutto qui.
Con la scusa di una moglie che non ti soddisfaceva sessualmente; con la scusa che eri single perché non avevi trovato quella giusta; con nessuna scusa, seducendo e basta; con la scusa che ti eri innamorato ma che non potevi lasciare la tua vita; con la scusa che eri mio marito; chiunque tu fossi e qualunque cosa tu dicessi non ti palesavi per chi eri né eri sincero. E quali altre scuse? Non le ricordo più tutte quante, ma sono variazioni su questi temi.
E arrivando da me su vascelli di eleganza, cultura, simpatia, disponibilità, per poi chiudermi appena dopo dentro il buio spazio dell’abuso, perché non c’era un patto alla pari, ma solo la tua strategia, il tuo scopo, di cui solo tu conoscevi la reale entità, che tenevi ben nascosta dietro i tuoi trucchi da quattro soldi.
Ce l’hai fatta ancora una volta a succhiare l’energia vitale da qualcuno, e questa volta ero io.
Così va il mondo, diresti dal luogo dove ti metti, pensando che sia alto e irraggiungibile per eccellenza e perfezione.
Invece il mondo va come lo mandiamo noi esseri umani.

E io sono orgogliosa di non averti trattato come tu hai trattato me. Sono orgogliosa di averti rispettato, accolto, amato; di aver messo fiducia tra me e te.
Di aver mandato il mondo, mentre ti frequentavo, nella direzione verso cui indirizzano animus e anima, verso l’armonia.

E’ scesa la notte e il silenzio è ancora più avvolgente. E’ buio in casa, la luce del camino manda i suoi bagliori sulle pareti e sul mio viso, mentre il crepitio della legna secca che brucia interrompe ogni tanto la quiete di questa solitudine.
Anche questa solitudine è a forma di speranza. Io so che tu mi saprai amare,  so che io saprò amare te.
E finiranno queste Giornate di ricorrenze amare. E nasceranno giorni fatti da donne e uomini, e ci saremo anche noi. Senza ferite e senza speranze.
Con la splendida certezza di essere cresciuti e di saper amare.
Sapremo dirci “io ti vedo”, nella pienezza del suo significato.

 

155. mi addormento

“mi addormento immaginando che qualcuno mi faccia carezze”

“mi addormento immaginando cosa farò domani”

“mi addormento pensando a quando ero felice”

“mi addormento pensando a una cosa bella che mi è successa”

“mi addormento ricordando come mi guardava”

“mi addormento immaginando che qualcuno mi ami ancora”

“mi addormento facendo i conti con quei due soldi che ho”

“mi addormento senza pensare più a nulla”

“non mi addormento”

“mi addormento immaginando parole dolci tra i capelli”

“mi addormento in mezzo ai suoi baci”

“mi addormento stremata su questo barcone, ho paura, spero di arrivare in Europa”

“mi addormento sperando di guarire”

“mi addormento pregando di avere una buona morte”

“mi addormento pensando che domani inizierò la prima elementare e sono emozionata”

“mi addormento chiedendomi cos’ho che non va,  perché se ne vanno, perché lui mi ha trattata come fossi un suo scarto, l’immondizia della sua vita, da buttare via”

“mi addormento pensando che sono un codardo”

“mi addormento pensando che ogni tanto ci ho provato a fare il salto ma poi ho fatto tornare tutto come prima”

“mi addormento ringraziando”

“mi addormento e basta, non penso a niente”

“mi addormento sentendo il calore delle coperte”

“mi addormento viaggio ritorno mi addormento mi addormento”

“Dorme profondamente perché è profondamente amato”
(dal film ‘Il gladiatore”, l’imperatore Commodo
guardando suo nipote dormire serenamente)

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https://www.corriere.it/liberitutti/18_settembre_07/geografia-lezione-tegucigalpa-non-sappiamo-piu-citare-capitali-ddbca7e6-b2c1-11e8-af77-790d0c049f1d.shtml

154. la biografia è il luogo irriducibile a ogni omologazione

Che c’entrano i post autobiografici – e saranno veramente autobiografici? – in un blog che si diverte a dire di narrazioni, di selezioni, di ordini del discorso ecc?

La prima selezione-narrazione che viene fatta è quella su di noi dai genitori, dall’ambiente famigliare parentale e sociale, dalla storia che ci ha preceduto e poi la facciamo noi di noi stessi a partire dalle precedenti basi narrative. Le narrazioni vengono anche chiamate educazione, a un certo punto. E anche educazione ufficiale, omologata, istituzionalizzata quando entriamo fiduciosi timorosi speranzosi nella programmazione dell’istituzione scolastica.
Per dire, all’inizio degli anni Novanta mi rifiutai di partecipare a un concorso per insegnante elementare perché nel testo della Premessa ai programmi specifici, che avrebbero guidato le mie attività di maestra, la parola “fanciullo” compariva dopo circa quindici righe, preceduta da “cittadino”, e questo per la prima volta rispetto a tutti i Programmi precedenti.. La Premessa costituiva la base che ispirava poi i programmi dettagliati per materie; era l’impianto ideale; il fondamento gettato da pedagogisti, psicologi, giuristi, filosofi, specialisti delle varie materie e sul quale costruire ogni gesto delle didassi.
A me  sarebbe piaciuto lavorare in modo che la prima attenzione fosse data al “fanciullo”, all’essere umano e non a uno degli aspetti che quell’essere umano avrebbe agito nella sua vita. Così salutai il mio Direttore Didattico, che gentilmente si  era offerto per seguirmi nella preparazione al concorso (se non fai l’insegnante tu, chi la può fare? mi disse mentre mi pregava di continuare a studiare con lui) e, tutta colma di una serie di ideali su cui ancora mi interrogo, mi avviai convinta di trovare altri lidi dove costruire la famosa “vita migliore”.
Ho il dubbio che il passaggio da fanciullo a cittadino, come un perfetto Cavallo di Troia, già delineasse la strada attraverso la quale , con ulteriori passaggi concettuali, si sia arrivati a “consumatore, fruitore, spettatore, imitatore”, definizioni  che, se non espresse nei testi dei programmi scolastici, costituiscono però le tristi realtà con cui adesso ci troviamo a far conto come “esseri umani”, disumanizzati.

Ecco quanto sopra, per dire come un apparente innocuo spostamento di finalità definisce e seleziona e narra un essere umano tra le pareti delle aule scolastiche.
E per dire anche come la biografia sia un elemento fondamentale delle relazioni e come l’autobiografia possa essere una via maestra nel cammino del raggiungimento della chimerica araba fenice –ormai sembra –  della consapevolezza.

La biografia è il luogo irriducibile a ogni omologazione.
Per quanto tutti possano vestire secondo le proposte della moda, mangiare lo stesso cibo consigliato da programmi televisivi e pubblicità, orientarsi nelle scelte disorientati da ciò che viene sottilmente – e nemmeno più tanto sottilmente- imposto da un sistema che vive, anzi sta morendo, di economia; per quanto ci sentiamo di esistere solo se inseriti dentro qualcosa, indirizzati e uniformati; per quanto la singolarità possa essere guardata con sospetto e diventata quasi sinonimo di follia o di qualcosa appartenente alla sfera semantica della dicotomia “perdente/vincente”; per quanto possiamo esserci ridotti così, ridotti proprio anche nel senso di rimpiccoliti, rimane però la biografia come dispiegamento di dettagli irriducibili, ineguagliabili e ineguagliati.
Quei dettagli sono momenti preziosissimi per scorgere in se stessi quei semi di un’identità dinamica intesa anche come spazio di continua proposta di un’ulteriorità, luogo dove si rende possibile il cambiamento, la maturazione, la crescita.
Pur se la nostra biografia è inserita da subito in narrazioni altrui, è proprio dal multidimensionalizzarsi delle narrazioni che può aprirsi la finestra da cui scorgere il seme che ci rende unici e irripetibili e, come tali, responsabili ad altissimo livello della nostra e delle altrui vite, intese proprio come singolarità impareggiabili, da salvaguardare da ogni massificazione, da far riemergere nella loro potente capacità di costruttiva, collaborativa, partecipativa originalità non consumistica ma creativa.
Se proviamo, come tenero divertimento, a raccontare di noi, vediamo pattern che tendono a ripetersi; allora facciamo il gioco di raccontarci in modi diversi, ‘alterando’ lo sguardo, cambiando prospettiva, giocando su memoria e oblio, per esempio; o con i luoghi, o da qualsiasi punto di vista.
Ci accorgiamo così di dettagli che potrebbero essere sfuggiti o dimenticati; accade un arricchimento; scopriamo ‘noi stessi’ come fossimo altre persone, emerge quella nostra unicità di ‘esseri’ e di esperienze che ci riporta nella posizione di umani originali unici, e perciò connessi e relazionati.

Autobiografia e diario sono strumenti utilissimi per questa via del tornare a conoscerci irripetibili e contemporaneamente rapportati.
E’ anche per questo che, come già scritto in un altro post, ho consigliato a una classe di quarta elementare di comporre un diario, a partire da un diario di fine Quattrocento e inizio Cinquecento scritto da un notaio orvietano e conservato nella Sezione di Archivio di Stato di Orvieto. Insieme a questo testo ho fatto vedere cronache e documenti comunali composti come racconti.
In che modo narriamo gli eventi e ci narriamo? Cosa scegliamo di narrare-selezionare, di noi e degli altri e dei fatti? I bambini e le bambine lo stanno facendo, sostenuti da insegnanti entusiaste del suggerimento.
Con loro, andiamo a “scoprirci”, come fossimo un continente nuovo a noi stessi, pronti alla meraviglia e all’accoglienza di ciò che in noi scorgiamo fiorire fuori da ogni omologazione e, invece, dentro le relazioni.

Ecco il perché dei post autobiografici: l’autobiografia narra dettagli unici, sfugge agli ordini dei discorsi, è una selezione-narrazione preziosa sulla via dell’identità che non si fa identificazione, l’identità unica e necessaria perché la storia del mondo e dell’universo-multiversi sia completa.

http://lua.it/

http://archiviodiari.org/

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https://www.doppiozero.com/materiali/europa-violata-e-diabolico-mar-mediterraneo

https://www.hoepli.it/libro/volando-sul-mondo-opicino-de-canistris/9788877687029.html

PAESAGGI DI ME. MAPPE E AROMI PER UNA BIOGRAFIA MIGRANTE.

https://www.doppiozero.com/materiali/lambiguo-charme-della-mappa

https://www.varesenews.it/2019/09/lautobiografia-del-lago-varese-pesci-acque-pescatori-si-raccontano/855868/

https://www.giuntitvp.it/blog/geoblog/le-mappe-e-il-mistero-delle-citta-di-carta/

 

 

 

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https://www.einaudi.it/catalogo-libri/storia/storia-moderna/la-mappa-della-cina-del-signor-selden-timothy-brook-9788806230678/

https://www.lindiceonline.com/focus/storia/timothy-brook-mappa-cina-selden/

 

153. quel gesto

Di chi ho amato e che se ne va, se ne va sulla strada che non ha ritorno su questa terra, non conservo oggetti-feticci. Sono persone, e per questo di una tale meravigliosa ricca complessa vita che non voglio ridurle a ricordo oggettuato, a una specie di oggetto transizionale sostituto di chi se ne è andato via per sempre e di cui la mia precaria adultità avrebbe bisogno per crescere.
Non mi sento di relegare le vite e il ricordo di esse nel mio mondo, di farle “diventare per me”, ma mi sento  invece di aprirmi ad esse,  di accoglierle in me, di  mutarmi attraverso esse, i loro doni, i loro comportamenti diventati miei comportamenti.
E’ questo il mio modo di ricordare chi ho amato: fare mio un loro gesto, un gesto che io  prima non facevo o facevo non pensando a lui/lei, un intero comportamento fatto di tanti gesti di cui io divento ricca e che continuo a far esistere.

Negli anni della mia infanzia, in una parte dello spazio esterno che circonda la casa dei miei genitori, mio padre aveva fatto un piccolo orto. Piccolo, ma fertile grazie alla sua cura perseverante; avevamo le verdure per noi in ogni stagione. Il mio babbo ha sempre sentito la sua responsabilità di capofamiglia, ma non in modo patriarcale, bensì collaborativo e quindi si dava molto da fare quando tornava dal lavoro per il mantenimento e lo sviluppo della sua famiglia: si dedicava a tutti i lavori che c’erano da fare in casa e aveva fatto quel suo orto per darci cibo buono. Per me bambina, era un luogo magico che guardavo annusavo attraversavo, rimanendo particolarmente incantata da tutti i gesti che faceva il mio babbo: legare le canne su cui si sarebbero inerpicate le piante dei pomodori; costruire il recinto di canne intrecciate; formare i piccoli solchi per poter innaffiare meglio; potare i rametti secchi, raccogliere frutti del suo lavoro, e qui partecipavo anch’io, con quell’atto quasi fatato del distacco del frutto dal ramo dov’era cresciuto; togliere le erbacce che avrebbero soffocato prezzemolo, basilico, zucchine, peperoni …

La mia nonna materna veniva a trovarci spesso e si fermava da noi a dormire o per qualche giorno. E quando veniva non stava mai ferma, era una donna abituata a lavorare, anche duramente -la vita non le ha fatto nessuno sconto- e aiutava la mamma in casa, cosa alquanto naturale. In più, faceva una cosa, sempre: si metteva a togliere le erbacce sia dell’orto che del piccolo giardino, il quale era di competenza di mia madre.
Io la guardavo e vedevo una gratuità, una generosità, una felicità del dono che mi affascinava. Doveva stare piegata con la schiena per raggiungere la terra e, velocemente, strappava le erbacce, tenendole in mano finché formavano un mazzetto che poi buttava in un cesto. Le sue mani avevano una grande perizia nel fare questo e osservarla era come una scuola.

Dopo che se ne è andata, cominciai a fare attenzione quando io toglievo le erbacce nel mio giardino, cominciai a provare tenerezza per quel gesto che mi accomunava alla mia amatissima nonna e decisi di farlo proprio pensando a lei, in una forma di ricordo che onorasse la sua vita con la mia vita. Così, ancora oggi, ogni volta che tolgo le “erbacce”, lo faccio pensando a lei, e lo faccio allo stesso modo suo, instaurando una specie di filo dorato che ci unisce nella vita.

Chissà, forse perché anche lei aveva fatto una cosa simile nel ricordare suo marito, morto prematuramente. Lui, quando si cambiava per le feste, si metteva un garofano all’occhiello e così fu immortalato in una foto che giganteggiava nella camera da letto dove la mia nonna dormì sola da quando lui se ne andò. Ebbene, lei coltivò per tutta la vita garofani.

Quello è l’insegnamento: ricordare con la vita, con la propria vita chi se ne è andato. Non con un oggetto, ma con un gesto scelto e che ci accomuna.

Quel gesto.

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152. i gesti

Ma guarda – guarda come porta di scatto la mano indietro,
alla base del collo. Per questi gesti ci si può innamorare, per tutta la vita.

(Virginia Woolf)

Ogni gesto è un evento, si potrebbe quasi dire: un dramma in sé.
(Walter Benjamin)

 

Un quadro, una statua, un gruppo scultoreo, un disegno nascono pensati, organizzati, studiati, quando non anche commissionati. Sono l’espressione di un pensiero e di uno stile personale, sono la comunicazione di un’epoca. Sono fissate in essi pose ed espressioni; parlano o nascondono concetti e idee: sicuramente nelle opere del passato ci sono significati per noi più nascosti a causa della distanza nel tempo e del cambiamento delle visioni del mondo e delle loro rappresentazioni;  e di quelle del presente il nascondimento è soprattutto dato dal linguaggio usato.
Ma c’è un dire che travalica i tempi e i linguaggi, ed è nel porsi delle opere d’arte in modo nudo, palese e immutabile; un fermo immagine del movimento che poi l’invenzione della fotografia ha sottolineato e reso bene con gli autori come Eadweard Muybridge, Marcel Duchamp, Etienne-Jules Marey, Giacomo Balla i quali si interessarono al movimento come soggetto fotografico, fissando gli attimi di cavalli in corsa, le sequenze di un salto con l’asta, la cronosuccessione dei passi di un uomo che scende le scale, ecc.
L’attimo: che si pone di fronte a noi come dimora di un senso, sempre uguale per l’intento con cui è stato fatto, e sempre nuovo per i sensi attribuiti da chi lo guarda.
L’attimo, che solo nudo potente e inerme può essere.

Ci sono storie di natura molto pratica dietro quadri, statue e disegni, a volte nemmeno tanto belle; ma poi le opere d’arte sono lì davanti a noi, esposte, mostrate, scoperte in quell’attimo che dura un attimo e che dura secoli e millenni, con tutto ciò che dicono e con tutto ciò che tacciono, e molto del loro silenzio diventa la voce del nostro silenzio, ed è per questo forse che vorremmo ci dicessero tutto quello sono e che rappresentano, in una totale apertura e chiarezza di senso di quell’attimo, loro e nostro.

E lì, in quell’attimo rappresentato e fissato dalle opere d’arte, io mi tuffo a cercare particolarmente alcuni dei gesti raccontati, quelli della gentilezza, della cura, della tenerezza, dell’accudimento; e, tra questi, mi lascio affascinare dalle Madonne con Bambino, dipinte o scolpite in mille modi diversi per rappresentare quella relazione esclusiva tra madre e figlio, eppure aperta al mondo. Le manine del Bimbo sono poggiate a toccare la sua Mamma sul collo di lei, sulla spalla, sul seno, sul braccio, sulla guancia; a offrirle cose; la testa e gli occhi di entrambi a sfiorarsi per non-dire e dire tutte le parole che noi possiamo immaginare guardandoli.
Ma a cercare bene, quante carezze, quante mani che si stringono, quante braccia protese, quanti abbracci in ogni rappresentazione artistica..
L’arte sacra racconta meravigliosamente i momenti biblici che io preferisco, colmi di gesti incantevoli: la Creazione, il Diluvio, la Torre di Babele, l’Annunciazione, l’Incontro di Maria ed Elisabetta, la Natività, la Fuga in Egitto, la Deposizione, la Resurrezione, i Discepoli di Emmaus.
Vado indietro nel tempo, e nelle grotte i dipinti sono addirittura impronte di mani, come a dire il gesto artistico in sé, quello che origina praticamente l’opera d’arte: la manualità, la perizia, la pennellata che imbratta le mani, lo scalpello che imbianca di polvere le mani, la matita che scurisce le mani. Le mani: lì è il gesto. Le posture: lì è il gesto. Le espressioni: lì è il gesto. Il gesto, lì sono i pensieri le parole i silenzi.
E cerco quindi i gesti della tenerezza della gentilezza della cura dell’accudimento: sono durati fino a me; rappresentano un filo dorato che attraversa i tempi e gli spazi e definisce la grazia di ciò che è umano; sono maestri quando il presente tende a dimenticarli.

Ed ecco … un velo che due mani posano su un corpo; la mano di un bimbo e la mano della sua mamma unite  dalla dolcezza del loro amore; una ragazza che si volta sorpresa all’apparire di un angelo; un pastore che si porta una mano alla fronte per guardare la stella che lui vede per primo; un cagnolino che volge il musetto verso il suo umano; un filosofo seduto sui gradini di una maestosa costruzione, abbandonato quasi, con il gomito a reggersi, le gambe distese, tutto sembra rilassato in lui dentro l’unica tensione della sua mano che regge il foglio; puttini appoggiati alle architetture di un’apertura che s’apre sul cielo nel soffitto di una camera dedicata agli sposi …

I gesti.

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151. solo un piccolo gesto

Ci sono gesti.
Che se ne vanno. Che non si fanno più. Perché cambiano i tempi, gli stili di vita.
E ci sono gesti nuovi che nascono.
Non sempre è bene che alcuni gesti non si facciano più.
Non sempre è bene che alcuni gesti si comincino a fare.

Oggi un gesto piccolo piccolo, è per lui che scrivo in questo pomeriggio di novembre, fuori gli alberi gialli e verdi, e un po’ di sole e poi pioggia.
Perché io sono affascinata dai gesti, posso stare ore a guardare come si muovono le persone, ed è quello che più guardo nelle rappresentazioni artistiche dei quadri o delle statue.

Le braccia spostate in avanti, le mani aperte, protese verso il fuoco a scaldarsi. La fiamma che scalda e illumina, e le mani verso quel calore, e poi le mani a sfregarsi l’un l’altra, per scambiarsi il calore e cominciare a distribuirlo al corpo con lo sfregarsi delle mani, con la schiena che si incurva e con i piccoli passi che si fanno in quel momento. E poi le mani di nuovo a prendere il calore, come avamposti, come esploratori, come fiducia.

Tutto qui.
Quel gesto piccolo piccolo, fatto mille volte, oggi di nuovo di fronte al camino acceso.
Il camino è un luogo è un mondo di fronte al quale e in cui vengono compiuti tanti gesti.
Oggi solo questo piccolo gesto dello scaldarsi le mani.
E il cuore.

Ho studiato parole nuove in diversi ambiti: sportivo, pubblicitario, letterario, lessico familiare e molto altro.
Ho studiato i gesti nell’ambito della comunicazione, e quanto possano essere stereotipizzati nelle narrazioni o da alcuni modelli interpretativi.
Ma sono attratta anche da ciò che si perde: le parole che scompaiono, i gesti che scompaiono. Perché scompaiono mondi e idee e visioni del mondo.

Un piccolo gesto. Le braccia tese in avanti, le mani protese verso il fuoco.
Tutto qui. In mezzo ai tanti e importanti gesti del mondo, solo questo piccolo piccolo gesto.
Ma spero che si continui a farlo finché esiste il mondo.

 

 

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149. storie dovunque, storie dei nomi, la storia siamo noi

Ci sono storie dovunque, il mondo ne è pieno: ogni luogo ha una storia, ogni tempo ne ha tante; ogni  persona ne ha mille e mille, una per esempio è la storia del suo nome, che è anche la storia di un sogno dei suoi genitori, o dell’imposizione di una tradizione famigliare, o il suggerimento di amici o parenti.
Adoro le storie, mi piace ascoltarle, specialmente quelle sconosciute, da scoprire. Sarebbe bello addormentarsi dentro una storia, mi sarebbe piaciuto la sera, quando tutte le cose del giorno sembrano compiute, scambiarci col mio amore una storia come avvio alla notte. Lo fece invece  tanti anni fa un mio caro amico che, saputo questo mio desiderio, propose di leggermi al telefono storie che “io non ho scritto e non le so inventare, ti leggo storie di altri”; e facemmo un patto: lui leggeva e ogni tanto diceva il mio nome, se io rispondevo lui continuava, altrimenti smetteva perché il mio silenzio significava che mi ero addormentata. Fu un bel periodo di tenerezza e coccole amicali. Da diversi anni, a volte la sera vado su youtube e mando “L’uomo che piantava gli alberi”, sia nella versione italiana che in quella francese, mi accoccolo dentro quello che  per me è uno dei racconti più belli del mondo e mi addormento.

Mi piacciono le storie che narrano le piccole storie, mi affascina sapere per esempio come si è giunti a scegliere un nome. Forse perché la storia del mio nome è un po’ avventurosa. Forse perché mi emoziono quando sento pronunciare il mio nome o quando io pronuncio il nome di un’altra persona. E il bacio più bello fu quello che ‘lui’ posò sulle mie labbra pronunciando il nome col quale gli avevo chiesto di chiamarmi, sembrava un dono vero, purtroppo non lo fu.

Mia madre mi pensò come Mara per tutto il tempo della gravidanza, e non mi ha mai saputo dire da dove le fosse giunto quel nome così inusuale per i tempi e il contesto del mio paesino all’epoca in cui venni al mondo. E sembra che mio padre avesse espresso il desiderio di chiamare Giuseppe un eventuale figlio maschio.
I miei vivevano nella casa dei nonni paterni, dove abitavano anche il fratello e la sorella minori di mio padre, il quale aveva anche un fratello maggiore che era disperso durante la campagna del Don della seconda guerra mondiale. Questo mio zio si chiamava Luigi ed è stato un’assenza molto presente nella mia famiglia e nella mia storia personale, essendo stata forte prima l’attesa di un suo ritorno e poi la ricerca di sue notizie e della sua ‘eventuale’ morte: eventuale, perché furono sempre vive nei miei nonni l’idea e la speranza che il figlio potesse aver scelto di rimanere a vivere in Russia, magari avendo incontrato una donna, così come si era sentito dire di qualche soldato.

Io nacqui in casa di sera, ero femmina, fui Mara. Il babbo si dimenticò all’istante del nome Giuseppe e di tutti i nomi maschili del mondo; rifiutando l’invito di un suo cugino che gli offriva ospitalità per la notte, dormì su un materasso messo in terra dalla parte del letto dove dormiva mia madre “eri nata tu, mica potevo lasciarti e andare a dormire da un’altra parte”, perché nel letto, accanto a mia madre, si appoggiò per la notte la mia nonna materna venuta da un paesino vicino; e la mattina dopo, in piena letizia per la sua novella paternità, lui andò in Comune a registrare la mia nascita, con la sua Moto Guzzi rossa e bianca e la semplice felicità nel cuore.

Tornato a casa, vide scoppiare la terza guerra mondiale tra quelle mura. I nonni paterni si offesero e arrabbiarono perché non mi era stato dato il nome “Luigia” in onore e memoria dello zio Luigi. Addirittura non portarono il cibo a mia madre, a letto nel piano di sopra, e tornò la nonna materna con i fagotti pieni di cibo rimasto ancora caldo per come aveva camminato veloce verso quel latte che avrebbe potuto smettere di uscire dal seno di mia madre.
L’indomani mattina, presto, mio padre tornò in Comune per cambiare il nome e riportare la pace in una famiglia che, certo, non aveva dato prova di comunicare molto durante la gravidanza di mia madre.
Per cambiare un nome ci volevano moltissimi soldi, che mi padre non aveva, e allora l’impiegato comunale gli consigliò di aggiungere Luigia a Mara e poi di chiamarmi come preferivano. Mio padre accettò la proposta e a casa cominciarono a chiamarmi Luigia.
Ma non era finita qui. Il giorno del battesimo il parroco non volle accettare il nome Mara perché, diceva lui, era russo e quindi comunista, e quindi non cristiano, dimostrando una certa ignoranza della bibbia, dove Noemi, che significa ‘signora della gioia’, prese il nome Mara, che significa ‘signora triste’, in un momento di grande dolore della sua vita. Così, nonostante le rimostranze famigliari, scrisse sul registro parrocchiale dei battesimi “Maria Luigia”, ma mio padre perse proprio la pazienza e su quel registro è bella visibile una ‘x’ con la quale l’imponente don  Giuseppe si affrettò a cancellare la ‘i’ di Maria, autorizzando nel suo cattolico mondo lo  sconvenientissimo nome Mara, laico, russo e comunista.

Fui Luigia per tutti da quel momento. Ma a me piaceva di più Mara e in prima elementare cominciai le mie rimostranze, così che a scuola, e solo a scuola, cominciarono gli insegnanti a chiamarmi Mara.
In famiglia rimasero irremovibili su Luigia, anche se nel frattempo i miei genitori erano andati a vivere da soli, e allora ci fu un periodo in cui chiesi di essere chiamata al maschile, Luigi -mi sembrava molto più carino di Luigia- ma la richiesta ovviamente cadde nel più dimenticato dei dimenticatoi.
Negli anni successivi qualche parente – quelli che abitavano lontani – cominciò a chiamarmi Mara quando venivano a trovarci. Durante le medie e le superiori Mara si prese la sua rivincita a scuola, non certo a casa, dove ero Luigia -‘ ma poi che dice la gente se comincio a chiamarti Mara? , diceva mia madre- e tale quindi ero per tutto il paese e, purtroppo, per gli amici del posto, che già con questo dimostrarono di non essere proprio amici amici.

Da ragazza immaginai che ‘l’amore della mia vita’ – sono una ragazza d’altri tempi adesso, figuriamoci allora che erano proprio gli altri tempi 🙂 e figuriamoci se non  pensavo che esisteva, per tutti,  ”l’amore della vita’ – avrebbe trovato una sintesi tra i miei due nomi, proprio perché sarebbe stato l’amore della mia vita, cioè che avrebbe amato la mia vita.
Quello che credevo fosse l’amore della mia vita non mi chiamava nemmeno per nome – avrei dovuto capire già qualcosa da questo? 🙂 – perché usava solo appellativi, amorosi sì, ma non il mio nome.
Io, intanto, avevo maturato un grande interesse per “il nome” e mi ero studiata di tutto, da Dio che dice ad Adamo di dare il nome alle cose, alla figura grammaticale dell’apposizione, che consiste nell’utilizzare un nome in funzione di attributo, cosa che normalmente la fa un aggettivo.
L’unione tra i miei due nomi la fece un caro amico, nella seconda metà degli anni Ottanta, durante un pomeriggio romano in cui gli raccontai questa storia e il mio desiderio.
E fu “Malù”. C’era una pornostar, all’epoca, con questo nome, ma io scherzando, dissi ‘non temo confronti’ e fui “Malù” da quel momento.
Poco tempo dopo uscì la ‘coppa Malù’, il dessert al cioccolato e panna prodotto dalla Parmalat e molti misero a confronto due dolcezze. Eh, beh, quando ci vuole ci vuole, ma sembra che per quei molti vincessi io 🙂 .
Si contano sulle dita di una mano le persone che oggi mi chiamano Luigia, altrimenti sono per molti Mara e per altrettanti molti Malù, anche in famiglia.

Non mancano diminutivi, vezzeggiativi, nuove invenzioni come quella di un mio amico che, quest’estate, riinviandomi su whatsapp una mia foto che sta su fb, mi ha chiamata ‘sorrisina’, lui è molto creativo con i nomi.
Ben venga tutto, perché questo tutto è l’espressione delle persone che mi conoscono o pensano di conoscermi, è l’espressione di come attivano i loro occhi su di  me, di cosa vogliono o inventano di vedere; è l’espressione di loro stessi.
E’ curioso come le persone vedono gli altri, c’è anche chi affibbia nomignoli derisori, ma è quello che sa dire, non va più in là, ognuno esprime quello che  ha dentro e che sa esprimere.

Ed eccola qua, una possibile storia tra le storie. Una storia che ha tutto il diritto di esistere, come tutte le altre storie di ogni persona esistita, che esiste e che esisterà. La differenza, nel venirne a conoscenza, la fa la selezione di chi narra e che sceglie l’oggetto e l’importanza del suo narrare, e quindi rende nota quella storia scelta e raccontata.
Allora raccontiamo le storie.
Più siamo capaci di conoscere le differenze e la molteplicità, più siamo capaci di narrarle, e più ci rendiamo conto che il mondo non termina con la superficie della sfera del pianeta: è qualcosa di  più, di una ricchezza tale di cui sapremo nel momento in cui sapremo raccontare e rispettare tutte tutte le storie, compresa la nostra personale.

Mara
Mara Luigia
Luigia
Cocca
Co’
Maria Luigia


Lilla
Malù
Malucchiona
Malu
Maru
Gaia
Maruccia
Jazmin
Maruccetta
MaraGì
Sorrisina

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148. istruzioni per l’uso

Non serbare nulla, spendi,
sperpera allegrie, gioie,
scambiale con aria azzurra
perché vadano volando,
per il cielo, fanne acqua,
riempi i torrenti del mondo
delle sue schiume sprizzanti,
entra in anime assopite,
e scuotile per le ali,
agita, come di grano,
grandi campi di speranze,
straripa, straripati
d’amare e d’essere amata:
perché
né oggi, né questa notte
il tuo amore finirà,
né a me finirà l’amata.
Molto ci resta. Non senti
immense truppe di baci,
e di resistenze, stormi
d’avvenire sulle mani,
di rapimenti e di calme?
Quel che mi resta, invisibile,
taciuto, serbato in fondo
a ciò che toccano gli occhi,
a ciò che le mani toccano?
E non sta sotto la terra,
sordo minerale, attesa
di un’anima pura d’oro.
Neanche è un dono senza peso,
segreto frutto celeste,
che, attaccato
su qualche ramo dell’aria,
si prepara alle tue labbra.
No, non c’è quel che ci resta
né in miniere, né sugli alti
orti di stelle mature,
non sono diamanti né astri.
Non esiste, non ha forma,
neanche soffre dei penosi
perimetri del creato.
Palpita ciò che ci resta
solo in quello che ci diamo.

Laggiù, al di là dei baci,
degli sguardi, del piacere,
senza una forma, sicuri,
i piaceri, baci e sguardi,
aspettati, che si aspettano.
In ogni abbraccio rinasce
un nuovo essere altro abbraccio.
Il bacio che si esaurisce
ne chiede un altro a se stesso,
nel suo gioioso spirare
già sente che matura.
Darmi, darti, darci, darsi!
Non chiudere mai le mani.
Le gioie non finiranno,
e neanche i baci, né gli anni,
se non le chiudi. Non senti
quale ricchezza nel dare?
La vita
noi la vinceremo sempre,
affidandomi, affidandoti.

Pedro Salinas

 

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147. giornate del Volontario di Arte Sacra

1 e 2 novembre 2019, Giornate del Volontario di Arte Sacra in molte città d’Italia.
A Orvieto in molti luoghi sacri i volontari hanno guidato gratuitamente alla scoperta di chiese, altari, storie di confraternite, di restauri, di devozioni.
Suggerisco, a chi legge queste righe, di fare attenzione quando nella propria città sono indette le Giornate del Volontario di Arte Sacra. Le persone che fanno le guide sono tutte formate con anni di studio e ottimi maestri. Quest’anno, per esempio, a Orvieto, alcune lezioni formative dei volontari sono state tenute da Antonio Paolucci, ex Direttore dei Musei Vaticani e Antonio Natali, ex Direttore degli Uffizi.
Ascoltate le chiese raccontate “da dentro” 🙂

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146. e oggi? chi ringraziamo oggi?

“grazie per il tempo che mi hai regalato ieri … quando parlo con te mi sento me stessa e vedo spazi da esplorare … tvb”
“tu mi dici che io ho una sorgente dentro che mi aiuta a superare questo periodo in cui mi sento fragile … c’è quella sorgente anche perché negli anni che reputo fortemente fecondi e strutturanti tu sei stata un faro di verità e di opportunità, di sintonia con il creato, di dolore del mio cuore che ha potuto aprirsi  con te … di lacrime che hai raccolto e messo in uno scrigno prezioso … se c’è in me questa sorgente che vedi è perché ho camminato anche diverse colline con te … grazie, dal profondo del cuore”
(Giulia a Malù, via whatsapp, 30 ottobre 2019)

Era il mezzogiorno di una fine di giugno, avevo sette anni. Sedevo a tavola con i miei genitori, pranzavamo dentro il silenzio dell’ora magica per eccellenza, l’ora che per i popoli antichi era quella della magia e dei sortilegi; l’ora in cui i Greci dicevano si manifestasse il dio Pan; Omero diceva che per un istante del mezzogiorno il giorno diventava notte e quella era l’ora riservata alle libagioni in onore dei morti; che Bernardo di Chiaravalle diceva “l’ora immobile, l’ora dell’ispirazione divina”; era il mezzogiorno, la porta attraverso la quale il mondo umano comunica col divino, il momento in cui ai vivi è concesso di accedere all’altro mondo, l’ora in cui il mondo umano e quello divino si confondono e si uniscono; l’ora magica in cui, se ci espone ai raggi del sole, si rischia di essere presi da follia e vaticinio; l’ora in cui non c’è l’ombra …
Non sapevo nulla del mezzogiorno, ma amavo quell’ora e, specialmente d’estate, io piccola e libera,  sentivo tutta la magia di quel momento.

Quel giorno la mamma aveva preparato pomodori freschi e del pesce e io ero pronta per mangiare, allegra e con la forchetta in mano … ma la forchetta rimase ferma a mezz’aria, bloccata da un pensiero, forse regalato dal mezzogiorno, e chiesi a miei genitori: “da dove viene la forchetta?”. La mamma mi guardò sorpresa e preoccupata: “dal cassetto delle posate”. “No no, da dove viene prima, prima del cassetto!” Solo dopo qualche secondo, il babbo disse: “dal negozio dove si vendono le cose per la casa”. “No” dissi ancora io “prima del negozio, prima …”.
“Su, adesso mangiamo” disse la mamma sorridendo.
Allora io cominciai a mangiare e … immaginare a ritroso, la strada che la forchetta aveva fatto per arrivare nella mia mano. Al negozio era arrivata trasportata con un camion, forse prima da un treno. Prima c’era una fabbrica dove lavoravano tante persone, e prima … la forchetta era di metallo, allora immaginai una miniera e i minatori sotto terra … Mi resi conto dell’immensità, del mondo, della fatica e dei sacrifici che c’erano dietro una semplice forchetta. Guardai il piatto, il bicchiere, la tovaglia, il cibo, la tavola, le sedie … guardai il mio mondo e mi sentii diventare immensa e felice, sentii le sconfinate multipluridiversità che stavano dietro il più piccolo oggetto e dietro il più piccolo gesto; e sentii anche un po’ di tristezza perché moltissimi di quei gesti erano di fatica sacrificio rinunce,  c’era qualcosa che non andava bene, che un momento di felicità non poteva essere costruito su tanti sacrifici.
Ma quello che più mi avvolse fu il senso di moltitudine, il canto che mi sembrò di sentire sgorgare da ogni cuore che viveva, che aveva vissuto.
Quel giorno, l’ora magica del mezzogiorno mi fece un grande regalo, si aprì la porta che connetteva il mondo umano e quello divino e compresi molte cose. Fu quel momento che indirizzò poi il mio stile di vita, i miei acquisti, la ricerca di un’essenzialità esistenziale, di una coerenza tra stile e contenuto, il fermarmi, il sostare, il camminare.
Fu da lì che cominciai ad amare i sistemi, le cose composte dalle differenze, una certa capacità di rispetto. Fu da lì, anche da lì, che il mio immaginario progressivamente si arricchì di persone di cose di fatti.
E che iniziai a pensare-dire grazie dovunque, sempre, a chiunque, a qualunque cosa.
Non tutto va bene, ci sono tante cose da migliorare; la nostra parte di mondo, il nostro stile di vita si regge sul sacrificio di molti , di troppi che intanto noi, incapaci di fare altro, possiamo ringraziare.

C’è una certa felicità nel chiedersi ‘e oggi a chi dico grazie?’ e nel rispondersi.
In questi giorni di festa, i grazie si estendono nel tempo e nello spazio, a tutte le persone che, prima di me e in ogni parte del mondo, hanno costruito le vite e la mia stessa vita, hanno fatto in modo che il presente ci fosse, si sono rese parte della splendida continuità che è la vita.

A chi prima di me, a chi insieme a me, a chi dopo di me: grazie.

” Tutto brilla nella natura all’istante del meriggio. L’agricoltore, che prende cibo e riposo; i buoi sdraiati e coperti d’insetti volanti, che, flagellandosi colle code per cacciarli, chinano di tratto in tratto il muso, sopra cui risplendono ininterrottamente spesse stille di sudore, e abboccano  negligentemente e con pausa il cibo sparso innanzi ad essi; il gregge assetato, che col capo basso si affolla, e si rannicchia sotto l’ombra; la lucertola, che corre timida a rimbucarsi, strisciando rapidamente e per intervalli lungo una siepe; la cicala, che riempie l’aria di uno stridore continuo e monotono; la zanzara, che passa ronzando vicino all’orecchio; l’ape, che vola incerta e si ferma su di un fiore, e parte, e torna al luogo donde è partita; tutto è bello, tutto è delicato e toccante.

Chi crederebbe che quello del mezzogiorno fosse stato per gli antichi un tempo di terrore se essi stessi non avessero avuto cura d’informarcene con precisione?
Fu sentimento antichissimo che gli Dei si lasciassero di tratto in tratto vedere dagli uomini. Nell’età d’oro ,dice Catullo, quando la pietà e le virtù regnavano ancora sulla terra, soleano gli abitatori del cielo discendere spesso a visitarla.

Ben tosto le apparizioni, in luogo di essere desiderate, furono temute. Gli antichi tremarono al solo immaginarsi di poter vedere un Essere di cui non conoscevano la figura, e del di cui potere avevano una spaventosa idea. Raccontavasi che Pane si era qualche volta fatto vedere agli agricoltori, i quali dopo la sua apparizione erano stati sorpresi da morte improvvisa.

Il tempo destinato al sonno, cioè quello della quiete e del silenzio, è stato sempre il più proprio a risvegliare le chimeriche idee di fantasmi e di visioni, che quasi ogni uomo ha succhiate col latte. Si tace, si è solo, si è nelle tenebre: ecco i timori panici in folla, ecco i palpiti, ecco i sudori angosciosi, l’orecchio in aria per spiare ogni romore, i sospetti, e talvolta ancora le visioni immaginarie. Se tutto ciò è proprio dei fanciulli, noi possiamo considerar come tali gli antichi volgari, allevati in una religione che dava peso ai loro errori, e autorizzava i loro spaventi. Soleasi un tempo dormire regolarmente nell’ora del meriggio dopo il pranzo. Questo costume può sembrare antichissimo, e comune anche agli Ebrei.

Può dunque credersi che siffatta consuetudine fomentasse in qualche modo la persuasione in cui erano gli antichi, che gli Dei e i Geni comparissero in singolar modo, e atterrissero gli uomini nel tempo del meriggio.

Credevasi volgarmente, a dir di S. Girolamo, che v’avessero certi Demonii particolari, chiamati meridiani, e fra gli Ebrei è commun sentimento che la voce Keteb, che si ha nel testo originale del Salmo (90, 6), significhi un Demonio fierissimo, che assalisce apertamente e di giorno, mentre gli altri meno arditi si contentano di tendere insidie di notte. Non può dedursi dalle parole del Salmista che egli credesse ai folletti o agli spiriti vaganti precisamente nel tempo del meriggio, ma bensì che Ebrei fossero persuasi della loro esistenza.

Anche le ombre dei morti riputavansi comparire e andar vagando sul mezzogiorno, come vedesi sì nei citati versi di Stazio (Thebaid., lib. IV), sì presso Filostrato, il qual narra che i pastori non ardivano nel mezzogiorno avvicinarsi a Pallene, ossia Flegra, dove giacevano le ossa dei giganti, per timore degli spettri che apparivano in quel luogo facendo uno strepito spaventevole (Heroic., cap. 3).
Quando agli Dei, dice Porfirio che nell’ora del mezzodì essi vanno passeggiando a diporto μεσημβριάζοντες, cioè, meridiantes: ovvero, come taluno ha creduto, che essi s’incamminano allora ai tempii per dormire (Porphyrius, De antro nympharum). «Quando il sole – così egli scrive – declina verso l’austro, non è lecito agli uomini entrare nei tempii. Allora passeggiano gl’Immortali. Perciò suol porsi sulla porta il segno del meriggio e dell’austro (…)».
È dunque evidente che gli antichi aveano del tempo del meriggio una grande idea, e lo riguardavano come sacro e terribile. Noi abbiamo a rallegrarci che di un pregiudizio una volta sì commune, e di cui si trovano vestigi nei libri più antichi, rimanga ora appena la rimembranza, essendo esso totalmente cancellato dalla mente dei popoli.”

(tratto da: Giacomo Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, )

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144. dolcezza tenerezza gentilezza delicatezza carezza … fiducia

 

“Sir, le ho portato la sua fiducia nel prossimo”
“Ma che fine aveva fatto, Lloyd? Pensavo di averla persa…”
“L’aveva solo riposta nelle persone sbagliate, sir”
“E quali sarebbero quelle giuste, Lloyd?”
“Le persone che non si dimenticano di averla ricevuta, sir”
“Pensiero davvero molto ordinato, Lloyd”
“Buona settimana, sir”
(Vita con Lloyd)

 

143. Andrew Faber, Guido Catalano, Gianluca Nadalini

Ti lascio passeggiare un po’ tra i miei pensieri
non farti spaventare dal disordine
fa parte dell’arredamento.
Troverai qualche soldatino di guardia
fanno tanto i duri, ma in fondo vogliono solo una carezza.
Ti lasceranno entrare.
Paura e ansia non le guardare
sono due prime donne
non aspettano altro che farsi belle agli occhi delle novità
prosegui pure avanti, hanno poco da raccontarti.
Appena superata la curva della speranza
diciamo tra incoscienza e (s)ragione
lì potrai affacciarti ai miei desideri.
Vedi quelli in corsivo ?
Ecco, per loro ho scelto un vestito elegante.
Di quelli proibiti ho perso la chiave.
Ma non sono in prigione.
Già che ci sei, liberami un po’ di follia.
La notte urla e straparla
non mi lascia riposare.
La malinconia è sempre a leggere in disparte
un po’ per scelta un po’ per arte.
Sì, insomma, non cercare di fare ordine
l’ultima volta mi ci sono voluti due anni di analisi
per risistemare.
Puoi fermarti quanto vuoi, o restare a dormire
ma ricordati di baciarmi gli occhi
se deciderai di uscire.
Andrew Faber, Ti lascio passeggiare un po’ tra i miei pensieri

 

Come da accordi ho smesso d’amarti
come da contratto a partire da oggi
non ti sognerò più
non penserò più a te sospirando alla luna
la luna a sua volta smetterà di ridermi in faccia
non tormenterò povere indifese margherite
strappando loro i morbidi petali bianchi
non camminerò solo per la città
temendo e sperando di incontrarti per caso
riandando ai luoghi dei nostri primi baci.
Come da accordo contrattuale
sarò gentile e pacato
sorriderò quando qualcuno mi parlerà di te
e non attenterò alla vita dei bastardi infami
che già ora hanno iniziato a corteggiarti.
Contrattualisticamente in accordo
con le leggi vigenti mi impegno
a smettere di scriverti poesie d’amore
o almeno diminuire
a scalare
che tutto in un colpo è pericoloso.
Smetterò poi di desiderare
il tuo corpo morbido e profumato.
Giuro infine che ti farò da amico
saggio e fedele che detta così
sembra un cane
ma vedrai funzionerà.

A te solo chiedo
di non credere a una parola
di ciò che hai appena letto.
Guido Catalano, Contratto d’amore

 

Ci pensi mai che adesso qualcuno a New York sta camminando a Central Park? Non rispondi perché stai dormendo, ti guardo, dormi in un modo meraviglioso, forse un giorno te lo dirò, ma credo sia ancora presto, sarebbe scontato, pensa che c’è gente che a quest’ora sta camminando per le strade di  Barcellona.

Chissà quanti passi hanno fatto i tuoi piedi, hai dei piedi carini, li guardo, in questo momento sono fuori dalle lenzuola, hai un modo molto romantico di scoprirti i piedi quando è caldo, forse un giorno te lo dirò, mentre penso alla mia prima macchina, bianca, seconda mano, una vecchia Peugeot.

Chissà se hai preso la patente subito, diciottenne dico, hai un modo molto bello di pensare, forse un giorno ti chiederò di spiegarmi perché tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare, sorriderai con il tuo modo ironico di sorridere, sai, quando sorridi sembri un’attrice fantastica, nel senso che anche se non segui alla lettera il copione, e aggiungo fortunatamente, le tue performance sono formidabili.

Ci pensi che in questo momento tantissimi scrittori stanno scrivendo la prima bozza del loro primo romanzo? O che qualche poeta troverà il verso giusto da versare sulla pagina nel momento giusto? Non puoi rispondermi perché stai dormendo, ovvio, però hai un modo davvero interessante di sognare, almeno credo che tu stia sognando, perché ogni tanto muovi la mano, impercettibilmente, certo, ma la muovi.

Ci pensi mai che io, sono qui, con tutti questi pensieri casuali, soltanto perché noi siamo un caso capitato per caso? Certo, eravamo nel posto buono nel momento migliore, ma stai dormendo e non ti voglio svegliare con queste cazzate.

Mi sembra giusto, dico noi, sembriamo una cosa giusta?

E intanto a NYC c’è gente che passeggia per Central Park e pensa qualcos’altro.

Ma tu, e aggiungo fortunatamente, sei qui.
Gianluca Nadalini, Ci pensi mai …

 

 

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141. un saluto da una goccia di pioggia: ripari-amo-ci

tarda il giorno
l’alba, impigliata fra i tuoi capelli,
dimentica di andare via

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dolcezze improvvise
su strade d’incerta passione

come fiori nell’asfalto

semi gravidi

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angeli custodi

un alito amorevole dentro la solitudine
una mano nello smarrimento

ascoltare il sussurro dell’incontro

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riposa dentro la pioggia
questo stanco cuore
che corre verso il silenzio

è breve la vita senza amore
dura il tempo di un sospiro
il tempo di un’attesa

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ci sono attimi che ho dimenticato
e come foglie cadute che diventano terra
si sono mescolati a un tempo grande e lontano:
ora voglio piccole memorie
da abbracciare domani
e domani ancora e dopo, chissà quale dopo ci sarà

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luci
no, non erano piccole
erano lontane

erano da raggiungere

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https://www.colorivivacimagazine.com/2019/01/la-mappa-sonora-mondiale-della-poesia/

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Carta genovese, 1457
http://www.cristoforocolombo.com/cristoforo-colombo/articoli-storici/mappa-mundi-genovese-di-anonimo-1457/

 

140. l’ultimo bacio … appunti per un racconto

l’ultimo bacio che fu un po’ l’ultimo bacio e fu anche molto l’ultimo bacio, fu un pomeriggio luminoso e dorato di settembre, fu uno sguardo sorpreso e il nome non pronunciato, fu la mano non data e il saluto negato, fu la folla che nascose il respiro affannato, fu non dire nulla e lasciare il nulla a scavare la tomba dove posare anche l’oblio

l’ultimo bacio che fu un po’ l’ultimo bacio e fu anche molto l’ultimo bacio, fu in una piazza bianca e celeste, fu dentro tante parole, fu su piccoli passi colore del latte e del mattone, fu su scale ripide e antiche, fu attraverso varchi di luce colorata, fu dentro gli occhi le mani di persone dipinte sui muri e lì fermate per sempre

l’ultimo bacio che fu un po’ l’ultimo bacio e fu anche molto l’ultimo bacio, fu contato con il numero delle stelle del cielo e delle foglie della terra, dilagò per le vie come abbondante acqua piovana diventata fango, serrò le braccia e chiuse le spalle e alzò i muri, fu il crollo della bellezza che intorno continuava a cantare

l’ultimo bacio fu così e molto di più che bisogna immaginare

l’ultimo bacio che fu l’ultimo bacio, fu la tranquillità di chi cercava la tranquillità, fu la ferita di chi aveva avuto fiducia, fu la vittoria di chi voleva vincere, fu la perdita di chi non aveva fatto dell’amore una battaglia e un inganno, fu la distruzione della tenerezza sulla terra

l’ultimo bacio fu l’ultimo bacio

ora racconta il mondo
bisogna immaginare

 

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Map

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139. il mondo è dovunque e dovunque è il mondo; e una favola lo sa descrivere, sempre

“Diversivo. Distrazione. Fantasia. Cambiamento di moda, di cibo,
amore  e  paesaggio. Ne abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo.
Senza cambiamento, corpo e cervello marciscono.”

“L’abitudine e la fissità degli atteggiamenti mentali
ottundono i sensi e nascondono la vera natura delle cose.”

(BRUCE CHATWIN, Anatomia dell’irrequietezza)

 

All’ingresso del paese, nel breve tratto di strada che passava davanti alla scuola, Gabriele, 8 anni, aveva disegnato sull’asfalto, col gesso bianco, un enorme cuore. All’interno del cuore aveva scritto “Isabella”, il nome della bambina di cui si era innamorato. Dopo aver guardato soddisfatto la sua opera, era entrato dentro il cuore, portando con sé la cartella. Poi si era seduto, aveva tirato fuori dalla cartella un libro un quaderno i colori e un panino e aveva iniziato tranquillamente le sue attività: leggere, disegnare, mangiare, scrivere. Alcuni adulti avevano cercato di toglierlo da lì, poiché passavano le macchine su quel tratto di strada, ma, nonostante avessero provato in tutti i modi a loro noti, non ci erano riusciti. E nemmeno ci erano riusciti i genitori. Alcune macchine, con pazienti guidatori, erano state fatte parcheggiare nel piazzale antistante la scuola. Anche l’autobus di linea aveva dovuto accorciare la corsa e fermarsi lì. Il paese era in subbuglio. Era arrivata anche Isabella, che però si era messa pure lei dentro il cuore e aveva cominciato a giocare con Gabriele e non era più voluta uscire.
A sera inoltrata, Gerardo, direttore del piccolo coro locale e assessore, aveva avuto un’idea guardando le stelle.
“Gabriele, Isabella, vi va di spostarvi dentro un altro cuore? Questo si è un po’ consumato, non vedete che il gesso si è schiarito?”
“Ci sono altri cuori?” avevano chiesto titubanti.
“Eh, tanti quanti ne vogliamo disegnare!” aveva risposto Gerardo allegramente.
L’idea era piaciuta ai bambini, che si erano spostati dentro un altro cuore, disegnato da Gerardo a qualche metro di distanza dal primo, in direzione delle case di Gabriele e Isabella, che abitavano l’uno di fronte all’altra, nella zona delle case nuove. E Gerardo, con una scusa e con un’altra, aveva disegnato tutti i cuori necessari per far arrivare i due fino alle loro abitazioni. E c’era un cuore di palloncini, e c’era un cuore che faceva ridere con la faccia di clown e ce n’era uno a forma di elefante e ce n’era uno magico da cui si entrava nel mondo dei mostri, e uno arrabbiato e uno felice, e uno cattivo e uno che era andato in Africa e uno che non voleva tornare dal Polo Nord. Dal terzo cuore in poi, anche Gabriele e Isabella avevano collaborato ai disegni, e tutti e tre insieme avevano cantato canzoni che inventavano lì per lì e avevano dato i nomi ai cuori. Giunti davanti alle loro case, il bambino e la bambina avevano voluto disegnare da soli un cuore grandissimo, metà dalla parte di Gabriele e metà dalla parte di Isabella: questo era un cuore casa, avevano disegnato un giardinetto come bordo e dentro avevano disegnato un caminetto un cuscino un gatto un cane cinque stelle un gelato un’aranciata un sole e una nuvola “così piove e i fiori crescono bene”.
Era mezzanotte, Gabriele e Isabella andarono a dormire.
Se si guardava dall’alto quel tratto di strada che andava dall’ingresso della scuola alle case nuove, si potevano vedere  dodici cuori disegnati con il gesso bianco, ognuno diverso dall’altro, brillare nella luce della luna, e un direttore di coro di paese che trascriveva su uno spartito le note che dai cuori erano salite nelle loro voci e nelle loro canzoni.
Qualche giorno dopo Gerardo, ripensando alla via fatta di cuori diversi  con un nome ognuno diverso,  propose al consiglio comunale di integrare la segnaletica delle vie del paese con nomi e simboli inventati dai bambini delle scuole elementari. La proposta fu accettata all’unanimità.
Adesso, i nomi delle vie del paesino cambiano ogni tanto per decreto comunale, perché ci sono sempre nuovi bambini a nominare il mondo.
Nessuno si perde in quel paesino, anzi, con curiosità le persone si chiedono quale nome nuovo e quale disegno nuovo avrà la loro via. Molte persone vanno a visitare il paesino, ma lo fanno in sordina, nessuno vuole che diventi un luogo turistico. Vanno, passeggiano, guardano, salutano gli abitanti e poi se ne vanno, spesso dopo aver disegnato una mappa del paesino con i nomi delle vie in quel momento, e con la speranza che possano cambiare presto, perché i bambini e le bambine devono continuare a venire al mondo, e i loro amori e le loro canzoni.
(1 giugno 2017, 10 ottobre 2019)

 

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http://www.italyforkids.net/tag/carta-geografica-per-bambini/

 

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https://comune-info.net/abbiamo-creato-un-mondo-nuovo/

 

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https://nuovoeutile.it/citta-immaginarie/

 

138. il primo bacio e il secondo e il terzo e … appunti per un racconto

il primo bacio che fu un po’ il primo e non del tutto, fu in un parcheggio deserto vicino alla stazione dei treni, una sera di febbraio, e fu all’improvviso e restò lì all’improvviso, come se ‘l’improvviso’ fosse un paese e infatti fu come attraversare un confine
il primo bacio fu così e molto di più che bisogna immaginare

il secondo bacio che fu il secondo ma fu molto il primo, fu in una piazza circondata da palazzi antichi, al centro della città, una notte di febbraio, e fu all’improvviso e ‘l’improvviso’ divenne un paesaggio di Chagall
il secondo bacio fu così e molto di  più che bisogna immaginare

il terzo bacio che forse fu il terzo fu appena varcata la soglia, una sera di febbraio, e fu all’improvviso e atteso e sperato, e quindi fu certo, come se ‘certo’ fosse la casa dove abitare insieme
il terzo bacio fu così e molto di più che bisogna immaginare

il quarto bacio che fu il quarto ma fu tutti quelli a venire, fu una intera notte d’inverno, la luce della luna toccava le labbra e le mani, e fu voluto e voluto e voluto come se ‘voluto’ fosse il tempo perfetto e il luogo del sempre
il quarto bacio fu così e molto di più che bisogna immaginare

il quinto bacio che fu il quinto ma il millesimo, fu in campagna, un pomeriggio di primavera, e fu quello non dato con le labbra, ma con le parole e con gli occhi e con tutto il corpo, e restò a lungo, come se ‘a lungo’ fosse un paese da viaggiare per il resto dei giorni
il quinto bacio fu così e molto di più che bisogna immaginare

i baci che non erano baci furono prima dei baci, furono tutto ciò che accadeva, e furono in ogni momento che accadeva, nelle sere e nei giorni d’inverno, inaspettati ogni volta, come se ‘ogni volta’ fosse il ticchettare di un orologio senza fine
i baci che non erano baci furono così e molto di più che bisogna immaginare

ora racconta il mondo
bisogna immaginare

coppia giorno notte bacio

 

 

137. quello che c’è c’è, quello che non c’è non c’è: in base a cosa scelgo ciò che scelgo di dire? (post corretto enne ed enne volte :-) )

Mappamondo con cartine regioni italiane

Molte classi di scuole di ogni ordine e grado -anche straniere- arrivano in Archivio di Stato per una semplice visita di conoscenza o per fare una ricerca. In ogni caso, mostro loro dei documenti, quelli più belli o più significativi quando vengono per una visita, e quelli specifici quando vengono per una ricerca.
E’ interessante vedere la sorpresa e il piacere di bambini e bambine o ragazze e ragazzi nello scoprire una realtà -quella dei documenti e delle fonti- per loro fino a quel momento insospettabile e che si rivela invece ricca affascinante e molto importante per la costruzione della narrazione storica.
Mi impegno a spiegare il concetto di narrazione, di selezione di informazioni, di punto di vista, e faccio fare piccoli esercizi attraverso i quali ci si possa rendere conto meglio e per esperienza di questi concetti.
Uno di questi esercizi consiste in una  piccola guida nel far immaginare la mano che teneva la penna d’oca (i documenti medievali sono molto amati    dai ragazzi) e che scriveva il documento; poi immaginare il braccio e poi la persona: dove era seduta? e dove era poggiato il documento? come era la stanza? e quella stanza in quale casa/palazzo si trovava? e quel palazzo in quale città? e quella città in quale impero, in quale stato si trovava? e quell’impero era in Europa … e su su a guardare la realtà sempre più dall’alto e a vedere quel documento inserito in un contesto grande, in una fitta rete di eventi contemporanei ad esso e che in esso non vengono scritti e quindi non tramandati.
Il tutto non per svilire il valore del documento, ma per far comprendere meglio come quella antica scrittura ci dice qualcosa e non tutto, e posto che sia autentica. E ci dice quello che l’istituzione, il privato, l’ente hanno deciso venisse detto.
Ho sorriso quando alcuni giorni fa ho sentito una persona dire, parlando di cose sue, ‘quello che c’è c’è e quello che non c’è non c’è’: è una bella sintesi di quanto sto scrivendo.
Questi percorsi sono molto  utili anche per far riflettere i giovani sulle miriadi di informazioni in cui sono immersi, sulla veridicità dei dati e sull’importanza di sapere chi scrive l’informazione che ci giunge. E loro sono prontissimi a comprendere, anche i bambini e le bambine capiscono subito, a tal punto che bambini e bambine e l’insegnante di una quarta elementare, la scorsa primavera hanno accettato il suggerimento di scrivere un diario riflettendo ogni volta su cosa e come viene scelto ciò che si scrive; rendendosi conto quindi su cosa come e perché si pone l’attenzione. Mi fecero vedere i primi meravigliosi esiti di questo lavoro, e poi mi hanno promesso che a fine anno mi porteranno il loro diario completato e lo lasceranno all’Archivio, come è d’uso, d’altronde, con ogni lavoro e ricerca fatti dalle scuole.

C’entra qualcosa questo post e altri con l’intento destrutturante dichiarato come fondamento di questo blogghinoblogguccio? Sì.
Ieri mi ha telefonato il mio più grande amore. E mi dice che ha gradito molto gli ultimi post. Rimango piacevolmente sorpresa nel sapere che lui legge questa pagina, e gli dico che ne sono onorata, perché lo stimo molto e moltissimo gli voglio bene. Lui è effettivamente l’unico uomo che io conosca bene e da molto tempo e che con me è stato … un uomo degno di questo nome. Bene, lo ringrazio, gli dico che questi ultimi post sono un copia-incolla di altri di vecchi blog che ho cancellato, oppure di qualcuno di fb. Poi gli chiedo perché, cosa trova di piacevole in questi ultimi post, considerando anche il fatto che invece io non li trovo proprio in linea con l’intento del blog, ma comunque ogni tanto bisogna-è-necessario esplorare nuovi territori, nuovi modi, nuovi percorsi e nuove mete.
E lui mi risponde che questi post sono scritti in modo più organizzato, che così lui li comprende meglio perché non sempre gli sono chiari quei post dove le informazioni sono messe l’una accanto all’altra, frammentate; non sempre gli è chiaro il mio intento, il significato che io voglio dare. E, chiaramente, scherza su quest suo ‘limite’ di comprensione.

Sorrido, e gli rispondo.
Questo blog vorrebbe essere uno spazio d’incontro, non vuole esaurirsi in se stesso, bensì creare collegamenti, infatti metto sempre molti link con pagine in rete: mi piacciono ‘le’ ‘verità’ costruite insieme; siamo già abbastanza feriti/e e umiliati/e da quelle verità che ognuna per proprio conto si pone a verità assoluta.
Questo blog vorrebbe proporre una riflessione sullo scardinare i nessi logici e falsi logici con i quali si costruisce-argomenta un discorso: ho già detto in altri post che le due parole “poiché” e “quindi” usate nello stesso discorso hanno fatto e fanno più danni di tutte le guerre messe insieme.
Questo blog vuole “abbandonare”, “lasciare libero-a”  🙂  l’eventuale lettore-lettrice: cioè, se l’autore non guida nel discorso, se non porta a ciò che gli interessa, dove liberamente chi legge scopre di poter arrivare? Quali significati e connessioni chi legge può scoprire, può dare a ‘ciò che c’è’? E può riflettere su ciò che non c’è, visto che la destrutturazione spesso crea spazi bianchi? E …  non avrei voluto spiegarlo proprio per benino come sto provando a fare, perché anche questo è un modo di indirizzare … però ogni tanto bisogna anche smentirsi 🙂 e comunque l’ho già fatto, sebbene in modo meno ordinato, nella spiegazione sotto il titolo del blog.
Questo blog vuole far capire le ‘sconnessioni’, vuole far capire che accanto a quello che c’è (il documento di cui si parlava sopra) c’è molto altro che non c’è in quello che c’è (tutto il mondo intorno al documento di cui sopra).
Questo blog vuole suggerire quello che mi suggerì un maestro mentre mi insegnava storia, e cioè cercare quello che non è stato raccontato.
Questo blog vuole ‘esasperare-per-evidenziare’ la tendenza attuale della frantumazione e frammentazione dei discorsi, molto diffusa nel mondo digitale e altrove, della moda delle frasette, della moda di estrapolare piccoli brani da opere, non solo letterarie, e porle all’attenzione di tutti/e, senza citazione della fonte, così che un’informazione completa non viene mai data e la sua interezza viene persa: frasette da intere poesie, frasette da filosofi, frasette da storici, da fisici, da matematici; frasette che illudono di conoscenza mentre cancellano le lunghe strade che si devono percorrere per giungere alla conoscenza.
Questo blog vorrebbe evidenziare tutto questo e altro, ed ho comunque il timore di non saperlo fare, soprattutto perché, a forza di essere guidati/e, cosa possiamo comprendere se non siamo guidati/e?
Lo sdoganamento che il digitale ha comportato, con le piattaforme come fb o quelle che permettono di gestire blog,  ecc., ha portato alle urla dell’ignoranza, all’esposizione dell’incompetenza, all’avanzare dell’arroganza, è vero, ma soprattutto ha evidenziato il fallimento dei ‘maestri’, di coloro che avrebbero dovuto formare le persone, di coloro, cioè, che da sempre si sono arrogati la proprietà e la veridicità dei “discorsi” e che hanno argomentato, convinto, guidato con i loro “poiché” e i loro “quindi” fasulli.
Questo blog, soprattutto, non pensa di avere particolare valore; ha il valore di uno spazio in cui una donna esprime in disparte alcune sue personali riflessioni, ‘sconclusionandole’, cioè togliendo loro le conclusioni: e senza alcuna pretesa specialistica …

Certo, al mio più grande amore gliel’ho detto con altre parole e abbiamo riso insieme, ma più o meno il senso è questo.

I pezzetti hanno un grande valore per me, costruiscono l’insieme. Amo le orchestre, mi emozionano: molti strumenti suonano per darci la complessa musica scritta dall’autore, suonano in sintonia con competenza bravura e rispettando lo spartito. Amo i mosaici, l’immagine resa da tanti sassolini diversi da loro. Amo le persone, così diverse eppure tutte ‘persone’. Amo ciò che è fatto da tante cose.
E questa è la BUONA NOTIZIA in questo blog: dai pezzetti si costruisce l’insieme, anche dai frammenti e dai frantumi si raggiunge un senso. Quale? Vedremo. Questa è una strada nuova da percorrere nel costruire il “discorso”, i “discorsi”; è un bell’allenamento a confrontarsi su ciò che unisce … l’ho già detto, sogno da sempre l’altro modo: non formare alla guerra, ma alla pace; non allenarsi all’uso del fucile, ma al dialogo, all’incontro, al rispetto …
La BUONA NOTIZIA in questo blog è anche che ogni post/frammento contiene l’informazione “mondo” e l’informazione “selezione, narrazione, consapevolezza” … non ve ne eravate accorti? 🙂 fateci caso 🙂

Tra le tante cose che costruiscono un insieme di valore, c’è anche ascoltarsi e comprendersi e saper chiedere e accettare le scuse.
Col mio grande amore abbiamo fatto e facciamo così da quando ci conosciamo. E’ un’amicizia che dura da quasi quarant’anni e a ragion veduta posso parlare di amore, non siamo mai stati amanti fidanzati o sposati ma è un legame che definisco d’amore dal più profondo del cuore. Avremmo potuto perderci, non vederci più, ma invece no: sappiamo che siamo pezzetti di valore, anche semplicemente in quanto esseri umani, e costruiamo l’insieme del mondo ascoltandoci, comprendendoci, sapendo chiedere e accettare le scuse. Non siamo tra quelli che pensano le persone in termini di compatibilità, non ci pensiamo come prese/spine elettriche 🙂 ; siamo tra quelli che pensano le persone in termini di capacità relazionali, caso mai, e queste sono cose in cui si cresce, per fortuna … anzi, per splendida volontà  e capacità di rispetto.

Grazie, tesoro prezioso, di essere nella mia vita.

 

136. Salvatore Quasimodo, Uomo del mio tempo, 1946

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

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135. cioè, mi stai dicendo che … : fallacie logiche, bias cognitivi e ordine del discorso in un minidialogo di quarant’anni fa

la logica è la disciplina delle argomentazioni valide
la retorica è la disciplina delle argomentazioni persuasive

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– don, voglio farmi prete …
– ma non era suora?
– sì, prima, volevo fare la suora missionaria medico … ora il prete …
– ma lo sai che non è possibile … ti va di scherzare, non è mai successo prima, non si può … dai, aiutami con le letture di domani, abbiamo da fare … e poi …prete!  pettegole come siete, sai quanto durerebbe il segreto di una confessione? sai dove andremmo a finire …
(fallacia  ‘argomentum ad personam’: non sei credibile a causa di una caratteristica personale + la cosiddetta caratteristica personale (donne=pettegole) è, in questo caso, definita sulla base del discredito e del sarcasmo, e cioè è una fallacia ‘reductio ad ridiculum’ + con presenza di un ‘argomento fantoccio’: ci spostiamo su un altro argomento che mettiamo in relazione in modo gratuito con l’altro + fallacia  ‘ripetuto fino alla verità’: in questo caso che le donne sono pettegole + fallacia ‘argomentum ad baculum’: andremo incontro a cose nefaste a causa della tua affermazione + bias di ancoraggio e di conferma: non è mai stato fatto prima e prove e argomentazioni selettive …. ehm ho esagerato nell’analisi??? 🙂 )
– don, non offendere
– va bene va bene scusa … comunque, avete già il vostro posto nella chiesa
– ah, e quale?
– suore, il servizio, l’umiltà … oh insomma, non è possibile fare il prete
– ah beh allora … possiamo farci suore, evvivaaaa, grazie, come siete buoni voi  …. e perché no il prete?
– c’erano donne tra i dodici apostoli? (bias di ancoraggio e di conferma)
– no, almeno, così dite …
– no, non ‘così dite’, ma ‘così è successo’ … Gesù non ha scelto donne per affidare la sua missione nel mondo (fallacia di Gabler)… ma te lo immagini, all’epoca, al suo tempo e nel suo mondo? le donne non erano considerate come adesso … te lo immagini lo scandalo? … dai su, abbiamo da fare, domani abbiamo le prime comunioni … forza….
– anche per le femmine le prime comunioni? no, perché durante l’Ultima Cena non c’erano donne …. così, per dire, don ….
– Maraaaa  …  non sarebbe stato possibile, su pensaci … nessuno avrebbe compreso  ….
-ah, poi però la Chiesa, che è continuata nei secoli, ha cambiato le cose, vero? oh, quanto le ha cambiate …
– dobbiamo seguire le direttive la tradizione  … (fallacia logica ‘volontà superiore’, bias di ancoraggio) … su Mara lo sai, fai la catechista, che discorsi stai facendo stamani? c’è sempre un contesto, te le immagini le donne vescovo papa prete … (effetto Framing)
– sì, me le immagino …
– oh, hai voglia di scherzare stamani …. ma chi avrebbe capito all’epoca? (ancoraggio e conferma) … e poi, se Gesù ha fatto così un motivo suo suo ce l’aveva, e noi lo dobbiamo rispettare
– cioè don, fammi capire … mi stai dicendo che è tutto bene quello che ha fatto  Gesù, ok …. allora, nel contesto del suo tempo si  proclama figlio di Dio e facente parte di un complesso sistema trinitario Padre Figlio Spirito Santo che più complicato di così da capire non potrebbe essere e che, guarda caso, è tutto al maschile; cammina sulle acque, tramuta l’acqua in vino, risana i ciechi, si trasfigura sul monte Tabor, resuscita i morti e per il suo contesto questo era normale, vero? “oh guarda, un altro risorto”, dicevano al mercato, “oh guarda, un altro che anche oggi moltiplica pane e pesci , non se ne può più , che banalità”, me li immagino i suoi compaesani parlare così … o, se non era normale, era normale gridare al miracolo e credere che quell’uomo era figlio di Dio? beh, gente aperta quella che ha creduto, e quella che non ha creduto infatti, poi, lo ha messo in croce; ma poi resuscita lui stesso, ascende al cielo sotto gli occhi di tutti e …. e per tutto questo la società del tempo era pronta? pronta per questo ma non per sentirsi dire un nuovo ‘ordine del discorso’ sulle donne, e che uomini e donne, pur nella differenza, sono uguali? ché poi, don, a me sembra che Cristo lo abbia pure detto e mi sembra che invece la disparità sia più figlia dei ciechi discepoli di Emmaus e di tutto ciò che è venuto dopo …  …. doooooonnnnnn???!!!!!???
– …….
– …….
– Mara, ho da fare … e poi, con tutto quello che ha fatto la chiesa tu vai a sottolineare questo (fallacia ‘argomentum ad misericordiam’: ti colpevolizzo dicendo che il tuo comportamento vanifica uno sforzo)
– il potere, don, il potere … la disuguaglianza si sta superando nel mondo laico, come altre disuguaglianze, e la Chiesa, come un vecchio elefante, spesso è venuta dopo ad aggiustarsi su cose già fatte altrove …. a lei sembra normale questa disuguaglianza tra uomini e donne nella Chiesa?? e dov’è la resurrezione in tutto questo? dov’è ‘il nuovo’ anzi, ‘la nuova’?
– bisogna saper accettare con umil
– don, ho 16 anni ed è primavera … lasciamo perdere … bambini, bambine, mettetevi in fila, su, prepariamoci per domani e
– e le femmine da una parte i maschi dall’altra, forza
– …. doooooooooon!!! …

(potrei essermi sbagliata nell’analisi, si accettano aiuti 🙂 )

 

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Statuetta in alabastro di Pepi II – re dell’Alto e Basso Egitto, ca. 2284 – 2216 a.C. ) – in braccio alla madre, la regina  Ankhesenpepi II
(Brooklyn Museum)

 

 

134. il cuore di mio padre e l’universo

Ho preso un Sorso di Vita −
Vi dirò quanto l’ho pagato −
Precisamente un’esistenza −
Il prezzo di mercato, dicono.
M’hanno pesata, Granello per Granello −
Bilanciata Fibra con Fibra,
Poi m’han dato il valore del mio Essere −
Un solo Grammo di Cielo!
Emily Dickinson

Dalle macchine del pronto soccorso vedo per la prima volta il cuore di mio padre. Ho accompagnato il mio babbo tante altre volte, ma non avevo mai visto prima il suo “muscolo cardiaco”.Lo vedo battere e ne sento il suono, dalla macchina sembra provenire una musica moderna, molto ritmata. Ascolto il ritmo vitale di chi mi ha dato la vita e mi sembra che l’intero universo si renda chiaro, mentre altrettanto chiara mi appare la necessità di quello che con parola ignara chiamo mistero. Un cuore che batte da 92 anni e che ha racchiuso in sé tenerezze e affetti, protetti anche dalla dura scorza di una timidezza e dell’essere un uomo.
Per la prima volta vedo il cuore di mio padre, a lungo. In sottofondo le voci del pronto soccorso e i silenzi di chi aspetta, pazienti e parenti.
Batte instancabile quel cuore da cui sono nata.
Penso come sarebbe bello se tutti quanti avessimo la curiosità di conoscerci, il desiderio di amarci, la voglia tenace di portare con noi le vite che abbiamo conosciuto, conosciuto e non giudicato e disprezzato. Conoscerci uguali e diversi come stelle smaglianti di un unico cielo.
Il cuore di mio padre e l’universo. Ho detto a entrambi, sottovoce: “piacere di conoscerti, sono tua figlia”.
(19 febbraio 2017)

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133. cos’è “la vita”? quando si dice “è vita”? e “le” vite?

luci
no non erano piccole
erano lontane
erano da raggiungere
(2 settembre 2014)

https://www.lifegate.it/persone/news/e-stata-stilata-la-piu-completa-mappa-della-vita-mai-realizzata

LA VITA: SPAZI O PERIMETRO
Ero piccola e nella casa accanto alla mia veniva a passare l’intera estate una famiglia proveniente da Roma, ma originaria del mio paesino. Di questa famiglia faceva parte una splendida donna immobilizzata sulla sedia a rotelle dall’età di 16 anni, ed era accudita dai suoi genitori. Io, piccola e poi ragazza, andavo come tanti altri a trovarla oppure sostavo nella piazzola dove veniva portata da qualche amico di buona volontà, circondata da tante persone in un clima di allegria. Dopo aver preso la patente, la portavo qualche volta in pizzeria, al lago di Bolsena, alcune volte anche con i suoi vecchi genitori.
Lei si chiama Luigia. Mio padre, ogni volta che ne parlava in sua assenza, aveva le lacrime agli occhi, perché l’aveva conosciuta bella e splendida, di quella bellezza fatta anche di come ci si muove, di cosa si fa e di chi si è e ci si impegna ad essere. Mio padre, come tanti, concludeva quei ricordi dicendo “eh, la vita; cos’è la vita” e non aveva punti conclusivi la sua frase, né interrogativi, ne esclamativi, né di sospensione; aveva un tono che sembrava aprire una strada di nuovi sensi, nuovi forse per la bambina che ero, o nuovi in assoluto, non lo so ancora.
Fu già nella mia prima manciatina di anni che mi si pose una domanda a cui ancora non so dare risposta, e cioè “cos’è la vita? come può essere definita?”. E, frequentando Luigina, la domanda mi si rafforzò, sostenuta dagli slanci ideali dell’adolescenza. Vedevo Luigina immobilizzata e vivissima della sua specialissima vita e mi dicevo “questa è la vita”; e poi vedevo gli astronauti danzare nell’assenza di gravità, forti e superaddestrati fisicamente ed emotivamente e mi dicevo “questa è la vita”.
Mano a mano scoprii il plurale, cercai di allontanarmi dalle astrazioni e dalle generalizzazioni, ma mi rimaneva il desiderio di cogliere punti in comune, dei nessi tra una vita in un letto d’ospedale e una vita che vinceva le Olimpiadi.
Mi chiedevo cosa avrei mai insegnato ai miei figli, cosa avrei potuto dir loro: alberi, prati, animali, esseri umani di fronte ai quali stendere il braccio e dire “questa è la vita”. Quali convinzioni avrei loro trasferito? Tali che li avrebbero resi capaci di essere vita, oppure tali da renderli solo capaci di giudicarla? Li avrei aiutati a essere creativi inclusivi o avrei marcato perimetri entro cui avrebbero però sperimentato le debolezze di convinzioni limitanti? Non ho figli, non ho esercitato momenti di tale bellezza e che forse mi avrebbero aiutato nel trovare risposta.
Risposta che più passa il tempo e meno trovo. Forse la risposta può darla ognuno di noi, ma con la consapevolezza che è già narrazione e che include convinzioni profonde e radicate, spesso a livello inconscio.
Io ho una formazione cattolica che ha dato un perimetro vastissimo al concetto di vita, che mi ha reso profondamente collegata con quello che veniva chiamato “Il Creato”, e quindi il perimetro corrispondeva con lo spazio, con l’infinito: tutte le forme di vita dentro cui trovo il respiro l’appartenenza il rispetto. Lontana da ogni senso utilitaristico, trovo significati in ogni vita; ma mi chiedo se li trova anche chi certe forme di vita sofferenti e limitanti è costretto a sperimentare, e così sofferenti da chiedere la morte. E mi chiedo anche perché altri, in condizioni simili,  non chiedono di morire. Luigina era un esempio di splendore per tutti, con lei si sorrideva, si cantava, si rifletteva e, volendolo, si pregava.
Cos’è la vita, allora? Un sistema di convinzioni che ci mettono in spazi infiniti e ci rendono capaci di tanto, o convinzioni che ci mettono dentro un perimetro in cui ovunque ci si volti troviamo confini che ci rendono invece incapaci su molti fronti?
Ed è possibile conoscere la vita fuori dalle convinzioni?
La bambina che ero guardava incantata le forme di vita che conosceva, ed era immersa in un sistema in cui le forme di vita, anche le più sofferenti e limitate, avevano un senso di per sé e un senso nella collettività. L’adulta che sono, in mezzo a tanti dibattiti, rimane smarrita. Vedo istituzionalizzarsi realtà prima impensabili, irrigidirsi flussi, vedo sempre più perimetri e sempre meno spazi. Luigina, tra i limiti ricevuti dalla sua malattia, aveva avuto anche la perdita dell’udito e, ciò nonostante, riconosceva musiche da come si muovevano le persone, lei, che era stata bravissima a ballare -“volava”, diceva mio padre-.
Per certi esempi spaziosi che ho ricevuto non posso che dire grazie e mi chiedo se altrettanto esempio ho saputo dare, non a figli che non ho, ma a chi incontro. Chissà. Vivo la mia epoca, e vedo perimetri e li vivo pur non volendo, perché, altrimenti, una risposta ce l’avrei alla domanda “cos’è la vita”. Una frase che non dovrebbe essere né domanda né risposta, e cioè confini e perimetri, ma dovrebbe semplicemente essere, e cioè spazi.
(4 luglio 2017)

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https://notizie.tiscali.it/scienza/articoli/prima-mappa-HD-del-genoma-umano/

Oh me! Oh vita! di queste domande che ricorrono,
degli infiniti cortei di senza fede, di città piene di sciocchi,
di me stesso che sempre mi rimprovero
(perché chi più sciocco di me, e chi di più senza fede),
di occhi che invano bramano la luce, di meschini scopi,
della battaglia sempre rinnovata,
dei poveri risultati di tutto, della folla che vedo sordida
camminare a fatica attorno a me,
dei vuoti ed inutili anni degli altri,
io con gli altri legato in tanti nodi,
la domanda, ahimè, la domanda così triste che ricorre –
Che cosa c’è di buono in tutto questo, oh me, oh vita?

Risposta

Che tu sei qui – che esiste la vita e l’individuo,
che il potente spettacolo continua,
e tu puoi contribuirvi con un tuo verso.
Walt Withman

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Mappa della costa spagnola da Huelva a Cadice. Dal libro La vita di Cristoforo Colombo da R. Clements Markham pubblicato nel 1892.Mappa della costa spagnola da Huelva a Cadice.
Dal libro La vita di Cristoforo Colombo da R. Clements Markham
pubblicato nel 1892

132. il soggetto giusto

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Si dimentica il valore dell’esistenza
quando si riduce l’identità a identificazione.
(aprile 2015)

“Lloyd, oggi è il giorno in cui amore fa rima con cuore e fiore”
“In realtà fa rima anche con dolore ed errore, sir”
“Così però si toglie poesia, Lloyd”
“Solo se si pensa che l’amore dipenda da come si chiude una frase e non da come si aprono le braccia, sir”
“Molto romantico, Lloyd”
“Buona giornata, sir”
(Vita con Lloyd)

“Lloyd, tu sai perché le persone hanno paura di voltare pagina nella vita?”
“Perché hanno il timore di quello che potrebbero trovare dopo, sir”
“Credi che ci sia un modo di superarlo, Lloyd?”
“Quello che credo, sir, è che voltare pagina sia una preoccupazione per chi legge, ma una necessità per chi scrive”
“Fai controllare le scorte di penne, Lloyd”
“Immediatamente e con piacere, sir”
(Vita con Lloyd)

Se fossero ancora sposati, sarebbe il loro anniversario di nozze. Lei ci pensa, dall’alba, e ricorda. Lui non sa che giorno sia, cioè non sa che avrebbe potuto essere un loro giorno di festa, di quelle belle feste personali, che ti ricordano che nella tua vita hai cose tue, tutte e solo tue da festeggiare, ed è fantastico che sia così.
Lei e Lui siedono a un tavolo, insieme a una coppia sposata. E parlano, tutti e quattro a turno, di come sia o sia stata la loro comunicazione di coppia. Quando tocca a Lui, compone una serie di brevi frasi che sono accuse a Lei e poi Le dice, abbassando la testa tra le spalle e protendendola in avanti, e poi fissando Lei negli occhi: “Insomma, noi non ci dovevamo sposare”, mentre  allarga le mani nel gesto dell’evidenza.
Lei -si vede da fuori in quei pochi secondi in cui rimane immobile- sembra morire un po’, in sacrificio su qualche altare dell’ennesima divinità ingrata e famelica; ma poi guarda Lui, lo vede, ne cancella un altro pezzo dalla propria vita, e si difende e si riprende quel pezzo appena dato in sacrificio e si rianima e si ricompone. È poi un film veloce quello che scorre nello spazio tra gli occhi di Lei e quelli di Lui, e ci sono tutte le cose che Lui ha fatto per distruggere tutto, prima fra tutte quella di essere stato falso da subito, mentendo su se stesso, avvolgendo l’intero mondo in una fitta nebbia. E poi il resto, immagini, momenti lontani, tutto lì veloce che scorre non solo davanti, ma anche nella pelle di Lei, negli anni, nel futuro negato, nei presenti manomessi e alterati, nel passato a cui non riesce a dare forma di ricordo sostenibile. E, occhi negli occhi come non accade più da chissà quanti battiti del cuore, Lei dice a Lui:”Tu non dovevi sposarmi, metti il soggetto giusto. Tu.”, marcando quel “tu” con la voce come fosse uno spazio lontano. E poi sposta gli occhi verso la finestra alle spalle di Lui e guarda la luce e, per effetto del contrasto, Lui per Lei diventa un’ombra, una massa informe scura, anche gli occhi scuriti dalle menzogne, incapaci di vedere fuori di sé, alterati e fissati in quell’espressione cupa di chi ha cancellato ogni verità.
Dopo un po’ Lei si alza e saluta, l’accordo per vendere quella piccola proprietà ancora in comune è stato fatto, l’altra coppia è soddisfatta. Poi esce, e fuori è maggio e, come quel giorno di 28 anni fa, i batuffoli lanosi delle robinie sembrano galleggiare leggeri nell’aria, prima di depositarsi a terra e formare un morbido tappeto bianco. Riecheggiano in Lei quelle parole di quel giorno: “Nella buona e nella cattiva sorte”, una promessa dentro cui Lei si è persa negli anni, per mantenerla;  non aveva capito bene che si può recedere quando è l’altro a ritrarsi: l’essere umano, l’istituzione, il gruppo, l’altro in ogni sua forma. Si mette una mano sulla pancia e due lacrime calde scendono sulle sue guance.
Lei ha un nome, e vorrebbe sentirlo pronunciare con amore, almeno una volta: la vita, a lei come a tutti, le ha promesso amore mentre veniva al mondo e c’è sicuramente nel mondo la persona che mantiene quella promessa … ma dove? Lei si ferma un attimo, con la sua mano ancora sulla sua pancia e poi comincia a dire il nome, il suo, e lo ripete con calma. La prima volta Le sembra che non ci sia solitudine più grande di quella che sente in quel momento, poi dal suo nome Le arrivano ricordi, cose fatte e dimenticate e che adesso spuntano come fiori su terra protetta di bosco. E com’era felice e radiosa quel giorno, e come ha creduto alla bellezza, e come giocava a palla da bambina, e come studiava, e come erano e come sono stati tutti i giorni finora, e non se ne perde nemmeno uno e comprende che nessuno può prendersi tutto questo, nemmeno se si sta prendendo la vita. Aveva un vestito bianco, quel giorno, e fiori d’arancio composti come una collinetta, ed era maggio, e l’aria è ancora profumata e Lui non doveva sposarla, e Lei l’ha sposato ed era sincera e Lei ha creduto a qualcosa. E si fa gli auguri, perché quel giorno c’è stato, perché se lo ritrova adesso intatto quel giorno, è un giorno che Lei può festeggiare da sola, è una festa sua, di quando ha creduto, di quando ha promesso, di quando ha mantenuto, di quando ha saputo lasciare. Di adesso, è una festa di adesso.
(maggio 2017)

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Latifa Echakhch Globus 2014Latifa Echakhch, Globus, 2014

131. “il vostro cuore conosce”: una passeggiata nella fonte della sapienza

“COME POSSO SAPERE CIO’ CHE STO PER DIRE?”
 MARC BLOCH, Apologia della storia o mestiere di storico,
Einaudi 1969, p. 75

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Il vostro cuore conosce nel silenzio i segreti dei giorni e delle notti.
Ma il vostro orecchio brama il suono della conoscenza che il cuore ha.
Vorreste sapere con le parole ciò che da sempre conoscete nel pensiero.
Vorreste toccare con le dita il corpo nudo dei vostri sogni.
Ed è bene sia così.
La nascosta sorgente dell’anima dovrà pur sgorgare e correre mormorando al mare;
E il tesoro dell’infinita vostra profondità dovrà pur rivelarsi al vostro sguardo.
Ma non vi siano bilance a pesare questo tesoro ignoto;
Né sondate le profondità della conoscenza in voi con asta o scandaglio.
Poiché il vostro io è infinito e sconfinato mare.
Non dite, “Ho trovato la verità”, ma piuttosto “Ho trovato una verità”.
Né dite, “Ho trovato il sentiero dell’anima” dite invece,”Ho incontrato l’anima che
avanzava su ogni sentiero”.
L’anima non cammina su di una linea, e nemmeno cresce come una canna.
L’anima si apre come fior di loto dagli innumerevoli petali.

Khalil Gibran

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Se i profeti irrompessero
per le porte della notte,
lo zodiaco dei demoni
come orrida ghirlanda
intorno al capo-
soppesando con le spalle i misteri
dei cieli cadenti e risorgenti-

per quelli che da tempo lasciarono l’orrore-

Se i profeti irrompessero
per le porte della notte,
accendendo di una luce d’oro
le vie stellari impresse nelle loro mani-

per quelli che da tempo affondarono nel sonno

 Se i profeti irrompessero
per le porte della notte,
incidendo ferite di parole
nei campi della consuetudine,
riportando qualcosa di remoto
per il bracciante

che da tempo a sera ha smesso di aspettare-

Se i profeti irrompessero
per le porte della notte
e cercassero un orecchio come patria-

Orecchio degli uomini
ostruito d’ortica
sapresti ascoltare?

Se la voce dei profeti
soffiasse
nei flauti-ossa dei bambini uccisi,
espirasse
l’aria bruciata da grida di martirio-
se costruisse un ponte
con gli spenti sospiri dei vecchi-

Orecchio degli uomini
attento alle piccolezze,
sapresti ascoltare?

Se i profeti entrassero sulle ali turbinose dell’eternità
se ti lacerassero l’udito con le parole:
chi di voi vuol fare guerra a un mistero,
chi vuole inventare la morte stellare?

Se i profeti si levassero
nella notte degli uomini
come amanti in cerca del cuore dell’amato,
notte degli uomini
avresti un cuore da donare?

in NELLY SACHS,  Poesie, Einaudi 1971 (e 2006), traduzione di Ida Porena.
Nelly Sachs (1891-1970) è stata una poetessa e scrittrice tedesca di origine ebraica. Nel 1966 ha vinto il Premio Nobel per la letteratura.

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Chi ha detto che tutto è perduto?
Io vengo a offrire il mio cuore.
Tanto sangue si è portato via il fiume,
io vengo a offrire il mio cuore.

Non sarà tanto facile, so bene cosa sta succedendo.
Non sarà semplice come pensavo.
Come aprire il petto e tirar fuori l’anima,
una coltellata d’amore.

Luna dei poveri, sempre aperta,
io vengo a offrire il mio cuore.
Come un documento inalterabile,
io vengo a offrire il mio cuore.

E unirò i capi di uno stesso laccio
e me ne andrò tranquillo, senza fretta,
e ti darò tutto, e mi darai qualcosa,
qualcosa che mi dia appena un po’ di sollievo.

Quando non c’è più nessuno, vicino o lontano,
io vengo a offrire il mio cuore.
Quando i satelliti non bastano
io vengo a offrire il mio cuore.

Parlo di paesi e di speranza,
parlo per la vita, parlo per niente,
parlo per cambiare questa nostra casa,
cambiarla tanto per cambiare.

Chi ha detto che tutto è perduto?
Io vengo a offrire il mio cuore.

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Peter Apian mappa del mondo1530Peter Apian, Mappa del Mondo, 1530

Gerardus Mercator mappa del mondo 1538Gerardus Mercator, Mappa del Mondo, 1538

 

130. Agostino e la più bella lettera d’amore (ovvero i confini dell’arrogante illusione della sicurezza inconsapevole)

La dichiarazione d’amore più bella l’ho ricevuta con una lettera scritta con la penna rossa e contenente anche qualche piccolo errore di ortografia, quando avevo circa 23 anni ed ero già fidanzata con quello che sarebbe diventato poi mio marito. Me la scrisse un ragazzo di nome Agostino, conosciuto durante una passeggiata.
Agostino era un ragazzo di corporatura minuta, alto come me, con tanti capelli rossicci e barba e baffi, tutti arruffati; molto pulito e ordinato nel corpo e negli abiti. Indossava l’eskimo, il giaccone che in quei tempi era quasi una divisa d’obbligo per ragazzi di sinistra impegnati. Era gentile e parco nelle parole. Ci conoscemmo in modo fortuito e casuale. Io, durante la mia adolescenza e la mia giovinezza, trascorrevo molte domeniche pomeriggio a passeggiare con le amiche dal mio paesino fino a un bivio, posto come nostra meta, e ritorno, circa 6 km di camminata su strada asfaltata e percorsa dalle macchine. La domenica pomeriggio era facile incontrare auto piene di ragazzi che volevano divertirsi e che cercavano ragazze, quindi si fermavano quando vedevano il nostro gruppetto tutto al femminile.
In una di queste macchine una volta, un pomeriggio di una domenica di inizio ottobre, c’era Agostino con degli amici. Furono educati e gentili con noi, quindi ci fermammo a chiacchierare e ci conoscemmo. Le domeniche successive Agostino e suoi amici tornarono, e fecero anche tratti di strada a piedi con noi.
Risultò presto evidente che il motivo di quegli incontri era l’innamoramento di Agostino per me. Si metteva  vicino a me, parlavamo, ci ascoltavamo. Lui presto mi disse del sentimento che provava e io gli spiegai che ero fidanzata, che provavo per lui un sincero affetto – ed era vero- ma che più di quello non potevo offrire.
Agostino e suoi amici tornarono per molti mesi a passeggiare con noi la domenica pomeriggio, finché una domenica, a ridosso di Pasqua, intravidi un’espressione sul volto di un suo amico, un’espressione che diceva ‘lascia perdere, lo vedi che non c’è nulla da fare’. Quella stessa domenica Agostino mi aveva portato il libro di Umberto Eco dal titolo Apocalittici e integrati, nell’edizione economica Bompiani, e dentro ci mise una lettera e mi disse di leggerla dopo, a casa. Poi ci salutammo e lui se ne andò, con i suoi amici.

La lettera era scritta con la penna rossa, c’era qualche piccolo errore di ortografia e conteneva le più belle parole d’amore che mi siano state mai dedicate. Forse dovevo capire, ma allora non fui in grado di discernere la strada; ce ne vuole per capire bene quale sia la nostra vera strada e allora ero tutta colma delle mie idee, delle mie convinzioni, del mio fidanzamento, della mia scelta, come poteva esserne colma una “brava ragazza”. Ero trincerata nel mio mondo, e dovevo maturare molto ma credevo di essere nel giusto, non avevo ancora compreso quanto sia importante la chiarezza profonda alla base delle scelte e, nella mia sicurezza immatura e arrogante, non avrei nemmeno lontanamente saputo ammettere che ciò che provavo per Agostino fosse qualcosa di diverso dall’amicizia. Non “potevo/volevo” distruggere la mia immagine, quella fatta mia e datami dagli interessi altrui. Non capii, e si paga quando non si “vuole/può” capire.
Ciò che fui in grado di capire erano quelle belle parole, ma non  mi avventurai a conoscere il cuore che le aveva scritte, non scardinai il mio mondo, che mi sembrava giusto com’era, non superai alcun confine dato.
Dopo quella domenica non rividi più Agostino. Volevo restituirgli il libro e cercai sull’elenco telefonico il suo nome, ma non lo trovai.
Negli anni che trascorsero da quella domenica pensai spesso a lui, con una fitta nel cuore che col tempo ho capito cosa fosse, mano a mano che crescevo, o che venivo tradita e lasciata dalle persone amate, o cercata con un intento di divertimento occasionale.
La lettera che mi scrisse Agostino la strappai un po’ di tempo dopo averla letta; non amavo conservare cose che non sentivo mi appartenessero e che non condividevo. E, anche ricordando l’espressione del viso del suo amico,  pensai che Agostino non sarebbe più tornato perché convinto del fatto che non corrispondevo al suo amore, ma solo alla sua possibile amicizia. Erano bellissime parole d’amore e soltanto come tali purtroppo le classificai.
Dopo, col tempo, ebbi modo di confrontare il modo di porsi di Agostino con quello degli altri uomini che mi si sono avvicinati: tutti gli altri hanno posto la loro dichiarazione “d’amore” in termini fisici, Agostino parlava dell’interezza della persona. E capii anche, col tempo, che con Agostino non mi ero mai sentita violata.
C’è voluto tempo per molte cose.

Circa trent’anni dopo ebbi bisogno di un falegname per dei piccoli lavori da fare in casa. Un amico mi mise in contatto con delle persone che conosceva e che abitavano nello stesso paese da cui veniva Agostino.
Pochi giorni dopo, in un pomeriggio di primavera, arrivarono tre falegnami. Ebbi un tuffo al cuore al vedere uno di loro, mi sembrava Agostino, e con un filo di voce e di gioia glielo chiesi: “… tu … sei Agostino … ? …”
Gli altri due uomini si voltarono repentinamente a guardarsi e uno di loro disse all’altro: “Allora è lei …”, mentre il terzo mi rispondeva dicendo: “No, non sono Agostino.”
Seguirono spiegazioni, anche perché ero rimasta stupita e turbata da quella frase “Allora è lei.”, di cui non avevo fatto fatica a comprendere il senso.
I tre falegnami erano stati amici di Agostino, quello che gli somigliava era anche il cugino. Non erano tra quelli che avevano accompagnato Agostino quando veniva da me, ma lo avevano conosciuto molto bene.
Pochi giorni dopo l’ultima volta che ci eravamo visti, Agostino era morto in un incidente d’auto. Questo era il motivo per cui non era più tornato a trovarmi, mi dissero i suoi amici; Agostino non avrebbe smesso di venirmi a trovare, mi dissero i suoi amici; nessuno lo aveva visto così innamorato prima di allora, mi dissero i suoi amici.

Qualche giorno dopo andai al cimitero del suo paese, trovai la sua tomba, pregai, deposi un fiore, parlai un po’ ad Agostino dicendogli che solo tardi avevo cominciato a cercare di capire cosa fosse l’amore e come riconoscerlo, e che ancora non avrei saputo rispondere, ma che sicuramente lui era tra chi avrebbe saputo dirmelo e dimostrarmelo.
Poi lo salutai e me ne andai. Era un pomeriggio piovoso di primavera, pieno di odori di erbe e di fiori. Chiusi una porta che era rimasta aperta per tanti tanti anni, ma lasciai aperta l’altra che sentivo fosse quella della strada che mi aveva indicato e insegnato Agostino: quella dell’attenzione, della gentilezza, del perseverare senza imporre, della ricerca delle risposte alle domande cos’è l’amore, come si dimostra, come si vive.

Penso spesso ad Agostino con tenerezza e affetto. Lui non mi ha fatto del male, non mi ha tradito, non si è divertito usandomi, non mi ha mancato di rispetto. Lo so, la distanza, la morte, ciò che si vive solo nella propria mente  tolgono ogni possibilità di delusione, rendono tutto perfetto, ci lasciano immaginare che con quella persona sarebbe stato come vivere in paradiso. Lo so tutto questo, ed io non faccio questa offesa alla memoria di Agostino, lui era lui e non ciò che io immagino sarebbe stato; lo lascio alla sua vita finché è vissuto, ai nostri momenti insieme che sono stati quelli e non altri, in quel modo e non in un altro modo; non offusco la sua memoria con le mie speranze e le mie illusioni, e nemmeno facendogli vincere il confronto con altri uomini che ho conosciuto.
Il seme che ha lasciato in me è grande e a volte ho provato a condividerlo con chi ho amato.

Nella mia libreria ci sono due copie identiche del libro di Umberto Eco dal titolo Apocalittici e integrati: una è quella che mi diede Agostino e l’altra è quella che io già possedevo. Non glielo dissi ad Agostino, e forse qualcosa avevo capito dell’amore. Spero.
Le due copie sono vicine e quello è un pezzo di mondo. Anche quello è il mondo.

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1Astronomo e matematico, dal 1531 la prima cattedra di matematica nel Collège Royal (l’attuale Collège de France), Oronce Fine (1494-1555) fu uno dei primi studiosi francesi a lavorare con la cartografia. La sua mappa del mondo a forma di cuore appartiene a un gruppo di 18 mappe di proiezione a forma di cuore pubblicate tra il 1511 e il 1566. Ispirato a una delle proiezioni descritte dal geografo del II secolo, Tolomeo, questo sistema di proiezione fu codificato da un matematico a Norimberga, Johannes Werner (1468-1522), in un’opera scritta nel 1514. La mappa di Fine riflette lo stato delle conoscenze e le ipotesi geografiche e le incertezze del suo tempo. Il Nord America è unito all’Asia e una vasta Terra Australis, un ipotetico continente che i geografi postulati dovevano esistere per controbilanciare il peso delle masse terrestri settentrionali, è disegnata nel sud. La mappa proviene dalla collezione del geografo Jean-Baptiste Bourguignon d’Anville (1697–1782). Fu acquistato dal re Luigi XVI nel 1779 e depositato nella Biblioteca Nazionale di Francia nel 1924.