129. Cantico delle Creature

E’ una mia intima e grande soddisfazione sapere che il primo testo poetico della lingua italiana di cui si conosce l’autore sia il meraviglioso Cantico delle Creature scritto da San Francesco, intorno al 1224.

https://it.wikipedia.org/wiki/Cantico_delle_creature

http://www.treccani.it/enciclopedia/cantico-di-frate-sole/

http://www.treccani.it/magazine/strumenti/una_poesia_al_giorno/05_06_Francesco_dAssisi.html

 

La lingua italiana si forma prima attraverso testi in prosa -letterari e giuridici- e la poesia si affaccia dopo, un po’ più tardi rispetto alla prosa.
Nel 1938 fu scoperta una canzone che è antecedente il Cantico delle Creature e i testi d’amore di Giacomo Lentini, e di cui non si conosce l’autore: Quando eu stava in le tu cathene. Fu trascritta su una pergamena tra il 1180 e il 1210, ora conservata nell’Archivio Storico Vescovile di Ravenna. E’ una traccia, anche tenera, dei primi albori della nostra lingua, che toccava l’argomento dell’amore tra un uomo e una donna.
A me fa piacere che la lingua italiana, in ambito poetico, si stesse formando sul tema dell’amore.

http://www.treccani.it/magazine/strumenti/una_poesia_al_giorno/01_17_Anonimo_pergamena.html

https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2000/11/14/piu-antichi-versi-italiani.html

 

Ma il Cantico delle Creature è un testo più maturo, più organizzato dal punto di vista linguistico, e a ragione detiene il primato di primo testo poetico della lingua italiana, considerando anche il fatto che se ne conosce l’autore.
Anche nel Cantico dei Cantici si parla d’amore, e di quell’amore che piace a me, quello a cui penso quando, impropriamente, ne parlo: una condizione di connessione con tutto l’esistente, di assenza di paura; una condizione  il cui raggiungimento forse necessita il cammino di un’intera vita. E dentro questo amore ha per me senso l’amore tra un uomo e una donna.
Questo tipo di amore-connessione si esprime, per Francesco, con la lode al “suo” Signore – “Laudato sie, mi’ Signore”-  che ha creato tutto ciò che esiste, e quindi il Cantico diventa un meraviglioso inno alla Vita e alle vite, e anche a quella che, dopo Jung, chiameremmo l’Ombra, perché il Cantico include la lode al Signore anche per la morte.
Non viene descritto l’amore tra un uomo e una donna, Francesco non loda il suo Signore per questo aspetto della vita e, anche se è noto che l’argomento all’epoca era campo della poesia amorosa, un po’ me ne dispiace; ma è talmente ampio vasto immenso lo spazio del  “Laudato sii” di Francesco, che le relazioni-connessioni instaurate nel testo sortiscono l’effetto di una totale inclusività, ci si sente inclusi sia come singoli che come “appartenenti a” ed è in questa appartenenza che trovo inclusa, se anche non esplicitata,  la relazione a due.
Ciò che mi colpisce molto nel Cantico è anche la sua capacità di includere l'”essere” e i “comportamenti”: l’acqua “è” molto utile et humile et pretiosa et casta; il fuoco “ennallumina” et “è” bello e iocundo; ecc., in una coerenza che sottolinea la natura delle cose e le loro capacità, il loro modo sia di essere che di stare nel mondo e di contribuire alla vita. Le creature sembrano avere piena coscienza di sé, di ciò che sono, di ciò che fanno, diversamente, sembra, da noi essere umani che il più delle volte ci illudiamo su ciò che siamo e ciò che possiamo fare, con conseguenze nefaste delle e sulle nostre ‘scelte’.  E le creature del Cantico sembrano avere questa piena coscienza perché cantate da una voce di alta consapevolezza, quella dell’autore che le vede per ciò che sono tanto quanto vede se stesso per ciò che è.
Mi sento felice quando penso che la lingua italiana esprime la sua prima forma di poesia d’autore con il Cantico delle Creature, un testo che anche i laici potrebbero apprezzare, proprio per questa sua forza inclusiva e per la sua capacità di connessione che, necessariamente, sfocia in una alta forma di lode, quello stato di grazia che a volte conosciamo proprio perché ci sentiamo di appartenere a  sistemi che sosteniamo con la nostra vita e che ci sostiene con tutte le altre vite che ne fanno parte.

 

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128. lentius, profundius, suavius: l’eros ecologico di Alexander Langer

https://it.wikipedia.org/wiki/Alexander_Langer

Impossibile dimenticare quel “lentius, profundius, suavius” di Alexander Langer … quel suo “più lentamente, più profondamente, più dolcemente” con cui, da profeta qual era, indicava lo stile di vita per realizzare la conversione ecologica necessaria all’esistenza del pianeta terra e degli esseri umani.
Impossibile, per me, non sentire in quel “lentius, profundius, suavis” tutta la sua forza erotica e vitale; tutta la sua potenza come indicazione di ogni gesto umano: fare l’amore, fare l’amore con tutto, più lentamente, più profondamente, più dolcemente. Lentius, profundius, suavis: il modo più bello di fare l’amore, il modo più bello di stare sulla terra e di vivere.

 
Da profeta, Alexander Langer ha saputo camminare oltre i confini posti dalle geografie dalle storie dalle filosofie dai poteri.
A me piace da sempre esplorare il concetto di confine, in ogni sua forma e significato declinazione ed estensione; forse perché sono nata in una terra di confine, forse perché ho intravisto ben presto come si “confina” ogni cosa, come con quanta facilità si dice “questo va bene, questo no; questo è dentro, questo è fuori” . E’ un piacere ascoltare come Alexander Langer ne parla nel video che condivido qui sotto.

 

 

Penso che oggi non manchino le parole, oggi più che mai siamo sommersi e sommergiamo di parole ogni cosa; penso che invece oggi manchi l’ascolto, la capacità di ascoltare. Si interpreta, si giudica con estrema facilità, ma non con altrettanta facilità si ascolta.
Oltre il confine dell’arroganza e della propria centralità ad ogni costo, c’è la terra immensa sottile diffusa dell’ascolto, la terra più lenta più profonda più dolce. La terra dove si fa l’amore.
Forse è inutile parlare ancora di etica di rispetto di morale.
Forse è ora di riportare tra le persone Eros, la simbologia dell’Eros dell’antica Grecia, la divinità primordiale, il primo e più antico dio. E la simbologia di Hermes, il dio che assomma in sé molteplici significati, oltre quello più noto di messaggero degli dei.
Forse bisogna ricordare con forza che quando si parla di cristianesimo come radice dell’Europa, non si parla di una rete o di un muro che ha chiuso e confinato un territorio, ma di un’idea, di una religione che si fonda su un dio che viene narrato come Colui che ha creato per amore; e se proprio lo si vuole tirare in ballo, balliamo con quel suo amore creatore, generativo, molteplice.
Fare l’amore, oltrepassare i confini.
Più lentamente, più profondamente, più dolcemente: questa è l'”ecologia”,  questo è l’orgasmo che libera il respiro il sussurro il grido vitale, questa è la vita.

 

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127. l’Altra

Leggendo il titolo di questo post, a cosa si è pensato?

L’Altra è l’Altra: indubbiamente, pensiamo che è l’altra donna, cioè una donna con cui un uomo già impegnato ufficialmente intrattiene rapporti non “ufficiali”.
Torna utile ricordare lo studio sull’ideologia del dizionario che fece MARIA GIOVANNA PIANO nel suo testo L’esperienza e la parola, Consulta Femminile Regionale per la Sardegna, 1992. I termini al maschile hanno un significato che al femminile diventa offensivo e negativo; un esempio classico: ‘peripatetico’ è un filosofo e ‘peripatetica’ è una donna ‘di facili costumi’.
https://blog.libero.it/wp/navigaria/2018/10/27/28-omaggio-maria-giovanna-piano-lideologia-mappa-del-dizionario-auguro-percorsi-nei-vocabolari-oltre-quello-suggeri-la-studiosa/

Invece in questo post voglio rendere omaggio a Flavio Lotti, organizzatore della Marcia per la Pace Perugia-Assisi. Ebbi il piacere, tempo fa, di assistere a una sua conferenza in cui l’argomento principale e trattato in tutti i modi possibili era l’Altro, l’alterità, il differente da noi e l’incontro con la diversità. E in quell’occasione lo sentii proporre un poderoso cambiamento di genere: “l’Altro … e perché non l’Altra, in modo da uscire da questo assoluto maschile?” Rimasi senza parole e col cuore a mille … il contesto, per quanto di aperta mentalità, non era certo quello più consono ad accogliere una parità di genere così alta ed evidente, ma troppo scardinante i criteri accolti come dominanti.
Eppure sì, ‘perché non l’Altra?’, stava dicendo un uomo, finalmente. L’Altra è ancora più Altro dell’Altro, ancora più diversità, ancora più differenza. E’ “LA” differenza. E’ ciò che manca al mondo, ciò che il pensiero la politica l’economia la vita quotidiana devono ancora includere per formare la  completezza e la salvezza.

 

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“Nelle pagine seguenti si è tentato di delimitare in qualche modo la strada che porta ad una nuova comprensione di questo principio della donna. Fino a quando non si sarà compreso di nuovo, riteniamo che non si potrà compiere alcun passo in avanti né per ciò che riguarda lo sviluppo psicologico della donna stessa, né rispetto alla qualità del rapporto che è possibile tra uomini e donne. Oltre a ciò anche gli uomini hanno bisogno del rapporto con il principio femminile, non soltanto in funzione di una migliore comprensione della donna, ma anche perché il loro contatto con il mondo interiore o spirituale non è governato da leggi maschili ma femminili, come ha indicato Jung in L’io e l’inconscio e altrove nei suoi scritti. Oggi c’è però un urgente bisogno di un nuovo rapporto con questo principio della donna per controbilanciare l’unilateralità del prevalente mondo maschile della civiltà occidentale. ”
M. ESTHER HARDING, I misteri della donna. Un’interpretazione psicologica del principio femminile come è raffigurato nel mito, nella storia e nei sogni, Casa Editrice Astrolabio 1973, p. 28

 

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“Soprattutto, il mondo gilanico sarà un mondo in cui le menti dei bambini, maschi e femmine, non saranno più incatenate. Non saremo più educati sistematicamente alla limitatezza e alla paura, per mezzo di miti che rivelano quanto siamo inevitabilmente perversi e malvagi noi esseri umani. Sarà un mondo in cui ai bambini non si racconteranno leggende su uomini onorati per la loro violenza, o favole su fanciulli che si smarriscono in spaventose foreste, in cui le donne sono streghe malvage. Si racconteranno loro nuovi miti, leggende e storie in cui gli esseri umani sono buoni e pacifici, e il potere della creatività e dell’amore, simboleggiato dal sacro Calice, il santo contenitore della vita, è il principio dominante. In questo mondo gilanico, il nostro slancio verso giustizia, uguaglianza e libertà, la nostra sete di conoscenza e d’illuminazione spirituale, il nostro anelito per l’amore e la bellezza, saranno alla fine liberati. E dopo la sanguinosa svolta della storia androcratica, sia gli uomini che le donne finalmente scopriranno cosa può significare vivere come esseri umani.”
RIANE EISLER, Il calice e la spada. La civiltà della Grande Dea dal Neolitico ad oggi, Forum 2012, p. 362

 

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pietro-vesconte-1321PIETRO VESCONTE, Mappa del mondo, 1320 c.

 

126. figure di donna 14: il confine e l’incontro

“Assicurate de ave’ le mani pulite bene
prima de tocca’ er core de ‘na persona.”
(Anna Magnani)

Come se il mare separandosi
svelasse un altro mare,
questo un altro, ed i tre
solo il presagio fossero

d’un infinito di mari
non visitati da riva −
il mare stesso al mare fosse riva−
questo è l’eternità.

Emily Dickinson

 

Ecco un po’ d’ombra, dove all’improvviso arriva un raggio di sole, lucido come uno specchio nuovo.
E Lei vede Lui, inaspettato, all’improvviso come il raggio di sole. Lei si nasconde dentro un arco davanti a un portone. “Me ne vado” pensa. “No, non me ne vado. Io non ho fatto nulla, è Lui che non mi vuole incontrare” pensa “e non ho mai saputo il perché.”
Esce dal nascondiglio, si unisce al gruppo di persone in cui c’è anche Lui e in cui deve stare anche Lei.
A un tratto Lui sembra guardarla. Lei si chiede se Lui la vede, visto che non vuole vederla e il volere è uno dei potenti filtri sulla realtà; si chiede se lui la riconosce. Non lo sa, non riesce a saperlo. In quei due tre secondi in cui Lui sembra guardarla, Lei sente il proprio volto come perdersi, diventare come nebbia incontrollata; vorrebbe dire a Lui ciao come stai, vorrebbe sorridergli, ma il volto assume espressioni che nemmeno lei sa decifrare; forse il  volto sta dicendo scusa non sapevo che anche tu fossi qui, non sono qui per te; il volto di Lei dice a Lui cose che nemmeno Lei vorrebbe, Lei non vorrebbe scusarsi di esistere, scusarsi di essere qui o altrove o in nessun posto, Lei vorrebbe solo dire ciao, come stai, sono felice di vederti. Ma in quei due o tre secondi fatti di mille anni Lei ancora pensa “vado via, mi eclisso, scompaio, faccio il volere di Lui” – dell’Altro, come ha fatto per molto tempo, scomparire a sé, sentirsi in colpa, morire per far vivere; contro tutto questo è la lotta di Lei, la lotta di tutta una vita, e le vittorie, e farcela – .
E poi invece arriva quella spinta, ancora una volta una vittoria, quella spinta che è una specie di serenità, di amore per non sa che cosa, è una condizione d’anima, non è descrivibile, non la sa descrivere nemmeno Lei. E decide di rimanere, rimane per il tempo necessario. Lui saluta sorride alla gente al mondo a tutto e a tutti ma non a Lei. Va bene, si dice Lei, e si lascia andare alle parole che ascolta, alle immagini che guarda, si lascia incantare da tutto.
E chissà da dove viene questa luce lucente che la tocca, a tratti, come un ritmo, una musica, un passo di danza a due con i suoi capelli che si illuminano sotto quel raggio di luce che è luce che è acqua che scorre, che è sorriso e diventa ricordo di come Lei amava Lui, tanto, il suo grande amore Lui era per Lei, ma Lei non glielo aveva detto mai, non aveva mai fatto nulla, Lei, per attrarlo a sé, per trattenerlo. Lei semplicemente viveva e le persone andavano venivano nella sua vita, come onde lente o tumultuose; Lei non amava strategie e tattiche nei rapporti, anche se sapeva che le persone vivono di questo, e infatti Lei rimaneva sempre sola, ma in pace col suo cuore perché aveva sempre lasciato libere le persone, libere a se stesse di rimanere o di restare – e con chi amava più che mai- era parte del suo modo di amare lasciare questa libertà; un po’ come un’isola vicina alla costa e dove nessuno va, perché non c’è agenzia di viaggi che la renda famosa, perché non c’è nessuna narrazione intorno alle sue possibili bellezze e chi vi approda lo fa solo perché lo vuole, perché è incuriosito e se vi resta è perché gli piace e lo vuole.  Ci può essere una coscienza tranquilla e triste nella solitudine, e così è la mia coscienza, pensa Lei, tranquilla certo, e un po’ triste e sola, ma almeno non ho ingannato nessuno.
Anche questi sono confini limiti invalicabili; e Lei pensa a quella frase scritta nei cartelli appesi alle reti che definiscono le aree militari: il limite di per sé è valicabilissimo, ma viene detto e imposto che non lo è. Ecco, così per me, pensa Lei; era un dato di realtà che Lei lo amasse, ma Lei raccontava che non poteva che non doveva, e il limite invalicabile era che Lui non amava Lei. E Lei era rimasta fuori, lo aveva amato in disparte, da straniera, spesso con la sensazione di essere Lei esule su un barcone in mezzo al mare e Lui la terraferma che chiudeva i porti.
Ecco di nuovo il raggio di luce lucida che sembra quasi cantare e Lei non capisce da dove venga questa luce luccicante che diventa aria luminosa e trasparente dentro cui i colori delle cose si fanno pastello; questa luce che le tocca gli occhi con l’intensità con cui Lui a volte la guardava, e dalle labbra mute di Lui le parole sembravano andargli negli occhi e a Lei sembrava che Lui in quei momenti le parlasse e le dicesse che l’amava; ma Lei non poteva esserne sicura, erano un confine quegli occhi e quel silenzio; allora taceva anche Lei, non per cautela ma per rispetto di Lui; non per difendersi ma per rispetto, e allora Lei abbassava gli occhi, guardava altrove e chissà- pensa adesso Lei mentre ricorda- chissà che Lui non abbia scambiato per poco coraggio il suo rispetto, per timidezza d’altri tempi, fuori moda. Sì, pensa Lei, fuori moda io lo sono, e d’altri tempi e d’altri spazi, dove l’amore è amore e non conquista, non “ora vedo come va, faccio questa esperienza, entro a modo mio nella vita d’un altro e poi me ne vado, pure adducendo colpe all’altro”; sì, altri tempi, che ami quando ami e quando non ami te ne vai, cambi strada ma senza ridurre l’altro a schermo e causa di ciò che ritieni un tuo sbaglio, senza ridurre l’altro a immondizia della tua esperienza e della tua vita, a frantumarlo come residuo dei tuoi errori da cui decidi di rialzarti poi glorioso e vittorioso e orgoglioso di avercela fatta, lasciando l’altro senza domande senza risposte senza risorse, senza niente.
Ma dentro i ricordi e il dolore di Lei c’è pure quella incredibile tenerezza di Lui, quella indicibile tenerezza che traspariva da ogni gesto anche il più brusco, che sgorgava da ogni parola anche la meno gentile; quella tenerezza per cui Lei dolcemente e fortemente lo amava; la stessa che sente adesso, mentre Lui sta parlando, Lui sta parlando e Lei ascolta quello che dice, come lo dice, e Lei si lascia andare alla voce di Lui alla voce che le manca così tanto, si lascia andare a guardare le mani di Lui che sembrano danzare nell’aria, le sue mani che le mancano così tanto; si lascia andare a tutto ciò che ha intorno e il mondo è così bello adesso che Lui improvvisamente e per pochi minuti incontra la vita di Lei, così all’improvviso come questa luce che adesso sembra non voler dire più nulla se non esistere illuminare danzare toccare Lei, avvolgere Lei.
Ora Lui sta dicendo che se ne va.  “Chissà” pensa Lei “se mi saluta, se mi chiama, se posso sentire ancora una volta il mio nome pronunciato da Lui. Chissà se  mi ha vista in mezzo a questo gruppo di persone, se mi ha riconosciuta dopo così tanti anni, millenni, secondi, attimi, eternità che non ci vediamo.”
Sì lo so, pensa Lei, lo so che questi sono gli interrogativi delle persone non amate; lo so che finché una persona non risolverà in sé questa mancanza incontrerà persone che non la ameranno, incapaci a loro volta di amare e incapaci di riconoscerlo, come Lei, qualora arrivasse l’amore; perché arriva sempre l’amore, si ripropone all’infinito nella vita delle persone, bisogna solo riconoscerlo e abbracciarlo e quella è la guarigione, quello è il superamento di quel confine posto in una vita all’alba di quella vita, quando era una piccola vita e per vivere aveva bisogno di tutto quello che veniva dato dagli adulti. Lei lo sa che quelle sue domande “chissà se mi saluta, chissà se mi ha riconosciuta” emergono dalle sue paure, e lo sa che sono domande di tante persone; lo sa che sono domande non di chi si avventura, ma di chi resta fermo e impaurito, di chi accetta che vengano chiusi i porti, che venga narrato come limite invalicabile un mare aperto e valicabile; lo sa che  sono domande di chi costruisce muri, di chi ha paura, di chi non ha superato la sua paura di bimbo non amato. Lei lo sa tutto questo e, per vivere, ad ogni passo ha superato quei confini, ad ogni passo si è data all’incontro, senza tregua senza tattiche senza strategie.
Lei ha già teso la sua mano verso di Lui dopo che Lui se ne era andato, Lei ha già cercato di superare i confini dell’incomprensione da cui si erano lasciati dividere, e non ce la fa adesso a ripetere ancora il gesto di apertura, di avvicinarsi, di dirgli ciao come stai è bello rivederti. Lei non ce la fa per rispetto di Lui, e aspetta che sia Lui ad aprire il porto che ha chiuso improvvisamente, aspetta che sia Lui a comprendere come abbia decretato che solo la sua verità aveva valore e diritto di esistere, che solo la sua vita andava salvaguardata; Lei aspetta che sia Lui a fare di quell’incontro l’Incontro, la riconciliazione, la fiducia. Ma Lui non fa niente di tutto questo. Va bene così, pensa Lei. Lui se ne va bruscamente lasciando un saluto generico a tutti, non la chiama. Lei non esiste per Lui, non deve esistere, forse la vita di Lui si tiene anche sulla cancellazione di  Lei. Va bene così, pensa Lei. Va bene.  Se si ammette che una vita si regga sulla cancellazione di altre vite, va bene; d’altronde, è proprio così che va il mondo, cancellazioni e non incontri.
Lei se ne va, allora, si perde tra la gente, una persona del gruppo le passa accanto, la saluta con gentilezza; Lei si perde tra la gente, una qualunque una sempre una mai.
Ecco, è solo qualche giorno più tardi, Lei sta uscendo dal lavoro e lo vede, seduto su un gradone di pietra, all’ombra per ripararsi dal sole estivo. Lei rallenta un po’, non sa cosa fare, si chiede perché Lui sia lì. Lui la vede, la riconosce stavolta, si alza e le va incontro. Lei ha un po’ di timore, tra i suoi pensieri c’è anche quello che Lui sia lì per rimproverarla – eccola la paura alla quale ancora deve rispondere qualche volta, ecco il confine che le si pone davanti per essere superato e farsi Incontro. Si ferma davanti a Lui che già si è fermato, Lui che “Scusa” le dice, e “Perdonami”. Lei lo guarda immersa nel silenzio che esigono quelle parole per essere condivise date ascoltate raccolte.
Poi fa un passo, e Lui con Lei. Hanno molte cose da dirsi, hanno tutto il resto della loro vita per continuare quella meravigliosa amicizia, mai finita mai interrotta mai iniziata; tutto il tempo per quel meraviglioso amore che è uno dei tanti amori possibili impossibili impensabili immaginabili concepibili, da far venire al mondo.
Hanno tante cose da dirsi, e cominciano con qualche passo e con il silenzio, ma soprattutto con il loro essere nuovi cresciuti adulti, esseri umani che hanno cancellato un confine grande, grande come l’amore che i bambini aspettano per imparare a vivere.
Torna incessante la luce allegra a tamburellare il volto di Lei, piccoli guizzi e tocchi luminosi e ancora luce e luce come quando il sole alto nel cielo rende il mare scintillante di luccichii brillanti danzanti vivaci, ancora luce e luce e luce come uno specchio nuovo … ed ecco Lei si sveglia, era un sogno allora, si era addormentata sull’amaca sotto le querce, il sole a fare capolino tra le foglie e i rami in un pomeriggio estivo, tra i canti delle cicale che si levano su un mare di silenzio. Di silenzio. Silenzio.
Chissà chi è quell’uomo del sogno, chissà perché lo sogna così tanto ultimamente. Chissà se esiste, chissà dov’è. Chissà se mai Lei incontrerà Lui. O se Lui mai incontrerà Lei. Lei Lui. Chissà.

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125. il mondo vegetale

“Solo questo domando: esserti sempre,
per quanto tu mi sei cara, leggero.”
Giovanni Raboni

 

E’ difficile spiegare gli amori, e per certi amori è ancora più difficile trovare le parole per dirli. Gli amori dei bambini, per esempio.
E non intendo l’innamoramento per un’altra persona, intendo invece gli amori come passioni, interesse per qualcosa.

Sono manifestazioni di un seme che diventerà pianta, espressioni della singolarità di quella persona venuta da poco a stare nel mondo e che, con quelle sue particolarità, lo arricchirà, lo diversificherà, lo pluralizzerà.
E’ compito degli adulti osservare quegli interessi, aiutare la piccola persona a manifestarli, approfondirli, allenarli. Invece spesso non accade così, spesso gli adulti soffocano o deviano queste particolarità, indirizzando il bambino o la bambina verso altre strade che essi ritengono più consone, più accettate socialmente, più gestibili e controllabili.
Che meraviglia, invece, le passioni dei bambini! Che bellezza seguirle, assecondarle, farle fiorire. Ecco, se penso a qualcosa che possa descrivere l’amore, penso proprio e sempre a “far fiorire”, come splendidamente Pablo Neruda ha già detto: “Quieto hacer contigo / lo que la primavera hace con lo cerezos.” ( e consiglio di leggerla tutta la poesia di cui questi sono i due versi finali … ma insomma, tutto Pablo Neruda, compreso il suo meraviglioso diario “Confesso che ho vissuto”).
Al di là di tante parole, si vede se circola amore tra le persone, perché “fioriscono” e, di conseguenza, poi fanno meravigliosi frutti.
E uno degli elementi necessari sia per far fiorire che per fiorire è l’ascolto, l’osservazione, la mano tesa: guardare con gli occhi luccicanti di bene  questi piccoli esseri ancora per buona parte intatti, serissimi nei loro interessi.

 

Ho ricordi netti di miei interessi precisi da bimba piccola piccola, dilaganti come fresca sorgente non saprei dire da dove, e così “edificanti” di quello che sentivo che io fossi: edificanti, cioè come mattoncini che avrebbero costruito ciò che si sarebbe sviluppato e composto col tempo.
Uno di questi miei amori erano (lo sono ancora) le piante, tutto il mondo verde che io percepivo vitalissimo di una vita che ero costantemente curiosa di conoscere: percepivo tutto il mondo verde come un mondo amico, dal più piccolo filo d’erba agli alberi più grandi. Sono stata certamente facilitata in questo mio amore per le piante dall’essere nata in un minuscolo paesino –poco più grande del Rio Bo descritto da Aldo Palazzeschi- immerso nel verde, ma sicuramente in me vi era già un seme  in questo senso, e me lo confermano altri miei grandi amori di bimba, amori e passioni che non avevano nulla a che vedere con l’ambiente in cui sono nata.
Passavo – e ho passato e passo – molto tempo a osservare i fiori, le foglie, le molteplici forme diversificate attraverso le quali la natura e la vita si esprimevano. Mi ha sempre interessato il punto in cui un filo d’erba un fiore un albero esce dalla terra, il luogo d’incontro tra le radici nascoste e il tronco visibile, un punto che a me non è mai sembrato scontato e banale.
A lungo, da piccola, soffrii di non sapere il nome delle piante, mi sembrava una forma di maleducazione non poterle chiamare per nome: sapevo benissimo che erano nomi dati loro da noi esseri umani, ma intanto mi sembrava una buona cosa conoscere almeno quelli. Così da adolescente ebbi due modi di soddisfare questo bisogno: il libro di scienze del primo anno delle scuole superiori conteneva una classificazione completa delle piante e quindi anche tanti tanti loro nomi; acquistai il libro “Segreti e virtù delle piante medicinali”, pubblicato da Selezione dal Reader’s Digest, perché nel frattempo, le piante che sentivo come molto amiche da bimba, erano diventate per me anche portatrici indiscusse di salute e di medicine, “basta studiarle”, pensavo.
C’è un grande studioso italiano che si occupa di piante in modo da farle fiorire, cioè da far fiorire ai nostri occhi i loro significati, le loro vite vissute in modo così diverso dalle nostre vite umane, e così colme di altrettanta importanza. Lo scienziato, di prestigio mondiale, si chiama Stefano Mancuso, è uno dei fondatori della neurobiologia vegetale, è professore all’ Università di Firenze, dirige il LINV-Laboratorio Internazionale di Biologia Vegetale e per saperne di più sulle cose meravigliose che fa basta navigare in rete. Ha scritto interessantissimi libri divulgativi (come dovrebbe essere la divulgazione, cioè una cosa seria fatta da espertissimi).

 

Ci sono bimbi e bimbe che, però, non fioriscono: nessuno li ascolta e osserva; i loro semi rimangono sepolti. Bimbi e bimbe che, da adulti e adulte, non vivono appieno perché non seguono e sviluppano i loro doni e che rimangono con l’attesa di qualcosa: attesa di essere loro stessi qualcos’altro, attesa di qualcosa che arrivi … e spesso questo qualcosa si incarna in qualcuno di cui si innamorano e che non è mai la persona che potrebbe amarli e amarle, perché la premessa di questo sentimento è “sbagliata”, è compensativa e non apre all’amore.

Però, anche senza essere per qualcuno colui o colei che fa fiorire, si può essere per gli altri, per tutti quelli che incontriamo, fonte e seme di un sorriso, di gentilezza, di attenzione e rispetto.

Specialmente di questi tempi. In questo nostro tempo in cui viviamo e di cui siamo co-creatori. Non è difficile, è più difficile odiare, fare dispetti, sostenere l’egoismo.
E’ semplice voler bene ed essere gentili, davvero. Si può imparare da un bosco, da un prato.
Si può imparare dalle singolarità ben disegnate con cui i bambini e le bambine vengono in questo mondo.

“Se doveste ancora sentire il banale luogo comune
secondo cui in natura vige la legge del più forte,
sappiate che si tratta di sciocchezze:
in natura, prendere decisioni condivise è la miglior garanzia
di risolvere correttamente problemi complessi.”
(Stefano Mancuso)

https://it.wikipedia.org/wiki/Selezione_dal_Reader%27s_Digest

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MY8E1P (1)A. von Humboldt, Distribuzione delle piante in America equanoziale secondo l’elevazione sopra il livello del mare, 1839, disegno e incisione di George Aikman

124. “e fu così che ci perdemmo / il sole sorse a ovest / abbaiarono i cavalli / i tassisti romani / offrirono un giro gratis / a tutti”

 

GUIDO CATALANO, Tutto sbagliato

E fu così che ci trovammo
nel posto sbagliato
al momento giusto
o forse
era il posto giusto
al momento sbagliato
con tutta probabilità
era tutto sbagliato
il posto
ed
il momento.

Erano sbagliati gli alberi e le strade
era sbagliato il cielo
ed il cemento
eri sbagliata tu
ero sbagliato io.

Sbagliammo il primo bacio
e l’ultimo
il primo appuntamento.
Il primo orgasmo fu sbagliato
e fu sbagliato il primo vaffanculo.
Fu sbagliato dirti t’amo
fu sbagliato dirti t’odio.

In realtà t’odio non te lo dissi mai
lo pensai
sbagliando.

Però sbagliò la luna ad esser piena quella notte
e a illuminarti il viso
sbagliarono i tuoi occhi ad esser belli in pianto
sbagliarono gli abbracci
quelli non dati
quelli dati
quelli non chiesti
quelli sperati.

E fu così che ci perdemmo
il sole sorse a ovest
abbaiarono i cavalli
i tassisti romani
offrirono un giro gratis
a tutti.

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Parelio
Parhelio

 

 

 

123. rappresentazioni e narrazioni: personalità in prestito, prendiamo in prestito anche i nostri desideri

Conosci te stesso.
Frontone del Tempio di Apollo a Delfi
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La Frusta Letteraria

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MA CHI CI CREDIAMO DI ESSERE? SUL BOVARISMO E DINTORNI
di Alfio Squillaci

Nel 1902 esce in Francia per i tipi del “Mercure de France” un singolare libro di un filosofo, Jules de Gaultier, intitolato “Il bovarismo”. Sulla scorta del celebre romanzo di Flaubert de Gaultier vi tenta uno studio sugli aspetti psichici delle personalità (è il momento giusto: due anni prima, allo scoccare del secolo, era uscito “L’interpretazione dei sogni” di Freud ) e rintraccia in questo testo una “loi phénoménale” dell’Io che sintetizza nella formula del bovarismo, ossia «la facoltà concessa all’uomo di concepirsi diverso da ciò che è» (le «pouvoir départi à l’homme de se concevoir autre qu’il n’est»).

Jules de Gaultier dice che vi sono uomini di prim’ordine che hanno se stessi come modelli e uomini di second’ordine che imitano gli altri, che prendono personalità in prestito. Sappiamo che Emma “corrotta” dalla lettura dei romanzi (che la suocera vorrebbe proibirle, in quanto «avvelenano l’anima») comincia a vedere ma soprattutto a “vedersi” attraverso la lente deformante di questa percezione di secondo grado che è la lettura. Non solo la propria aspirazione all’amore è educata attraverso le eroine dei suoi romanzi (dopo il primo amplesso con Rodolphe, ritornata a casa si dice «Sì, anch’io ho un amante», sottinteso «come nei romanzi») ma tutta la sua vita psichica è improntata e diremmo stravolta, visto come va a finire, non secondo “forme” sorgive, che nascono dall’interno della propria anima, ma per modelli secondari, presi in prestito.
Ciascuno di noi costruisce la rappresentazione di se stesso con modelli che, per quanto possano essere frutto di libera e spontanea elaborazione, in quanto “modelli” appunto, sono sempre presi in prestito. Spesso in questa emulazione di un modello «altro» che in effetti è sempre un modello «alto», ossia al di là della nostra portata, del nostro capitale intellettuale (come è il caso di Emma Bovary, che per questo fa fallimento) andiamo incontro alla nostra rovina. (Qualcuno, non molti anni fa – Tommaso Labranca – ha definito trash questo fallimento dell’emulazione di un modello alto, e ci ha fondato su una estetica compiaciuta).

Ora, continua de Gaultier, questo fallimento (défaillance) della personalità è spesso accompagnato presso i soggetti affetti da bovarismo (tutti noi ahimè) da impotenza, perché concependosi diversi da ciò che in effetti sono, e non essendolo intimamente, essi non giungono a eguagliare il modello che si sono posti, proposti e talora imposti, e tuttavia l’amor proprio proibisce loro di confessarsi questa impotenza. Questo vizio intimo del bovarismo li induce a supplire al talento con la postura, il gesto, il vocabolario. I personaggi e le situazioni che essi interpretano poggiano sul vuoto della propria personalità. L’effetto che sortisce da tutto ciò è il grottesco (che per Flaubert è triste ), il trash appunto.

L’indice bovaristico, secondo de Gaultier, misura pertanto «lo scarto che esiste in ogni individuo tra l’immaginario e il reale, tra ciò che egli è e ciò che crede di essere». De Gaultier tenta anche una tassonomia del bovarismo, che rintraccia nelle epoche storiche (durante la Rivoluzione si imita la Repubblica romana coi Cesari e i Bruti) come anche in tutti i personaggi di Flaubert, anche in quelli dell’”Educazione sentimentale” e delle opere successive: ma in effetti si tratta di un unico disturbo della personalità.

Le personalità in prestito

Abbiamo detto che il bovarismo è “un concepirsi diversi da quello che si è”. Questo stato psichico può generare una erronea valutazione di se stessi e l’adozione di una serie di atti che potrebbero portare o alla riuscita (si diventa effettivamente ciò che si è) oppure alla bancarotta dell’Io. Bisogna combinare questa intuizione di De Gaultier con il desiderio mimetico di René Girard. De Gaultier dice che il fallimento (défaillance) della personalità è spesso accompagnato presso i soggetti affetti da bovarismo da impotenza perché concependosi diversi da ciò che in effetti sono, e non essendo intimamente ciò a cui essi aspirano (il modello implicito), essi non giungono a eguagliare il modello “altro” (che è sempre un modello “alto”) che si sono proposti, e tuttavia l’amor proprio proibisce loro di confessarsi questa impotenza. Per sopperire allo scacco di questo fallimento giungono ad imitare tutto del personaggio cui intendono aderire (quanti orologi al polso stile Agnelli abbiamo visto, e quanti Kennedy replicanti nello scenario politico non solo americano! Ricordate il buffissimo “I care” di Walter Veltron che imitava don Milani che imitava Kennedy?

Analogamente ragiona René Girard (che conosceva e citava ovviamente De Gaultier): noi prendiamo in prestito i nostri desideri. Il nostro desiderio non è immediato, ma mediato. Lungi dall’essere autonomo, il nostro desiderio è sempre suscitato dal desiderio che un altro – il modello – ha dello stesso oggetto. Ciò significa che la relazione non è diretta, lineare, tra il soggetto e l’oggetto, ma triangolare. Tra il soggetto desiderante e l’oggetto desiderato si interpone il modello, il mediatore. Attraverso l’oggetto però è il modello, il mediatore che attrae. Attenzione a questo delicatissimo passaggio: è l’e s s e r e del modello che è l’oggetto vero del desiderio. Addirittura l’oggetto desiderato può sparire, ed ecco il desiderio diventare metafisico. «Il desiderio secondo l’altro è sempre desiderio di essere un altro». «Qualsiasi desiderio è desiderio di essere», di essere altro, è aspirazione, sogno di una pienezza attribuita al mediatore. Sciolgo i filosofemi di sopra con l’esempio facile facile della pubblicità di un’autovettura di lusso da cui scende un bell’uomo in compagnia di una bellissima donna. Secondo il modello del desiderio mimetico triangolare di Girard noi non vogliamo semplicemente avere q u e l l a macchina (sarebbe questo un desiderio lineare tra soggetto, noi che desideriamo, e l’oggetto, la macchina pubblicizzata), ma e s s e r e quell’uomo che guida o che scende dalla macchina (quell’uomo che la pubblicità ci fa intravedere come mediatore, come modello). Essere belli e fighi come lui, non certo volere la sua macchina! Per questa ragione, e contrariamente al bisogno, il desiderio è infinito e genera nel soggetto desiderante una costante tensione Da qui la dialettica delle personalità in prestito, da qui la recitazione e il teatro che si vede in giro. Voi lo sapete, lo avete visto: c’è chi è Manager e c’è chi fa il Manager, ma, accidenti, anche quello che è Manager sul serio fa il Manager (aderisce a un modello introiettato) . Da qui la domanda: ma ci è o ci fa? Ci è e ci fa assieme. La maschera è il volto, e il volto è la maschera.

Non avendo esatta cognizione del nostro capitale intellettuale – mai è suonata così urgente l’esortazione antica del “conosci te stesso” – affetti dal bovarismo, dal “concepirsi diversi da ciò che si è”, facile è, anche dopo attenta introspezione, non sapere esattamente chi si è. C’è un momento – quel momento in cui Hitler dopo il putsch di Monaco fa quasi una vita da clochard e talvolta dorme anche nelle panchine pubbliche – in cui nemmeno Hitler sa di essere Hitler. La falsa percezione di se stessi inizia fin dall’infanzia, quando ci sentiamo e ci vediamo talora indiani e talora cow boy.

Ma c’è anche un bovarismo del genio. Quello della falsa vocazione: Ingres il celebre pittore francese si ritenne per lungo tempo un grande violinista (da qui l’espressione francese “violon d’Ingres” per intendere i casi di fraintendimento su se stessi, sul proprio capitale intellettuale). È così difficile, anche per un grande artista, “diventare ciò che si è” che vediamo alcuni arrancare dietro se stessi e prendere false piste. Taluni si perdono, altri si ritrovano dopo lunghi percorsi. Se prendete le stesse opere di Flaubert sembrano scritte tutte da mani diverse. L’autore marmoreo dell’ “Educazione sentimentale” scrisse peraltro in gioventù un racconto in cui un personaggio è figlio di una negra e di un orangutan… Il grande Goethe per lungo tempo si ritenne ora scienziato naturalista (sua una teoria dei colori) ora un artista figurativo… Nietzsche scrive con molta sagacia a tal proposito che «senza le digressioni dell’errore, egli [Goethe] non sarebbe diventato Goethe: ossia l’unico artista tedesco dello scrivere, che oggi non sia ancora invecchiato – perché non volle essere per vocazione né scrittore né tedesco». (“Umano troppo umano”, II vol. §227).

Concludendo: siamo tutti mediati, mai siamo autentici e immediati, agiamo tutti secondo modelli, la nostra malattia è il bovarismo, molla, ad un tempo, per il cambiamento o il fallimento. Il povero Rousseau ci diventò matto – sul serio- inseguendo un uomo naturale immaginato al grado zero dei rapporti societari, autentico e irripetibile, che si sottrae alla corruzione dei romanzi, degli spettacoli, delle arti, in una parola, della civiltà. Nel “Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini” dice che gli uomini sono come la testa del dio Glauco sottomarino, piena di incrostazioni ( i romanzi, le arti, gli spettacoli), sfigurati e resi peggiori dalla civiltà.

Ma siamo mai esistiti senza incrostazioni? Solo in un ipotetico stato di natura, in una mera ipotesi della ragione, mai in uno stato reale. Appena usciti dalle caverne, siamo quello che siamo adesso: corrotti e civili.

 

 

Non imitare mai niente e nessuno.
Un leone che copia un leone diventa una scimmia.
Victor Hugo

https://it.wikipedia.org/wiki/Bovarismo

https://libreriamo.it/libri/cose-il-bovarismo/

http://www.treccani.it/vocabolario/bovarismo/

http://www.treccani.it/enciclopedia/bovarismo/

https://unaparolaalgiorno.it/significato/B/bovarismo

https://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=bovarismo

http://www.sapere.it/enciclopedia/bovarismo.html

 

CONOSCI TE STESSO 1
cavez conosci te stesso

gnoti

122. dopo l’orizzonte e dove finiscono le mappe

orizzonte (astronomia)
La linea apparente, a forma di cerchio o di arco di cerchio,
lungo la quale, in un luogo aperto e pianeggiante,
il cielo sembra toccare la terra o il mare,
tanto più ampia quanto maggiore
è l’altitudine del luogo dal quale si osserva.
(Treccani)

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Aspettami ed io tornerò
Konstantin M. Simonov

Aspettami ed io tornerò,
ma aspettami con tutte le tue forze.
Aspettami quando le gialle piogge
ti ispirano tristezza,
aspettami quando infuria la tormenta,
aspettami quando c’è caldo,
quando più non si aspettano gli altri,
obliando tutto ciò che accadde ieri.
Aspettami quando da luoghi lontani
non giungeranno mie lettere,
aspettami quando ne avranno abbastanza
tutti quelli che aspettano con te.

Aspettami ed io tornerò,
non augurare del bene
a tutti coloro che sanno a memoria
che è tempo di dimenticare.
Credano pure mio figlio e mia madre
che io non sono più,
gli amici si stanchino di aspettare
e, stretti intorno al fuoco,
bevano vino amaro
in memoria dell’anima mia…
Aspettami. E non t’affrettare
a bere insieme insieme a loro.

Aspettami ed io tornerò
ad onta di tutte le morti.
E colui che ormai non mi aspettava,
dica che ho avuto fortuna.
Chi non aspettò non può capire
come tu mi abbia salvato
in mezzo al fuoco
con la tua attesa.
Solo noi due conosceremo
come io sia sopravvissuto:
tu hai saputo aspettare semplicemente
come nessun altro.   

 

L’incidente è chiuso
Vladimir Majakovskij

E’ già l’una passata.
A quest’ora tu sarai a letto.
Come un fiume d’argento
traversa la notte
la Via Lattea.
Io non ho fretta
e non ti voglio svegliare
con speciali messaggi.
Come si dice
l’incidente è chiuso.
Il battello dell’amore
s’è infranto contro la vita circostante.
Tu ed io
siamo pari.
Non vale la pena di citare
le offese
i dolori
e i torti reciproci.
Guarda com’è pacifico il mondo.
La notte ha imposto al cielo
un tributo stellato.
E’ in ore come questa
che si sorge
e si parla
ai secoli,
alla storia,
alla creazione.

http://www.treccani.it/vocabolari/o/mappa/

https://it.wikipedia.org/wiki/Mappa

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121. la principessa sul pisello e altri equilibrismi

Non è tra le mie preferite, anzi è tra quelle che più mi lasciano perplessa e la  principessa mi sembrava proprio antipatica, e con lei tutti i personaggi della fiaba. Da sempre appassionata lettrice-studiosa di fiabe, ben altre mi  avevano preso il cuore: La bella e la bestia, Pelle d’Asino e Il gatto con gli stivali per anni furono nei primi posti nella classifica delle mie preferenze.
Allora perché ultimamente questa fiaba bussa alla mia attenzione? Percorrere i sentieri di ciò che non ci piace è anch’essa un’ottima attività per conoscere se stessi e il mondo.

Ecco qua, dunque, La principessa sul pisello.
La principessa sul pisello (titolo originale: La prova del pisello) è una delle fiabe scritte da Hans Christian Andersen. Fu composta nel 1835 e fa parte del primo volume di opere pubblicate dal famoso autore, il quale dichiarò di averla sentita raccontare quando era bambino, sebbene non sembrano esserci tracce nella tradizione orale danese prima della pubblicazione di Andersen. Esiste una fiaba svedese dal titolo La principessa che si distese su sette piselli, testo dove  la principessa non sente il  fastidio per sua capacità, ma grazie all’aiuto di un piccolo aiutante animale. Sembra invece che la fiaba di Andersen sia nata in seguito a un litigio con una sua amica: molti dei suoi racconti si ispirano infatti a episodi della sua vita, punti di partenza per storie di fantasia dalla forte carica innovativa, anche dal punto di vista linguistico.

Ecco il testo della fiaba, in una delle tante traduzioni trovate in rete (non ho più il libro dove la lessi da piccola, e non ricordo chi me la raccontò, se mi fu raccontata):
C’era una volta un principe che voleva sposare una principessa, ma doveva trattarsi di una principessa vera! Perciò si mise a viaggiare in lungo e in largo per il mondo, ma ogni volta non riusciva a decidersi: principesse ce n’erano un po’ dappertutto, ma erano principesse vere? Non si riusciva mai a saperlo con sicurezza: ogni volta sembrava mancare qualche cosa. Alla fine decise di tornare a casa sua, ma era pieno di tristezza per non essere riuscito a trovare una principessa vera.
Una notte che c’era un tempo orribile, con fulmini, tuoni, e acqua a catinelle, qualcuno bussò alle porte della città, e il vecchio re andò ad aprire.
Fuori dalle mura c’era una principessa: Dio mio, la pioggia e il brutto tempo l’avevano conciata proprio bene! L’acqua le picchiava sui capelli e sui vestiti, entrava nelle scarpe dalle punte e ne usciva dai tacchi: eppure lei sosteneva di essere una vera principessa.
“Questo si vedrà,” pensò la vecchia regina, ma non disse nulla: andò in camera, tolse il materasso dal letto e mise sul fondo un pisello; poi prese venti materassi e li mise sul pisello, e sopra i materassi mise ancora venti grossi cuscini di piume.
Quella sera la principessa dormì lì.
La mattina dopo le chiesero come aveva dormito.
“Malissimo!” si lamentò la fanciulla, “non ho praticamente chiuso occhio per tutta la notte! Chissà cosa c’era in quel letto! Ero coricata su qualcosa di duro e mi sono fatta un enorme livido blu e marrone. È stato terribile!”
Così capirono che era una principessa vera, perché aveva sentito il pisello attraverso venti materassi e venti grossi cuscini di piume. Solo una principessa poteva avere una pelle così sensibile!
Così il principe la prese in sposa, convinto finalmente di avere incontrato una vera principessa, e il pisello andò a finire in un museo, dove, se nessuno è venuto a rubarlo, lo si può vedere ancora.
E questa è una storia vera, sapete?

1.
L’atmosfera della fiaba è tra le più rarefatte che io conosca.
Le fiabe hanno atmosfere  rarefatte, irreali per loro stessa definizione. Ma in questa è notevole l’assenza di dettagli che ci permetterebbero di crearci immagini mentali personali.
Il principe è “un” principe: alto? basso? bello? brutto? capace? incapace? un essere umano etico? come vestiva? cosa faceva? Sul piano psichico potremmo già dire, anche senza dettagli, che il principe è  l’archetipo del maschile che deve maturare, ecc ecc., ma non è questo il piano di cui vorrei parlare qui.
Questo “un principe” vuole sposare “una” “principessa” “vera”. Vera? OK, ma la fiaba non ci dice ancora come sia una principessa “vera”, lo diamo noi per scontato secondo le nostre conoscenze, interpretazioni, convinzioni, così come abbiamo già fatto con il principe: abbiamo collocato entrambi dentro caselle nostre preesistenti; principe e principessa sono elementi nostri; attenzione, non creazioni nuove della nostra immaginazione sollecitata dalla lettura o dall’ascolto della fiaba ma ricollocazioni funzionali di elementi già esistenti.
Il “un principe”, per trovare la “una principessa vera” si mette a “girare per il mondo”. Mi attengo alla traduzione scelta, e lascio perdere il ‘girare’, ma accetto che “per il mondo”  sia una buona traduzione, e sottolineo di nuovo la generalità dell’espressione: tutto il mondo? quale mondo?
E poi: “principesse ce n’erano un po’ dappertutto”, così, sparse nel mondo come niente fosse? ma il principe “non riusciva mai a sapere” se erano principesse vere. Così se ne ritorna a casa e si rattrista.
Dunque: linguaggio generalizzato, assenza di dettagli, personaggi non definiti. Noi non stiamo immaginando, stiamo inoltrandoci in una fitta nebbia per diradare la quale riutilizziamo nostre immagini da situazioni note, e abbiamo anche la sensazione che il narratore sia d’accordo con noi e noi con lui. Un po’ ci piace, diciamolo, questo “un principe”, questa “una principessa”, questo “per il mondo” e “dovunque” …

2.
“Una” notte che c’era il finimondo di pioggia fulmini e tuoni “qualcuno” bussa alla porta e chi va ad aprire??? Il re!!! Il re in persona! “il” re.
Sì, lo so, l’interpretazione psicanalitica – che io adoro per le fiabe- sarebbe la migliore da proporre e la finiremmo lì, l’archetipo del re, ecc. ecc. ma io voglio dire qualcos’altro.
Allora, è il re che vede per primo una fanciulla ridotta male dalla pioggia e che afferma essere una principessa. Abbiamo un dettaglio: la principessa ha le scarpe con i tacchi, va bene, è femmina. Bene? E se il principe aveva girato il mondo in lungo e  in largo, questa principessa da dove viene? Non lo sapremo mai. Noi intanto ci siamo già fidati delle parole di lei e, se non fosse per la regina, la finiremmo lì. Le faremmo conoscere il principe, tanto ci sembra di aver già capito la trama e, visto che siamo ancora nelle prime righe della favola, immaginiamo che il seguito tratterà della vita successiva al matrimonio che i due contrarranno tra poche altre parole del testo.
Invece no!
La regina non si fida e di nascosto va nella camera dove ha deciso farà dormire la presunta, mette un pisello sul letto, e sopra il pisello venti materassi e sopra altri venti piumini. E buonanotte cara “una principessa”, vediamo un po’ se sei una principessa “vera”! Dico: venti materassi e venti piumini, mica spiccioli; nemmeno le più alte torri del Signore degli anelli ci hanno impressionato come questa morbida pila di morbidezze di cui ci chiediamo – noi che rifacciamo i letti-  come possano stare insieme ferme per  una notte intera, tanto più che c’è un possente pisello sotto e pronto a manomettere il possibile perfetto livellamento delle stesse.
E, al mattino, infatti, la povera “una”principessa lamenta di aver dormito malissimo, su qualcosa di molto duro, tanto che ha un livido blu e marrone. Colori! Ecco i colori, ecco qualche dettaglio: ah, lo abbiamo visto bene quel livido, potenza della scrittura! solo il livido, chiaramente, non dove sia posizionato, mica ci si può avventurare sul corpo delle principesse come nulla fosse!
E lei è una vera principessa, solo principesse vere hanno una “pelle così sensibile” e delicata.
Beh, certo, anche un’interpretazione in chiave femminile non sarebbe male, ché poi una lettura in chiave femminile necessita sempre di un apparato-sostrato psichico, ma lasciamo perdere.
Appurata la verità, principe e.principessa si sposano, come in ogni fiaba che si rispetti.
Dunque: verità e menzogna giocano in questo tratto della fiaba, insieme a inganno e un po’ di maleducazione.
La principessa dice la verità ma non è creduta, la regina soprattutto pensa che la ragazza stia dicendo una menzogna. Ecco allora l’inganno della regina per svelare la verità, ed ecco la verità della principessa che è un lamento per la notte passata in bianco e che diventa un bell’atto di maleducazione verso gli ospiti. C’è un gioco di rimandi, di specchi, di sotterfugi su cui sembra avere ancor più eco l’affermazione mattutina della principessa. La quale, ricordiamo, è l’unico personaggio che viene descritto con qualche dettaglio e che dice sempre la verità, pur presentandosi poco principescamente: smarrita? forse. bagnata? certo. dove andava? da dove veniva? ma dice la verità, lei.
Nessun gesto di questo tratto della fiaba è lineare, i personaggi agiscono comportamenti opposti tra loro, etici e non etici, a seconda della personale convenienza.

3.
Alla fine della fiaba, Andersen ci dice che il pisello è conservato in un museo, sempre che qualcuno non l’abbia rubato, cioè se qualcuno non ha agito comportamenti della stessa area della menzogna, dell’inganno, della maleducazione.
E ci dice che è una storia vera.
Dunque: è molto probabile che lo sia, una storia vera. L’ammiccamento dell’autore, anche riguardo al pisello conservato in un museo se nessun l’ha rubato, continua il gioco di specchi, rimandi, inganni verità. Sì, probabilmente è una storia vera, diciamo noi con lui.
Sicuramente è attuale. Ci sono, in questa fiaba, tutti gli elementi di certa politica attuale, ed è per questo che è un po’ di tempo che mi è ritornata alla mente, rivelandosi una bella cartina di tornasole per il linguaggio di certa politica attuale, per i comportamenti di certa politica attuale.
Linguaggio colmo di generalizzazioni, cancellazioni, negazioni, cioè un linguaggio confusivo, ipnotico, che non aiuta a comprendere la realtà che è fatta di dettagli, ma può infiammare gli animi di chi ascolta, se poi è usato per parlare di argomenti del piano valoriale .
Comportamenti ambigui di tutti: dal re che va ad aprire la porta come fosse un maggiordomo alla regina che traffica di nascosto, alla principessa che, come ogni verità, si presenta malconcia e per farsi riconoscere si comporta più o meno come una villana, al principe a cui sembra mancare ogni personale idealità. Non si tratta nemmeno di inversione di ruoli, di istituzioni che vanno al livello delle persone comuni per avvicinarsi e parlare insieme, si tratta invece di atteggiamenti che ci risultano strani proprio per l’assenza di un contesto, e di un conteso di senso: il re va ad aprire la porta, perché? non c’è una servitù in questo palazzo? né si parla di un regno …
Niente sembra essere al suo posto, in questa fiaba, come certa politica attuale.
Politica di equilibrismi attuati anche di nascosto, anche smarrendo la propria dimensione personale, affinché ognuno faccia per il proprio interesse, escludendo il bene comune che deriva da un confronto sano schietto maturo. Un politica di parole altisonanti, colme di per sé di alti significati, ma svuotate dalla de- e ri- contestualizzazione che se ne fa.
La verità è malconcia, se ne è smarrita anche l’origine, che è etica, e arriva come se si fosse persa in questo mondo confuso, e se parla le sue parole hanno un sapore di maleducazione: le sue parole e non i gesti confusi e falsi di questa certa politica attuale.
“Certa”, che può significare anche sicura e affidabile, ma che qui invece significa “con valore indefinito, sempre anteposto al nome, indica una quantità precisa ma non descritta ( c. giorni, contrapposto a tutti i giorni ; iron. o spreg. : c. discorsi, c. gente, contrapposti per volgarità o stranezza, ai discorsi e alle persone normali), oppure un grado intermedio di sviluppo, contrapposto a molto (ha un c. ingegno; dopo un c. tempo) o anche voluta o generica indeterminatezza (sono stato con c. amici; ha quel c. non so che)”.

Come una carta geografica, che interpreta, e non dice “la” “verità”; come le continue interpretazioni che opacizzano e generalizzano ciò che invece, con maggiore e più etico impegno, potrebbe essere conosciuto nei dettagli, nella sua unicità, almeno in parte.
Come chi non riesce o non è riuscito ad amarci, e ci generalizza, ci cancella, ci nega, ci confonde con altri. E nasconde la nostra biografia dietro narrazioni prive dei nostri dettagli, delle nostre esperienze, dei nostri sogni, di ciò che ci rende quello che siamo e per cui dovremmo essere amati; ci tende tranelli, scompare dietro “certe” insondabili verità tutte e solo sue, ci offre morbidezze ma per ingannarci.
E noi, nonostante la pioggia ci abbia ridotto proprio male, noi (uomini e donne, in questo caso non faccio differenza di genere) siamo davvero le principesse quando ci capita di incontrare persone che ci ingannano e ci cancellano, anche se ai narratori generalizzanti non interessa sapere da dove veniamo e dove andiamo e perché siamo lì a bussare a quella porta. E, davvero, saremo proprio noi a raccontare più dettagli possibili di ogni biografia, di ogni fiaba. Perché le vite vanno conosciute, non giudicate e disprezzate. E, se possibile, amate.
Senza “certi”equilibrismi ingannevoli così tanto di moda.

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119. appollaiata su un ramo di parole, guardo il silenzio e ascolto il profumo del tiglio

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infografica di Minna Summer, L’albero delle lingue

Minna Summer, artista svedese nata nel 1990. Il suo primo fumetto web fu “A Redtail’s Dream”, nel 2015 uscì “Stand Still. Stay Silent”, il suo fumetto online di maggior successo. 

Con “L’albero delle Lingue” illustra il legame tra le lingue indoeuropee ancora vive e attualmente parlate (infatti non c’è il latino nel ramo indoeuropeo, per esempio) e mostra allo stesso tempo l’origine comune delle lingue e la loro diversificazione nel corso dei secoli.

Con questa immagine viene mostrata l’ipotesi di una lingua originaria da cui tutte poi sono discese. L’autrice specifica che molte lingue minori e molti dialetti non sono rappresentati. Inoltre, con questa mappa ha voluto spiegare come alcuni dei personaggi del suo “Stand Still. Stay Silent” sono in grado di capirsi a vicenda nonostante parlino lingue diverse.
(fonte web)

118. “da questa luce possiamo solo imparare […] per quanto puoi resta a bottega dal mondo”: “sii gentile. sempre.”

Ogni persona che incontri 
sta combattendo una battaglia
di cui non sai niente. 
Sii gentile. Sempre.
fiori-ed-erba-della-primavera-110452021
Be kind, for everyone you meet is fighting a hard battle.
Be pitiful, for every man is fighting a hard battle. 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          Federico Zucchi,  Compiti per l’estate

Per quanto puoi resta a contemplare
gli scatti d’anzianità del sole
sul bagnasciuga sassoso
di una baia in disuso,
resta accanto all’origano selvatico
alle contorsioni dell’ulivo centenario,
resta sparso sulla linea della vela
che ricuce senza sangue
la ferita
che ti ha messo al mondo.

Da questa luce possiamo solo imparare
la pazienza dei chicchi d’uva, l’alterigia
delle nuvole rare, la barba da hipster
delle capre sui costoni, la semplicità
delle onde nel comporre ballate originali
con le stesse povere sillabe, il lascito
del sale sulla pelle e lo strascico
del tempo sulle gote
di conchiglia.

Per quanto puoi resta
a bottega dal mondo,
diventa inserviente
della sera che si allunga
sulla criniera del mare
e impererai un mestiere,
l’arte di sentirti parte
di una sola argilla.

 

«E’ molto importante ciò che semplicemente il giorno ci dà, ogni singola cosa che si realizza durante il giorno. La persona, l’osservazione che ha fatto, l’odore dell’aria in quel momento. E queste cose hanno bisogno di accettazione, di ricognizione, di riconoscimento… Adesso non ho ancora la parola giusta. Ma trovare le parole è magnifico. Trovare la parola giusta è così importante. Le parole sono come cuscini: quando sono disposte nel modo giusto alleviano il dolore».

Hillmann, nell’ultima intervista pochi giorni prima della sua morte.
(La Stampa- S. Ronckey)

la-vita-connessione-tra-uomo-natura-e-universo

Praticate gentilezza a casaccio
e atti di bellezza privi di senso.

Anne Herbert

116. “- Perché io? – disse – Tutti gli uomini mi rispondono così. E tutti gli uomini hanno […] una loro incapacità che li lega agli altri uomini. […] Ma […] “

Buon a nulla, in ITALO CALVINO, Prima che tu dica “Pronto”, Mondadori 1993, pp. 37-43

Il sole entrava nella via di sbieco, già alto, illuminandola disordinatamente, ritagliando le ombre dei tetti sui muri delle case di fronte, accendendo di barbagli le vetrine agghindate, battendo, sbucato da insospettati spiragli, sul volto de passanti frettolosi, che si scansavano su marciapiedi affollati.
Vidi per la prima volta l’uomo dagli occhi chiari a un crocicchio, fermo o in marcia, non ricordo bene: certo che la sua figura mi si faceva sempre più vicina, o che io andassi incontro a lui, o viceversa.
Vidi per la prima volta l’uomo dagli occhi chiari a un crocicchio, fermo o in marcia, non ricordo bene: certo che la sua figura mi si faceva sempre più vicina, o che io andassi incontro a lui, o viceversa. Era alto e magro, vestito d’un impermeabile chiaro, con paracqua ben chiuso, e striminzito appeso al braccio. Aveva in testa un feltro, chiaro anch’esso, dalla tesa larga e tonda; e, subito sotto, gli occhi grandi, freddi, liquidi, con un movimento strano agli angoli. Non si capiva che età avesse, tutto raso e magro. Teneva in una mano un libro, chiuso con un dito dentro, come per tenere il segno.
Subito, mi parve di sentire il suo sguardo posato su di me, uno sguardo immobile che che mi comprendeva dalla testa ai piedi e non mi risparmiava neppure dietro e dentro. Voltai gli occhi altrove di botto, ma, andando, a ogni poco mi veniva da lanciargli contro delle sbirciate rapide, e ogni volta me lo rivedevo più vicino, a guardarmi. Finii per trovarmelo davanti fermo, con la bocca quasi senza labbra che stava per inclinarsi in un sorriso. L’uomo tirò fuori di tasca un dito, lentamente, e con esso indicò in terra, ai miei piedi; fu allora che parlò con una voce un po’ umile, magra.
– Scusi – disse – ha una scarpa slegata.
Era vero. I due capi della stringa mi pendavano ai lati di una scarpa trascinati e pesti. Arrossii leggermente, bofonchiai un – grazie -, mi chinai.
Fermarsi per la strada a legarsi una scarpa è seccante: specie fermarcisi come mi ci fermai io, in mezzo al marciapiede, senza posare il piede su un rialzo, inginocchiato in terra, con la gente che mi inciampava contro. L’uomo dagli occhi chiari, fatto un vago gesto di saluto, se n’era subito andato.
Ma era destino che lo riincontrassi: non era passato un quarto d’ora che me lo rividi davanti, fermo a guardare una vetrina. E allora mi prese una smania incomprensibile di voltarmi e di tornare indietro, o meglio di passare lesto lesto, adesso che lui stava attento alla vetrina, perché non se ne accorgesse. No: era già troppo tardi, lo sconosciuto s’era voltato , m’aveva visto, mi guardava, voleva dirmi ancora qualche cosa. Mi fermai davanti a lui, con paura. Lo sconosciuto aveva un tono ancora più umile.
– Guardi – disse – è ancora slegata.
Io avrei voluto scomparire in una nuvola. No risposi nulla, mi chinai ad annodare la stringa con rabbiosa diligenza. Mi fischiavano le orecchie e mi sembrava che le persone che passavano intorno a me scansandomi fossero tutte le stesse che già mi avevano scansato la prima volta e già m’avessero notato, e tra di loro mormorassero ironici commenti.
Ora però la scarpa era legata stretta e bene, e io camminavo leggero e sicuro. Anzi, adesso speravo, con una sorta di inconscio orgoglio, d’imbattermi ancora nello sconosciuto, quasi a riabilitarmi.
Purtuttavia, appena, fatto il giro lungo della piazza, mi ritrovai a pochi passi da lui, sullo stesso marciapiede, l’orgoglio cessò d’urgermi dentro, d’improvviso, e subentrò lo sgomento. Infatti lo sconosciuto aveva in volto una espressione rincresciuta, guardandomi, e mi s’avvicinava scuotendo leggermente il capo, con l’aria di chi si duole di qualche fatto naturale superiore alla volontà degli uomini.
Mettendo avanti i passi, io mi sbirciavo la scarpa incriminata, con apprensione; era sempre annodata, come prima.Pure, con mio sgomento, lo sconosciuto continuò a scuotere il capo per un po’, poi disse:
– Adesso s’è slegata l’altra.
Ora io avevo quel desiderio che viene nei brutti sogni, di cancellare tutto, di svegliarmi. Ostentai una smorfia di rivolta, addentandomi un labbro come in un’imprecazione repressa e ripigliai a cincischiare freneticamente i legacci, curvo in mezzo alla via. M’alzai con le fiamme sotto gli occhi e camminai via a testa bassa, di nient’altro desideroso che di sottrarmi agli sguardi della gente.
Ma il tormento non era ancora finito, quel giorno: mentre arrancavo per la via di casa, con fretta, sentivo che le volute del fiocco, piano piano scivolavano una sull’altra, che il nodo si andava allentando sempre più, che i legacci, a poco a poco, mi si svolgevano. Dapprima rallentai il passo, quasi un po’ di cautela bastasse a sostenere il malcerto equilibrio di quel garbuglio. Ma casa mia era ancora lontana e già i capi della stringa si trascinavano sul selciato, in corti svolazzi. allora la mia andatura fu affannosa, da fuga, sotto l’incalzare d’un terrore folle: il terrore di incontrarmi ancora con l’inesorabile sguardo di quell’uomo.
Era quella una città piccola, raccolta, tutta andirivieni; a girarla, in mezz’ora si rincontravano tre quattro volte le stesse facce. Ora io marciavo in essa con andatura d’incubo, combattuto tra la vergogna di mostrarmi ancora in via con una scarpa slegata, e la vergogna di farmi vedere ancora chino a legarla. Gli sguardi della gente mi sembravano affoltirsi intorno a me, come rami di un bosco. Mi tuffai nel primo portone che incontrai, a rifugiarmi.
ma in fondo all’andito, nella mezzaluce, in piedi, con le mani appoggiate al gancio dell’ombrello striminzito, era fermo l’uomo dagli occhi chiari, e pareva m’aspettasse.
Io ebbi prima uno sbocco di stupore, poi azzardai qualcosa come un sorriso, e m’indicai la scarpa slegata, a prevenirlo.
Lo sconosciuto assentì con quell’aria di mesta comprensione che aveva.
– Già – disse – sono slegate tutt’e due.
Nel portone se non altro c’era più calma, per legarsi le scarpe, e più comodità, poggiando un piede su un gradino. Anche se dietro, alto, in piedi avevo l’uomo dagli occhi chiari che mi osservava e non perdeva una mossa delle mie dita e sentivo il suo sguardo in mezzo ad esse, ad imbrogliarmi. Ma dai e dai ormai io non pativo più nulla; fischiettavo anzi, ripetendo per l’ennesima volta quei nodi maledetti, ma proprio per bene questa volta, da disinvolto che ero.
Sarebbe bastato che quell’uomo fosse stato zitto, non avesse cominciato, prima a tossicchiare, un po’ incerto, poi a dire, tutto in una volta, deciso:
– Scusi, lei le scarpe non ancora imparato a legarsele.
Voltai la faccia arrossita verso di lui, restai curvo. Mi passai la lingua tra le labbra.
– Sa – dissi – io per i nodi sono proprio negato. Non mi crederebbe. Da bambino non ho mai voluto mettermi lì a imparare. Le scarpe me le levo e me le metto senza slegarle, col corno cavastivali. Per i nodi sono negato, mi ci imbroglio. Non si crederebbe.
Allora lo sconosciuto disse una cosa strana, l’ultima cosa che ci sarebbe aspettati potesse voler dire.
– Allora – disse –  ai suoi figli, se ne avrà, come farà a insegnare a legar e scarpe?
Ma il più strano fu che io ci riflettei su un momento e poi risposi, quasi già mi fossi proposta altra volta tra me e me la questione e l’avessi risolta e tenessi in serbo la risposta, come aspettando che prima o poi qualcuno mi rivolgesse quella domanda.
– I miei figli – dissi – vedranno dagli altri com’è che ci si lega le scarpe.
Lo sconosciuto replicò, sempre più assurdo:
– E se per esempio venisse il diluvio universale e tutta l’umanità perisse e lei fosse il prescelto, lei e i suoi figli, a continuare l’umanità. Come farebbe, ha mai pensato? Come farebbe a insegnar loro i nodi? Perché se no, dopo, chissà quanti secoli dovrebbe passare l’umanità, prima di riuscire a fare un nodo, a riinventarlo!
Io non raccapezzavo più niente, né del nodo, né del discorso.
– Ma – provai a obbiettare – perché dovrei essere proprio io il prescelto, come dice lei, proprio io che non so nemmeno fare un nodo?
L’uomo dagli occhi chiari era contro luce sulla soglia del portone: c’era nella sua espressione qualcosa di terribilmente angelico.
– Perché io?  – disse – Tutti gli uomini mi rispondono così. E tutti gli uomini hanno un loro nodo alla scarpa, una loro cosa che non sanno fare; una loro incapacità che li lega agli altri uomini. La società si regge ormai su questa asimmetria degli uomini: è un incastro di pieni e di vuoti. Ma il diluvio? Se venisse il diluvio e si cercasse un Noè? Non tanto un uomo giusto quanto un uomo che fosse capace di portare in salvo quelle poche cose, tutto quello che basta per ricominciare. Vede, lei non sa legarsi le scarpe, un altro non sa piallare il legno, un altro ancora non ha letto Tolstoi, un altro non sa seminare il grano e così via. Da anni lo sto cercando e, mi creda, è difficile, terribilmente difficile, l’umanità pare debba tenersi per mano come quel cieco e quello zoppo che non possono andare separati, eppure litigano. Vuol dire che se verrà il diluvio moriremo tutti insieme.
Così dicendo si voltò e scomparve nella via. Non l’ho più visto e ancora oggi mi domando se era uno strano maniaco oppure un angelo, che gira da anni invano in mezzo agli uomini, alla ricerca di un Noè.

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115. indice di sviluppo umano

https://it.wikipedia.org/wiki/Indice_di_sviluppo_umano

https://it.wikipedia.org/wiki/Stati_per_indice_di_sviluppo_umano

carta_isu_webindice di sviluppo umano: dati 2007, pubblicato 2009

 

 

1280px-2016_UN_Human_Development_Report.svgsviluppo umano per valori: dati 2015, report 2016, pubblicato 2017

 

 

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sviluppo umano per quartili: dati 2015, report 2016, pubblicato 2017

 

… il mondo è nelle nostre mani …  mondo mani

la terra è nelle nostre mani
mondo verde mani

chissà
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ascoltare ascoltare ascoltare
dialogare

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“Gramática parda”, “grammatica marrone, scura, oscura” è l’espressione che Henri David Thoreau usa nel suo libro “Camminare”, per indicare la lingua della natura: è un grande dono crescere con questa grammatica dei boschi, dei prati, conoscendo l’ordine armonioso della natura. Tutto e’ dialogo costante, incessante, modulante, ispiratore dei passi successivi.

 

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https://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_di_Qade%C5%A1

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trattato di Qadeš, 1259 a. C.

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Codice_di_Hammurabi

Codice_di_hammurabi_01codice di Hammurabi, 1792-1750 a.C.

 

 

114. poesia è profezia: Camillo Sbarbaro, 1914; l’alienazione=estraneità a tutto, l’io=una cosa, il mondo=un deserto, rassegnazione a tutto questo

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Camillo Sbarbaro, Taci, anima stanca di godere, in Pianissimo, La voce, Firenze 1914

Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro
vai rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata.
Noi non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato…
Invece camminiamo.
camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduta ha la sua voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.

https://it.wikipedia.org/wiki/Camillo_Sbarbaro

 

“[…] e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
[…]”
quindi, “quel che è” “diventa” attraverso e nelle relazioni, attraverso e nella gioia nel dolore nella paura nella meraviglia, ecc …?
… noi e il mondo diventiamo nell’incontro, attraverso la nostra esperienza e le nostre emozioni …
cos’è il “quel che è” di cui parla il poeta?  … il “quel che è” che rimane distante, senza relazione, senza interpretazione nel momento in cui l’alienazione opacizza tutte le cose …? è quella che chiamiamo “realtà oggettiva”, l’inconoscibile, secondo alcuni, realtà oggettiva? è ciò che esiste senza “risonanza”? ed esiste qualcosa che non entri in risonanza? è ciò che non ha alterità? è il Punto di Flatlandia? cos’è quel “soltanto quel che è” di cui parla il poeta che, con il termine “soltanto”, relega “quel che è” in una solitudine, in una finitudine senza scampo? non è il “quel che è” che possiamo vedere-ascoltare-esperire quando entriamo nell’incanto dell'”è” e siamo capaci di osservarlo e farne esperienza per ciò che è; e non è esistere. “Quel che è” sembra avere una fissità, una resa, un senza scampo, una diminuzione. Non ha più incontro. E’ un “è” che non diventa, è un “divenire” che non è.

 

TempiModerni

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mappamondo quadrato

 

 

113. giugno e la cicoria comune: “il mondo offre se stesso alla tua immaginazione, ti chiama […] più e più volte annunciando il tuo posto nella famiglia delle cose.” (Mary Oliver)

Ed eccolo giugno. Che colora i campi col rosso vivace dei papaveri e con tutte le sfumature del viola, dal più intenso del lupino al più delicato lilla dei fiori della cicoria comune. Lei, soprattutto, la cicoria comune, con i suoi fiori allegri che s’aprono al mattino per chiudersi poi nel pomeriggio, lei soprattutto mi dice che è giugno: lei, la voce più discreta nella sinfonia che è questo mese d’incanto.
Quando ero piccola no, erano i papaveri e i fiordalisi che dicevano è giugno, e che stava finendo la scuola. E le spighe di grano. Un trittico molto disegnato nei quaderni di fine scuola delle elementari, una rappresentazione che si era radicata come racconto autorizzato per dire dell’estate.
Poi no, la passione per le erbe selvatiche -quelle che la mia nonna materna conosceva bene e tra cui  raccoglieva le giuste per delle gustose insalate in ogni stagione- allargò il racconto, lo approfondì e così, di passeggiata in passeggiata tra i campi e tra i libri sull’argomento, arrivò la cicoria comune  a raccontarmi di giugno. Cresce dovunque spontaneamente ed è pure coltivata, i suoi fiorellini sembrano dire  questa sua disponibilità a vivere dovunque e, nel loro chiudersi pomeridiano, sembrano sottolineare l’importanza della discrezione, dell’intimità, del farsi da parte, della diversità delle ore e di ogni cosa.
La vedo al mattino presto -lungo i bordi delle strade, nei prati, ai margini e al centro- occhieggiare al sole; la sera, quando ripasso nello stesso luogo, vedo il suo piccolo fusto a zig-zag e le sue foglie, i fiori chiusi che sembrano invitarmi alla notte alla riflessione alla misura.
Dopo maggio che apre la sinfonia dei fiori con ogni bianco possibile e immaginabile -dalle infiorescenze del sambuco e del castagno ai più diversi fiorellini dei prati- per introdurre poi il giallo delle ginestre con cui lascia il passo a giugno, ecco arriva giugno che si colora di tutti i colori, che accoglie decine di canti di uccelli a ogni ora, che la notte incanta con lo stridulio dei grilli e il giorno tiene compagnia con il frinire delle cicale.
Una molteplicità annunciata dai giorni verdi della primavera, dal tepore che diventa caldo, dal corpo che sembra conoscere se stesso in modo nuovo -ogni anno, ogni giugno-, annunciata e realizzata dai suoni dai silenzi dalle luci dai colori: una molteplicità fisica che è la massima espressione saggia del carpe diem e di ciò che i greci chiamavano eros. Una molteplicità che ridefinisce limiti e possibilità, limen e limes, confini interiori ed esteriori di cui parlare con Ermes -il dio viandante dal cappello e dai calzari alati- all’ombra dei pomeriggi assolati; resurrezioni e rinascite di cui sussurrare con ogni divinità nelle notti calde e ammalianti.
E’ giugno.
E noi, care amiche che, dall’adolescenza in poi, non abbiamo mai smesso di regalarci, a ogni occasione in ogni stagione in ogni giorno comune, poesie e bustine di semi; noi, care amiche che sussurriamo incantate al ritorno delle lucciole; che ci ritroviamo sedute intorno alla sorgente dove abbiamo trascorso tanto tempo ad ascoltare lo scorrere dell’acqua appena diventata ruscello; noi che sappiamo che tutto ciò che ci serve per mangiare per la salute per la vita è già qui proprio intorno a noi, a portata di mano e di consapevolezza; noi ringraziamo sedute in silenzio in mezzo a questo prato in cima alla “nostra” collinetta da cui ogni volta, in ogni stagione, guardiamo il mondo intorno, l’orizzonte aperto in tutte le direzioni e la nostra stessa vita.
E’ giugno di nuovo, e noi siamo qui, al nostro posto dentro la famiglia delle cose.

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Non devi essere buono.
Non devi camminare sulle ginocchia
Per centinaia di miglia nel deserto, per espiare.
Devi solo lasciare che il delicato animale del tuo corpo
ami ciò che ama.
Parlami della disperazione, la tua, e io ti parlerò della mia.
Intanto il mondo va avanti.
Intanto il sole e le luminose perle di pioggia
Si stanno spostando attraverso il paesaggio,
sopra le praterie e gli alberi profondi,
le montagne e i fiumi.
Intanto le oche selvatiche, alte nella pulita aria blu,
di nuovo si stanno dirigendo verso casa.
Chiunque tu sia, non importa quanto solo ti senta,
il mondo si offre alla tua immaginazione,
ti chiama come le oche selvatiche, stridenti ed eccitanti –
annunciando ripetutamente il tuo posto
nella famiglia delle cose.
Mary Oliver, Oche selvatiche

 

Dichiara pace con il tuo respiro.
Inspira uomini d’arme e d’attrito, espira edifici interi e stormi di merli dalle ali rosse.
Inspira terroristi ed espira bambini che dormono e campi appena falciati.
Inspira confusione ed espira alberi di acero.
Inspira quanto è caduto ed espira amicizie di tutta una vita ancora intatte.
Dichiara pace con il tuo ascolto: quando senti sirene, prega ad alta voce.
Ricorda quali sono i tuoi strumenti: semi di fiori, spilli da vestiti, fiumi puliti.
Prepara una minestra.
Fai musica, impara come si dice grazie in tre lingue diverse.
Impara a fare la maglia, e fai un cappello.
Pensa al caos come mirtilli che danzano,
immagina il dolore come l’espirazione della bellezza o il gesto del pesce.
Nuota per andare dall’altra parte.
Dichiara pace.
Il mondo non è mai apparso così nuovo e prezioso.
Bevi una tazza di tè e rallegrati.
Agisci come se l’armistizio fosse già arrivato.
Non aspettare un altro minuto.
Mary Oliver, Dichiara pace

https://it.wikipedia.org/wiki/Mary_Oliver

 

 

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Ancient-Medicine-Map-1024x702 (1)Mappa delle diverse specie di piante che crescevano negli Stati Uniti,
Stampata da National Wholesale Druggists ‘Association, 1930

 

 

112. per integrare di altri significati i termini “mondo” e “mappamondo”, la Dichiarazione di Cambridge sulla consapevolezza animale del 7 luglio 2012: dedicato a chi, alla fine di tutti e di tutto, non mi ha mai tradito, c’è sempre, è sempre CON-INSIEME a me, mi ama senza condizioni

Nell’occhio tuo guardai, or non è molto, o vita! E mi parve di sprofondare nel senza-fondo. Ma tu mi riportasti a galla con lenza d’oro; ironicamente ridevi,  perché ti avevo chiamata senza-fondo. “Così ragionano tutti i pesci” dicesti; “ciò di cui essi non toccano il fondo è senza-fondo. Invece io sono soltanto mutevole e selvaggia, e in tutto e per tutto femmina, e non virtuosa: anche se da voi uomini vengo chiamata la profonda, la fedele, l’eterna, la piena di mistero. Voi uomini ci recate in dono sempre le vostre proprie  virtù,  ahimè, voi virtuosi!”
(Nietzsche, Così parlò Zarathustra)

 

 

Quando diciamo mondo diciamo qualcosa che comprende umani animali vegetali minerali aria mare terra ciò che vediamo e di cui abbiamo esperienza e ciò che non vediamo e di cui non abbiamo esperienza e …

http://fcmconference.org/img/CambridgeDeclarationOnConsciousness.pdf

https://angelovaira.it/blog/dichiarazione-di-cambridge-sulla-coscienza/

 

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lillo e pallin sul balconelillo e pallina blacone sdraiopallina e lillo sul divanolillo epallina letto primo piano oklilo epallina letto abbracciatilillo epallina sul letto seninellepallina sul comodinolillo archivista al lavoro

 

ci sono sempre nuove mappe da disegnare 🙂

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111. vagabondare tra scoperte e confini, tra un mappamondo del 1492 e una carta geografica del 1500: come cambiano le rappresentazioni in poco tempo

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“L’anno 1774 fu l’epoca di un’innovazione felice per la monarchia Spagnuola. Fino a quel tempo era stata severamente proscritta ogni comunicazione tra le varie parti del continente Americano. Il Messico, Guatimala, il Perù, il nuovo regno, queste regioni erano forzatamente straniere l’una all’altra. Quell’azione e quella reazione, che le avrebbe tutte fatte godere de’ vantaggi, di cui la natura era stata loro liberale, erano considerate come delitti, e punite severissimamente. Ma perché la proscrizione di una ad un’altra città non si era ella anche estesa da una casa a una casa vicina nello stesso quartiere? da una famiglia ad un’altra nello stesso paese? Il dito della natura ha egli segnato sul terreno, che abitano gli uomini qualche linea di separazione? Come sotto lo stesso dominio un luogo posto ad un’eguale distanza tra due altri luoghi può egli esercitare liberamente all’oriente un privilegio, che gli è interdetto ad occidente? Un simile editto, bene interpretato, non significa egli: Proibiamo ad ogni contrada di coltivare un terreno maggiore di quello che possa provvedere alla sua sussistenza e al suo consumo, e proibiamo ad ognuno de’ suoi abitanti di aver bisogno di altra cosa, che delle produzioni del suo terreno? Una libera comunicazione fu aperta finalmente a codeste provincie, e si permise loro di credersi concittadini, e di trattarsi da fratelli.”
da:
GEOGRAFIA DI BUSCHING, CORRETTA E RIFORMATA DA M. BERENGER. TRADUZIONE DAL FRANCESE, ACCRESCIUTA DELLE NUOVE SCOPERTE DI COOK, E NELLA PARTE D’ITALIA CORRETTA E RIFATTA DELL’AVVOCATO GIUSEPPE M.A GALANTI. TOMO IX. CHE CONTIENE LA DESCRIZIONE DEL PORTOGALLO E DELLA SPAGNA. NAPOLI PRESSO LA SOCIETA’ LETTERARIA E TIPOGRAFICA M. DCC. LXXXII CON LICENZA DE’ SUPERIORI

http://www.treccani.it/enciclopedia/anton-friedrich-busching/

https://archive.org/details/bub_gb_bBJLWmrAv6sC/page/n4

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http://www.cristoforocolombo.com/cristoforo-colombo/8558/

http://www.cristoforocolombo.com/cristoforo-colombo/cartografo-juan-de-la-cosa-autore-della-carta-de-marear-disegnata-nel-puerto-de-santa-maria-nel-1500/

Un notaio di Orvieto, Ser Tommaso di Silvestro, nel suo bellissimo Diario che copre gli anni dal 1482 al 1510 -conservato presso la Sezione di Archivio di Stato di Orvieto, trascritto da Luigi Fumi ed edito in cinque volumi negli anni 1891, 1892, 1894, 1897 a cura dell’Accademia La Nuova Fenice- non parla della scoperta delle Americhe: non lo sapeva? era per lui una informazione di minore importanza rispetto a quelle scelte?
Fantasticando: e se, tra mille e mille anni, rimanesse solo il suo diario come testimonianza delle conoscenze degli antichi, le persone  del futuro direbbero che in Europa non si conoscevano le Americhe.
… altre supposizioni, altre interpretazioni …

https://it.wikipedia.org/wiki/Martin_Behaim

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http://www.ruggeromarino-cristoforocolombo.com/mappe/412-il-globo-piu-antico-esistente-e-di-martin-behaim.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Erdapfel

http://www.cristoforocolombo.com/cristoforo-colombo/8558/

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ESSERI UMANI, ESSERE UMANI E CONFINI
Italiano, e francese inglese americano russo senegalese libico egiziano greco siriano indiano, sono parole per descrivere abitanti di luoghi astratti definiti di volta in volta da uomini dopo guerre e combattimenti: e questi sono luoghi la cui estensione e cui confini cambiano nel tempo, ponendo, sulla carta, di volta in volta le persone dentro un luogo o un altro, in modo tale da farle passare da italiano a francese o a austriaco, per esempio, in un battibaleno.
Diversamente, essere umano è locuzione per definire l’appartenenza a una specie diffusa su tutto il pianeta terra, e che si diversifica in modo meraviglioso e creativo, e che rimane tale dentro e fuori ogni confine storico-politico-geografico-fantasioso.
I confini-limes-termine sono fragili, insegna la storia.
I confini-limen-soglia sono generativi, insegna la storia.
Esseri umani, essere umani.

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https://www.repubblica.it/esteri/2015/10/12/foto/columbus_day_la_scoperta_dell_america_ridisegna_il_mondo_le_mappe_storiche-124896333/1/#1

 

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juan de la cosa trattata

https://it.wikipedia.org/wiki/Planisfero_di_Juan_de_la_Cosa

 

prima mappa con l'America

https://it.wikipedia.org/wiki/Mappa_di_Waldseem%C3%BCller

https://www.focus.it/cultura/storia/la-mappa-che-guido-colombo-verso-il-nuovo-mondo

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https://www.liberoquotidiano.it/news/scienze—tech/12007405/cina-esploratore-zhen-he-primo-scopritore-america-colombo-magellano-mappa-mondo-.html

 

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http://www.ruggeromarino-cristoforocolombo.com/colombo/86-una-mappa-sconcertante.html

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mappa della procrastinazione

 

 

 

110. il resto, lo scarto, la propria strada

 

Eccola qua l’emozionante scena finale del film “Nuovo Cinema Paradiso”: le scene dei baci di vari film, tagliate perché il prete del paese non voleva fossero proiettate, ritenendole peccaminose di per sé e incitanti al peccato altrui. Scarti, tagli, ma conservati, e che diventano dono, un dono che completa le storie da cui erano state tolte e completa la stessa vita del protagonista.

 

Accade. Viene chiamata nostalgia. Lo raccontano in tanti/e. Raccontano che “a una certa età” (“una certa età” è un dato personalissimo e condivisissimo, e su cui tutti concordano come sapessero con certezza quale sia 🙂  ) accade che arrivino ricordi di quando si era più o meno giovani, ricordi lontani, dimenticati, comunque di un tempo “passato” (attenzione, pericolo!  🙂  ). E l’emozione, o il sentimento, che sopraggiunge è quello della nostalgia perché a questi ricordi associamo un senso di mancanza e di voler rivivere situazioni o rivedere persone.

E se invece?

Se invece fossero sprazzi lucenti di qualcosa che “doveva” essere e non è stato, e torna incessantemente chiedendo di essere vissuto? Se fossero gli spezzoni tagliati da una censura, nostra e/o altrui, che non ha voluto riconoscere -allora, in quel tempo- la strada che avremmo “dovuto” percorrere  e che ora si ripresentano perché la propria vera unica irripetibile strada è sempre lì pronta a proporsi e riproporsi, ignara, nella sua essenzialità, del tempo e dello spazio, ma regale e generosa dispensatrice di opportunità e consapevolezza?

Se fosse? Quante volte è successo -nella storia, nelle singole vite- che proprio nello scarto era la scelta sostanziale, quella da vedere, esplorare, sperimentare. Non era lo smarrimento, il peccato, la follia, bensì la strada per percorrere la quale eravamo nati, portando il nostro speciale contributo in quell’ambito specifico e nel mondo.

E se ciò che chiamiamo nostalgia fosse, in questi casi, solo un “file” mentale acquisito “per tradizione, per sentito dire, perché così si fa, perché la conosciamo provandola in altri ambiti e la estendiamo a ciò che non sappiamo bene e che sentiamo simile”?

Se fosse altro, quel proporsi di suoni di immagini di sensazioni?  E se fossero i bivi, le strade lasciate, le nostre strade, misconosciute, censurate, ma conservate da ciò che in noi è e diviene, e riproposte per dirci di interpretare diversamente “una certa età”, non una chiusura, ma l’occasione di agire finalmente La Coraggiosa Dirompente Completezza, La Vita Per Cui Siamo Stati Chiamati A Vivere, Le Strade Che Per Troppi  Motivi Abbiamo Lasciato?

Il Resto, Lo Scarto come fertilizzante del presente e del futuro.

Quanti “baci” abbiamo censurato?

Il protagonista del film segue il consiglio del suo amico che, divenuto cieco ma che dice di vedere meglio e più cose, gli consiglia di andare via e di non tornare più al paese, metafora forse di un vivere senza censure. Vi ritorna per il funerale del suo vecchio amico, che risarcisce, con il regalo delle scene dei baci censurati ma conservati, quella che era stata una mancanza  nella vita di quel bambino sveglio e sensibile: gli regala il racconto completo, perché la vita è completa.

 

Morire come le allodole assetate
sul miraggio

O come la quaglia
passato il mare
nei primi cespugli
perché di volare
non ha più voglia

Ma non vivere di lamento
come un cardellino accecato

(Giuseppe Ungaretti, Agonia)

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109. io abito qui … e faccio l’amore con …

 

 

 

io faccio l’amore

faccio l’amore con l’aria che respiro
la lascio entrare in me dalle narici o dalla bocca, attraverso una risata o una lacrima…la faccio scendere nella gola dopo averci avvolto la lingua, ci inondo i polmoni e la pancia e la lascio fluire nelle gambe, mi ci accarezzo il cuore e la lascio uscire dai pori della pelle…ci tuffo le mani e muovo mulinelli con le mie dita curiose, così da sentirmi sfiorare dall’aria anche se è una giornata senza vento…
faccio l’amore con l’aria che respiro

faccio l’amore con l’acqua
la bevo fresca e gorgogliante dalle sorgenti, un po’ più contenuta dai bicchieri…lascio che la pioggia mi bagni tutta, o che semplicemente mi inumidisca le labbra…mi tuffo in ogni mare in ogni fiume in ogni lago, per trovarmi addosso quella seconda pelle liquida, quella massa trasparente che mi accarezza con delicatezza e forza e che scivola via veloce e libera…
faccio l’amore con l’acqua

faccio l’amore con la terra
la assaggio per sentirne i sapori diversi delle diverse vite che l’abitano in quell’angolo di mondo…me la lascio scivolare tra le dita e la annuso e trovo i profumi del bosco o della sabbia o del mio giardino…la guardo incantata nel punto in cui un fiore o un albero esce da essa, come un parto fissato nel tempo, continuato all’infinito…
faccio l’amore con la terra

faccio l’amore con un uomo
lo faccio con lui tutto intero…con il suo corpo sconfinato che dura nel tempo che dura nello spazio..con il suo viso i suoi capelli i suoi occhi le sue labbra il suo collo le spalle le braccia le gambe con le sue natiche con il suo pene con le sue mani la sua pelle il suo cuore il suo fegato i suoi reni il suo stomaco…con i suoi pensieri con i suoi ricordi con il suo futuro con il suo presente…faccio l’amore con i suoi sentimenti e le sue emozioni, le sue speranze e le sue paure, i suoi silenzi le sue parole…faccio l’amore con un uomo che porta se stesso tutto intero quando fa l’amore con me…
faccio l’amore con un uomo

faccio l’amore con il pane
dal primo momento in cui lo tocco e riconosco la sua consistenza e il suo inconfondibile profumo…da quando era grano e poi farina, da quando era acqua ed era lievito, da quando era a riposare e poi a cuocersi…nel momento in cui lo rompo con le mani e divento allegra al solo pensiero della parola “croccante” e a sentirne il suono cantare  nell’aria…per quella sua semplice grandezza di accompagnare i cibi e completarne il sapore…
faccio l’amore con il pane

faccio l’amore con gli esseri viventi
con ogni essere vivente, pianta animale minerale…con gli esseri umani…li accarezzo al primo sguardo, li adoro al primo sguardo, divento il loro cuore perché desidero conoscerli, mi tuffo nei loro sorrisi per sapere la sorgente della loro allegria o nelle loro lacrime per lenire un dolore…offro le mie mani e tutto ciò che ho per trovare il punto in comune che ci lega che ci faccia comprendere reciprocamente per arrivare a capire anche un altro possibile tipo di vita da vivere…
faccio l’amore con gli esseri viventi

faccio l’amore con la vita
accorgermi di ciò che veramente è… scoprire e fare mio quel continuo slancio vitale pullulante sorgivo creativo…spostarmi nel tempo della vita, che è il presente…allenare la creatività necessaria per saperla questa vita veramente com’è, costantemente a guardare ciò che c’è, a ringraziare, ad accogliere, ad amare…
faccio l’amore con la vita

io faccio l’amore

(dicembre 2010, novembre 2012)

 

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108. Eugenio Montale: la lingua ricca del più ricco silenzio

“il cammino è sempre da ricominciare”

“ed io non so chi va e chi resta”

A galla

Chiari mattini,
quando l’azzurro è inganno che non illude,
crescere immenso di vita,
fiumana che non ha ripe né sfocio
e va per sempre,
e sta – infinitamente.

Sono allora i rumori delle strade
l’incrinatura nel vetro
o la pietra che cade
nello specchio del lago e lo corrùga.
E il vocìo dei ragazzi
e il chiacchiericcio liquido dei passeri
che tra le gronde svolano
sono tralicci d’oro
su un fondo vivo di cobalto,
effimeri…

Ecco, è perduto nella rete di echi,
nel soffio di pruina
che discende sugli alberi sfoltiti
e ne deriva un murmure
d’irrequieta marina,
tu quasi vorresti, e ne tremi,
intento cuore disfarti,
non pulsar più! Ma sempre che lo invochi,
più netto batti come
orologio traudito in una stanza
d’albergo al primo rompere dell’aurora.
E senti allora,
se pure ti ripetono che puoi
fermarti a mezza via o in alto mare,
che non c’è sosta per noi,
ma strada, ancora strada,

e che il cammino è sempre da ricominciare.

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Forse un mattino andando in un’aria di vetro

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

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La Bufera

La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,

(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)

il lampo che candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità d’istante – marmo manna
e distruzione – ch’entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l’amore a me, strana sorella, –
e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa…
Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,

mi salutasti – per entrar nel buio.

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La casa dei doganieri

Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

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E senti allora,

se pure ti ripetono che puoi
fermarti a mezza via o in alto mare,
che non c’è sosta per noi,
ma strada, ancora strada,

e che il cammino è sempre da ricominciare.

107. fare la guida

Fare la guida potrebbe significare, in generale, iniziare e finire un percorso insieme a qualcun altro a cui si sta spiegando qualcosa, ma…

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Un quadro, un romanzo, una statua, un palazzo, un giardino … e sono lì, davanti a qualcosa e a un gruppo di persone che aspettano che io racconti quel “qualcosa”.
E ognuno di noi ha una storia personale che subito si intreccia con ogni parola che dico, compresa io con le parole che in quel momento scelgo di dire.
Le persone che ascoltano parlano anch’esse nel loro rispettoso silenzio, con le loro posture, i loro abiti, a volte con qualche domanda. Nulla è per caso. Ho visto silenziose e pudiche lacrime scendere sulle guance da un cuore toccato da una mia parola o dal dettaglio di un quadro, o un aprirsi di spalle prima chiuse come ali ripiegate, oppure un impercettibile alzarsi della testa insieme all’apparire di un lieve sorriso. Sono momenti preziosi di passaggi di informazioni, cioè di nozioni, idee, rappresentazioni: una forma di istruzione, di educazione e cultura.
C’è da scegliere cosa raccontare. Oltre gli autori, le tecniche, lo stile, l’epoca, c’è da dire anche il pensiero-modello-di mondo che ha prodotto quella narrazione. Se io fossi in India, in Centro e Sud America, in Africa, non vorrei solo sapere misure tecniche pennellate stile, vorrei anche sapere cosa ha prodotto tutto questo, i pensieri gli sguardi di singoli e comunità così diversi da ciò di cui ho avuto esperienza.
Quindi mi tocca: mi faccio carico di rivedere la storia del mondo in cui vivo, e di capire cosa io per prima ho filtrato per me stessa e di allargare gli orizzonti che io o il caso o le coincidenze hanno a me ristretto.
Perché qui vicino a me ho delle vite, non si possono prendere in giro le vite: questo è un momento che non si ripeterà più, né per queste vite né per la mia.
Ogni parola allora esce come il risultato-filigrana del cesello di un gioielliere, per lo meno mi impegno a fare che sia così.

Ma sono curiosa, le vite mi affascinano, la singola storia di un uomo di una donna a me appare come l’incarnazione di un sacro che colgo anche nei più piccoli gesti: un sacro già in atto, un sacro che cerca di uscire da scorze di resistenza, un sacro a volte in azione e che scompare poco dopo.

E allora penso che  si possa “fare la guida” di ogni cosa, con il senso profondo che ha il narrare e, attraverso la narrazione e la guida, guardare osservare conoscere le diversità.
Vorrei fare la guida di un albero, per esempio: un albero è come una casa, come un regale palazzo che ospita numerosi abitanti, e di tutto ciò parlare.
La guida di un prato.
La guida di un paesaggio, mi piacerebbe fare la guida di un paesaggio (ricordo il mio “passeggiarte” di tanti tanti anni fa, un progetto e una parola inventata da me, in sordina, diffusa senza clamori mediatici e che adesso viaggia nel mondo).
La guida dei gesti di cura.
La guida dei momenti prima di addormentarsi.
La guida dei primi momenti in cui ci siamo appena svegliati.
“Fare la guida” è conoscere ciò di cui si sta parlando, conoscere al volo chi si ha di fronte, conoscere se stessi e le relazioni che intercorrono tra tutto ciò.

E poi “fare la guida”, per me, della mia vita.
“Fare la guida” come forma di conoscenza, come forma di tenerezza.                                                                                                                                                                                                                        IMG_20190510_172637_leggeroIMG_20190510_172654_leggeroIMG_20190510_172703_leggero

http://www.treccani.it/vocabolario/guida/

https://www.etimo.it/?cmd=id&id=8361&md=1b6884df6988d604a8fa78137fd79715

https://www.etimo.it/?cmd=id&id=8359&md=623fc74ded37f26f84179c090e23f20b

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http://www.orvietonews.it/cultura/2019/05/20/la-fruizione-dell-arte-come-occasione-autentica-di-catechesi-70308.html?fbclid=IwAR2sGmRfOZ7cRPD7RnBVwGqsHXFEDfwS9NHjRNpDfRa3IE4IG_k_qyDwB_A

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Derek Walcott, The bounty, fonte web

Le frasi di un patois radicato in questo pendio di creta
che soffiano tra i germogli del cedro; la terra s’incrina come se fosse un vecchio secchio del carbone, con manici, morceaux-chaudière,
e una secca musica comincia: le zucche-cicala delle maracas,
l’argenteo bagliore dei bangio, i violini che graffiano l’aria,
il cedro silenzioso che si staglia contro l’azzurra siccità,
l’ultimo barlume di una lingua che trasmuta nelle foglie fiammanti
lungo l’Atlantico cobalto che presto quel mutare spegnerà.
Le cose erano fatte bene: il legno in cui crede il carpentiere,
il fornaio che col suo remo estrae pagnotte dall’argilla,
odore, forma e suono escono dalla fragranza della terra,
con la frase «Era così, ma non parliamo più a quel modo»,
finché si radica nella lingua un silenzio fatto con le nostre mani.
Il silenzio degli hotel bianchi, le maniche increspate di una costa
che porta un menù tradotto nella parlata delle isole
che valletti e camerieri ripudiano. «Non è più così».
Quell’albero che conosco geme quando s’inclina
per compiacere il vento. Sulle prime, per via del suo ansimare,
pensavo che la terra tremasse all’ombra delle acacie spinose,
ma avevo posato il piede sopra un tronco, e i suoi lamenti
venivano dalle radici sottoterra; se come noi ansima il suolo
allora i morti, perfino nel silenzio, forse ancora respirano.
*
Il sentire del villaggio nella calura del pomeriggio, un torpore
che tramortisce i polli, che fa desiderare ai sassi di nascondersi
dal sole delle due, quando andare di porta in porta
è una spedizione, quando la palma e il mandorlo chinano il capo
in polverosa consunzione, e vecchie ubriache siedono su canoe rotte,
troppo stanche per mendicare, e i ragazzi hanno quello sguardo fiacco
che dice niente, né «Fatti forza» né «Benvenuto». Nessun rumore
dal mare, l’orizzonte abbaglia: a tutto questo hai fatto il callo,
ma qualche volta qualcos’altro penetra e le secche lo avvistano:
«Se si esclude quell’enorme nuvola che naviga sopra una fregata,
ici pas ni un rien» dicono, non c’è niente qui. Nada
è la strada dalle ombre affilate e gli ambulanti quieti
come il loro igname, e strano a dirsi le torrette di Granada
sono nada al confronto di questo bianco vuoto ribollente, dei calcinati
castelli di pietra nell’estate, o dei piccioni che esplodono in stormi
sopra San Marco, nada vicino alla garzetta dal passo lungo,
al confronto della tranquilla ronda della fregata nella baia
abbagliante, e dei frangenti che si spaccano sulle rocce.
È solo la tua immaginazione che alla fine l’accende
al tramonto in quella mezz’ora colore del rimpianto,
quando la risacca, più vecchia della tua mano, scrive:
«Non è niente, ma è questo niente che la fa grande».

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106. “questo/a è la verità”: dove posizionare la freccia?

questa è la verità
a me sembra che la verità includa anche sapere che c’è uno spazio tridimensionale dentro cui è sospeso un oggetto che grazie alla presenza di luci proietta ombre su due pareti di quello spazio; quindi, non soltanto le ombre proiettate e l’oggetto che le genera e il rapporto tra essi, ma anche gli altri elementi presenti e i rapporti che intercorrono tra tutti gli altri elementi …
in altre parole, la freccia con la scritta “questa è la verità” non dovrebbe essere puntata verso il cilindro, ma posta fuori dal disegno e puntata su tutto l’insieme…
e però allora consideriamo anche lo spazio esterno, il bianco del foglio o del video …
e però anche noi che guardiamo e anche il modo in cui guardiamo ….
………. e …….

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depositphotos_13290864-stock-photo-world-hemispheres-old-mapMappa del mondo, in Frederick De Wit, Atlas,  Amsterdam 1668

 

105. monopluriteismo

Si può partire dai politici che mostrano rosari, che baciano reliquie, che nominano il nome di Dio non solo invano e a sproposito, ma proponendo nuove forme di blasfemie.
Si può partire da altri paesi lontani, dal mare, dai confini. Si può partire da dovunque, ma si parte sempre dall’essere umano e lì anche si arriva. Alla sua singolarità, alla sua singolaritudine, alla -ancora- impossibilità della totale condivisione della singolarità.

Sulla carta e nelle parole dei solerti funzionari, il Dio unico è di una chiarezza evidente e disarmante. Unico anche nella sua maschile rappresentazione, esclusivo si potrebbe dire, ma questa è un’altra storia.
Nella mia memoria, le prime ufficiali nozioni di fede, con quel procedere di domande e risposte del catechismo, davano una dimensione comunitaria, ufficiale, condivisa, alle precedenti private affettive nozioni apprese in casa, dalla voce della mamma soprattutto, e poi  dai comportamenti dei componenti della famiglia e del gruppo appena più allargato dei vicini di casa e dei parenti. E già qui, qualche sconcerto segnava ogni tanto i passi nel cammino della fede. Cioè, non sembrava che si parlasse sempre dello stesso Dio: c’erano così evidenti sfumature e intersezioni personali da rendere affollato il concetto del dio unico, che tale rimaneva sulla carta e negli insegnamenti ufficiali, ma si differenziava e moltiplicava per quante persone lo avessero avvicinato.
Si potrebbe pensare “era gente semplice”, ma non sarebbe un buon argomento di discolpa nemmeno per i solerti funzionari impegnati a trasmettere insegnamenti di tale portata.
Questo accadeva anche tra coltissimi soggetti umani; e tuttora.

E infatti il numero che contiene le varianti del singolo “Dio” monoteistico è grande tanto quanto il numero degli esseri umani che lo pensano.
… la donna che  prega Dio di fare del male a quella che pensa sia l’amante del marito … il parroco che parla dall’altare del Dio del suo cuore … i politici, i re, gli imperatori che hanno reso e rendono Dio uno strumento dei loro poteri personali … il/la credente che alza muri fa guerre uccide in nome di Dio …
é così, il dio a immagine e somiglianza degli esseri umani, per miliardi di teste e di cuori ….
si assiste a un monopluriteismo che certamente non è sfuggito ai solerti funzionari di Dio, ma che forse anch’essi se ne servono per vari scopi … d’altronde siamo tutti protesi a trovare un posto nel mondo che ci rassicuri, funzionari di Dio o laici che si sia, e il posto più sicuro sembra essere quello serrato dentro una visione del mondo inattacabile, costruita chissà quando e chissà come e chissà dove, immutabile quindi, incondivisibile nel profondo; un’identità così rigida da potersi rompere al soffio del più delicato refolo primaverile, cioè da potersi rompere a ogni  incontro … e in questo limitatissimo spazio collochiamo anche il personalissimo essere che chiamiamo Dio, e su queste strutture esclusive, divisorie, costruiamo un’illusione di comunità

eccoli qua i rosari branditi come armi, le invocazioni a una madonna che – se esiste -nemmeno si volta da lassù, perché non si riconosce in quegli appellativi, in quelle voci che la trascinano nel fango degli interessi personali

e se ne stanno lassù, da sempre – se esistono – quel Dio e quella Madonna che ci sembra di invocare mentre parliamo invece delle/con le nostre parti interiori, delle/con le nostre paure, dei/con i nostri confini, incapaci di riconoscere e accogliere quella che potrebbe essere la più sicura delle Diversità che vita mondo esperienza ci pongono nell’incontro

quaggiù c’è un fiorente monopluriteismo, visibile nelle famiglie, tra vicini di casa, tra colleghi, tra stati ….
magari fosse un incontro di diversità ….
è guerra di religioni sotto l’unico variegato impaurito D-Io

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104. non mi lasciare non mi dimenticare fatti guardare fatti vedere vieniti a riposare non te ne andare fatti cantare fatti consumare vieniti a coprire vieniti a riscaldare

Francesco De Gregori, Bellamore in Canzoni d’amore, 1992

Bellamore Bellamore non mi lasciare
Bellamore Bellamore non mi dimenticare
Rosa di Primavera, Isola in mezzo al mare
Lampada nella sera, Stella Polare
Bellamore Bellamore fatti guardare
nella luna e nel sole fatti guardare

Briciola sulla neve, Lucciola nel bicchiere
Bellamore Bellamore fatti vedere
e vieniti a sedere vieniti a riposare
su questa poltroncina a forma di fiore
questa notte che viene non darà dolore
questa notte passerà senza farti del male
questa notte passerà o la faremo passare

Bellamore Bellamore non te ne andare
Tu che conosci le lacrime e le sai consolare
Bellamore Bellamore non mi lasciare
tu che non credi ai miracoli ma li sai fare

Bellamore Bellamore fatti cantare
nella pioggia e nel sole fatti cantare
Paradiso e Veleno, Zucchero e Sale
Bellamore Bellamore fatti consumare
e vieniti a coprire vieniti a riscaldare
su questa poltroncina a forma di fiore
questo tempo che viene non darà dolore
questo tempo passerà senza farci del male
questo tempo passerà o lo faremo passare

 

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Oscar Farinetti, Conclusione. Gabriela e Pablo, in Breve storia dei sentimenti umani, La nave di Teseo, 2019, pp. 165-166

Siamo in Cile, la terra dei  poeti che scrivono dell’esilio e dell’amore. La terra dei ghiacciai, delle montagne e delle grandi distanze che portano alla solitudine e alla meditazione. la terra della politica , degli eserciti e delle rivoluzioni.
Questa è la storia di Lucila Godoy Alcayaga e di Ricardo Reyes Basoalto.  Lei a quattordici anni lavorava già come aiuto-insegnante per mantenere se stessa e la madre. Lui l’avrebbe incontrata tra i banchi di scuola quindici anni dopo.
Lucila, in seguito, sceglierà di ispirarsi ai suoi due poeti preferiti per creare il suo nome d’arte: Gabriele D’annunzio e Frédéric Mistral. E’ alta di statura, porta i capelli sempre raccolti e abiti presi a prestito. Dice sempre la cosa giusta al momento giusto, come da bambina le hanno insegnato.
Anche  Ricardo avrebbe poi scelto un nome d’arte, cercandolo nel suo poeta preferito: Juan Neruda. Lei racconta della morte, della madre e della guarigione. Lui ci parla dell’amore che stringe il cuore, che toglie il fiato.
E’ una storia vera. E’ la storia di Gabriela, poverissima, che trova nel suo alunno Pablo un immenso talento e lo incoraggia a non rinunciare alla poesia nonostante l’avversione del padre. E’ la storia di una semplice maestra che vuole per i suoi alunni grandi finestre per poter ammirare le Ande, e sognare.
Lei è stata la prima donna latino-americana a vincere il premio Nobel per la letteratura nel 1945. Lui, considerato oggi il più grande poeta dell’amore di tutti i tempi, lo ha vinto ventisei anni dopo. Il rapporto tra Gabriela Mistral e Pablo Neruda è una storia piena di sentimenti. Gabriela aiutò Pablo a sviluppare il proprio talento, non a emulare il suo. E’ una costante apertura di senso. E’ maieutica. Entrambi condurranno una vita a suscitare sentimenti. Entrambi avranno grossi problemi con i regimi, entrambi manterranno sempre la testa alta ed entrambi saranno costretti all’esilio.
Questa è la storia di una maestra speciale che trova un alunno speciale e lo aiuta a diventare unico. Come pure i loro Nobel sono unici. Possiamo considerarli Nobel ai sentimenti umani.

GABRIELA MISTRAL: “Dammi la mano e danzeremo, dammi la mano e mi amerai. Come un sol fior saremo, come un solo fiore e niente più.”
PABLO NERUDA: “Toglimi l’aria se vuoi, toglimi il pane. Ma non togliermi il tuo sorriso.”

 

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Gabriela Mistral, Dammi la mano, in Canto che amavi. Poesie scelte, Marcos y Marcos 2018, traduzione di Matteo Lefèvre, p. 43

Dammi la mano e danzeremo;
dammi la mano e mi amerai.
Come un sol fior saremo,
come un fiore, e niente più.

Lo stesso verso canteremo,
lo stesso ballo ballerai.
Come una spiga ondeggeremo,
come una spiga e niente più.

Ti chiami Rosa e io Esperanza;
però il tuo nome scorderai,
perché saremo noi una danza
sulla collina, e niente più.

103. frontiere

SCONFINASCERE
SEMPRE
DOVUNQUE

Confine. In geografia politica, linea immaginaria tra due nazioni,
che separa i diritti immaginari dell’una dai diritti immaginari dell’altra.

Ambrose Bierce

Confine, diceva il cartello.
Cercai la dogana. Non c’era.
Non vidi, dietro il cancello,
ombra di terra straniera.
Giorgio Caproni

Di confini non ne ho mai visto uno.
Ma ho sentito che esistono nella mente di alcune persone.

Thor Heyerdahl

Tanto più un paese costruisce muri e barriere
per difendere i propri valori
tanto meno avrà valori da difendere.
Hans Enzenberger

https://www.addeditore.it/scuole/atlante-delle-frontiere/

https://www.addeditore.it/catalogo/tertrais-papin-atlante-delle-frontiere/

http://www.minimaetmoralia.it/wp/bussole-latlante-delle-frontiere/

https://girodelmondoattraversoilibri.wordpress.com/tag/atlante-delle-frontiere/

http://www.mangialibri.com/libri/atlante-delle-frontiere

https://www.modulazionitemporali.it/latlante-delle-frontiere-confine-e-diversita/

 

 

http://www.mediterraneansocietysights.com/focus-sconfinate-terre-confine-storie-frontiera/

https://www.qcodemag.it/indice/libri/scoprire-il-confine/

http://www.mangialibri.com/libri/la-frontiera-scomparsa

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      Ognuno prende i limiti del suo campo visivo per i confini del mondo.
Arthur Schopenhauer

Brain Map. An illustration of a human brain made up from a map. Vector illustration. “… faccio una cosa che so ti farà male, so che ti dispiace, ma la devo fare …” 54517748_2431114153791761_5253033929752969216_n

Distinguere il bene dal male non è facile
poiché i confini tra questo e quello siamo noi a tracciarli.

Roberto Gervaso

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               Pur percorrendo ogni sua via,
tu non potresti mai trovare i confini dell’anima:
così profonde sono le sue radici.

Eraclito

In Africa Nera non ci sono frontiere, neppure tra la vita e la morte.
Il reale acquista il suo spessore, diventa realtà
spezzando il rigido involucro della ragione logica,
soltanto allargandosi alle dimensioni estensibili del reale.

Léopold Sédar Senghor

Forse non ce la farai, a fuggire dal tempo,
nemmeno arrivando ai confini del mondo.
Ma anche se il tuo sforzo è destinato a fallire,
devi spingerti fin laggiú.
Perché ci sono cose che non si possono fare
senza arrivare ai confini del mondo.
Haruki Murakami

102. date ricorrenze e voragini

In inglese li chiamano “sinkhole”. Sono voragini -di diverse grandezze-  che si aprono all’improvviso e inghiottono quello che c’era prima, portando nel sottosuolo ciò che era sopra: palazzi macchine, strade, persone …
Sembra siano causati da fenomeni naturali di carsismo, o da fenomeni artificiali, cioè provocate da comportamenti umani errati di sfruttamento del sottosuolo.

Ci sono anche date che sono voragini.
Alcuni ci cadono dentro per sempre, ma forse proprio perché erano date in cui avevano pronunciato qualcosa come “per sempre”.
Sbagliando, certo: che ne sappiamo del “per sempre”. Però in quel momento ci credevano e avevano gettato una così grande ipoteca  sul futuro da diventare bancari della propria vita, bloccando la propria esistenza e trasformandola in un investimento fruttifero da cui aspettarsi notevoli interessi .
Buffo … dire “per sempre” è un po’come dire “porto in banca la mia vita, la metto al sicuro, qualcuno la gestisce e ne trarrò dei frutti”. Buffo, però funziona; per esempio poteri e istituzioni di ogni tipo si reggono proprio su questa convinzione-illusione.
Ci sono scelte che hanno questo rumore di sottofondo, sono fondate nel piano inferiore della coscienza e sono considerate giustissime, finché non salgono al piano superiore della chiarezza dove viene smascherato l’inganno “economico”.
Per questo smascheramento è necessaria almeno una crisi, a volte più di una, ed un passo in più nel cammino della consapevolezza.
Dopo le crisi, dal “per sempre” si passa al “sempre”, scoprendo che è qualcosa di meravigliosamente consapevole e responsabile  poiché fondato sul presente, cosa di cui non ci illudiamo di sapere perfettamente cosa sia, ma della cui gestione siamo un pochino più capaci rispetto al futuro infinito.
Certo, vuoi mettere dire “per sempre” in abito bianco -o in qualsiasi altro abito cerimonioso-, dire tutte le altre belle parole dettate da qualcosa che, in varie forme, in quel momento chiamiamo amore, fedeltà, sigillo ecc.
Però è così, sono espressioni potenti, e piacciono in quei momenti.
Il punto è che a quei momenti non tutti arrivano con una chiarezza al massimo livello. Quindi poi ci sono frane, inondazioni, esondazioni, terremoti, black-out, di tutto un po’, come nei peggiori film di fantascienza.
E dopo le frane c’è chi rimane e insiste nella via sbagliata e c’è chi, pur in mezzo a mille difficoltà, prende altre strade. Perché hai voglia a dire scusa, ho sbagliato, adesso cambio; c’è solo da riconoscere che non sei sulla tua strada e c’è da comportarsi da “persona” e  andare a trovare la tua strada: questo cammino è più facilmente permesso e sostenuto dal “sempre”, che non ti inganna se lo collochi fra le strutture portanti del tuo stare al mondo e ti lascia in quella libertà di scelta -drammatica tenera straziante dolce potente- che il “per sempre” non sa fare, perché ingannevole.
Queste scelte vengono spesso definite irresponsabili o impossibili, e argomentate anche con argomenti forti (nel caso della rottura di un matrimonio la presenza di figli è una argomento giustamente forte, oppure si evidenzia la delusione che si dà a chi ci conosce (???), oppure l’essere di “cattivo esempio”, come se vivere una vita falsa e in termini ‘bancari’ fosse un buon esempio), ma questo succede quando una struttura portante è il “per sempre”.
E succede spesso, il nostro mondo è tanto tanto fondato su  “investimenti” di ogni tipo e quando accade un ‘crollo in borsa’ ci troviamo spiazzati senza niente tra le mani e -incredibilmente- spesso torniamo in quella stessa ‘banca’, magari a chiedere un prestito, cosa che ci lega e sottomette ancora di più. E così via, totalmente immersi radicati ipnotizzati nella convinzione del “per sempre”.
Per questo, poi, anche se siamo riusciti ad andar via dalla “banca del per sempre”, accade che ne portiamo gli effetti a lungo, perché i momenti dei grandi investimenti sono momenti belli, ci piacciono ci sentiamo energetici, colmi di progetti, di forza … insomma non sempre valutiamo tutto in quei momenti e perciò dopo falliamo, ma tendiamo a ricordare solo il bello dell’illusione.

Ed ecco allora certe date – quelle in cui hai messo quelle firme, quelle in cui hai detto sì “davanti al mondo”, quelle in cui ti sentivi sulla cima del mondo –  arrivano puntuali ogni anno, e ti guardi intorno e vedi che sei solo invece di essere insieme, e arriva quel pizzico di nostalgia, quel ri-chiamo (oh, quanti pericoli in quel prefisso) e fai confronti con chi è riuscito perché è stato bravo davvero o perché è bravo a coltivare l’inganno e l’illusione.

Vorresti altro in quelle date.
Un abbraccio. O l’oblio totale, ventiquattro ore di smemoramento, o il salto veloce al giorno dopo. Qualsiasi cosa, ma non il ricordo e la caduta nella voragine del “ri-“.
Pur capendo che non hai fatto la scelta giusta e devi cambiare, che devi uscire dalla ‘banca’, non è facile uscire da una banca senza un centesimo in tasca, non è facile lasciare una vita costruita a lungo. E se lo fai, l’abitudine a pensare nel vecchio modo riporta nel cuore suggerimenti maligni, attacca con le armi della debolezza e della tristezza.
Beh, allora, sei hai una data-voragine, una lacrima te la puoi permettere, un bisogno di tenerezza, l’attesa di un conforto, sì te li puoi permettere se li collochi dentro un cuore che non sì è voluto illudere, che non ha voluto “fare male” (e non fare “del”male, qui si sta parlando di altra cosa), dentro un cuore di cui gli altri possono adesso sì fidarsi perché non si racconta e non racconta più menzogne.

Oggi è il 13 maggio, una data voragine, una di quelle che nella mia vita sono passate per  il “per sempre”. Vero è che io gli dicevo “sempre” prima di dire “per sempre”, fin da quando ci eravamo conosciuti. E che se dovevamo perdere qualcosa, era meglio perdere il “per sempre” invece del “sempre”, ma a quanto pare a lui non interessava né il sempre né il per sempre.
Ma -molto dopo, troppo dopo – non mi feci fermare dalla certezza che non avrei più avuto abbracci, perché di “quegli” abbracci non ne volevo più.
E sapevo anche che -dopo, in futuro- avrei continuato a sentire il bisogno di abbracci, ma di quelli giusti, quelli veri, sinceri, quelli del “sempre” e che quel bisogno non doveva rendermi debole, anche se per arrivare a questa meta ci ho messo un po’ di tempo, passando per altre voragini.

13 maggio. Anche gli amici non ricordano più questa data, o la ricordano e tacciono. D’altronde si è intrecciata con quella di un giorno di fine giugno, inizio e fine, così.
C’è una stretta al cuore quando arriva questa data-voragine, lo sinkhole che fu causato da fenomeni naturali di carsismo e da immaturi comportamenti.
Mi permetto la stretta al cuore, un po’ di mancanza, il briciolo di tristezza, a volte la lacrima, il bisogno di tenerezza, insomma di tutto un po’, quello che ancora viene richiesto di dare in pasto alla ‘banca’, ma entro la misura del cuore ora disegnato dal “sempre”.

 

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101. ah, che bellezza!

 

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beh, è bella l’isoletta-spiaggetta, l’abbiamo resa molto bella, pulita, tutta secondo il nostro criterio di bello: quello autoreferenziato, quello che noi consideriamo bello, quello basato sulla dicotomia bello/brutto e che per esistere come tale “deve” “necessariamente” essere sostenuto dal brutto;

con quanti bellissimi -secondo noi- gesti abbiamo reso bello il mare del nostro progredito cuore, ah sì, il nostro, il nostro

bello, lo abbiamo reso molto bello il mare con i nostri bellissimi gesti
bella, l’abbiamo resa molto bella la nostra spiaggetta con i nostri bellissimi gesti

noi sappiamo cosa è bello e cosa è brutto, quindi …

bello
noi lo consideriamo bello
per noi è molto bello quel mare
per noi è molto bella la nostra isoletta, beh, sì, è la nostra isoletta, cos’altro vuoi che sia, non vedi che è un’isoletta?
per noi è un rifugio, per noi è un ristoro
per noi è un’isoletta-spiaggetta, per noi è bella, noi l’abbiamo resa bella, l’abbiamo pulita, secondo noi abbiamo avuto cura della nostra bella isoletta

ah, che bellezza

b
e
l
l
o

sì, tutto quello che facciamo è bello, bellissimo, siamo bravissimi a far diventare bello quello che facciamo
(in maniera più semplice e diretta qualcuno direbbe “ce la cantiamo e ce la suoniamo”)

siamo bravi, guarda che bella spiaggetta, guarda che bel mare

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100. le mani, e il bello e il brutto … e gli opposti

Orvieto, Oratorio della Misericordia -definito “uno scrigno di bellezza”- presentazione del restauro della mostra d’altare.
Con l’occasione si parla anche della pala d’altare, restaurata qualche anno fa. E’ una Deposizione, ispirata alla Deposizione del Carracci conservata al Louvre.

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Gli storici dell’arte e i critici d’arte dicono della “bellezza” dei volti, dipinti con perizia;  invece i drappeggi non sono stati dipinti bene; la parte meno riuscita, detta chiaramente “la più brutta” del quadro sembrano essere le mani. Siamo tutti rivolti a guardare la pala, a guardarla attraverso le parole degli esperti. Poi vedo bene un dettaglio, proprio osservando meglio il particolare delle mani. Vedo questo.

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La mano dell’angioletto sorregge la mano del Cristo, per non farla penzolare inerte nell’abbandono della morte. Una piccola mano sorregge una mano grande. E tutta la tenerezza del mondo all’improvviso è tutta ma proprio tutta lì, e non vedo più nient’altro.
Con il dito dell’altra mano, l’angioletto-puttino indica la mano del Cristo, probabilmente le stimmate, e cioè forse il motivo del suo gesto di compassione; ma, se fosse, anche questo per me passa in secondo piano, poiché a fronte della stessa causa ognuno di noi reagisce diversamente e fa gesti diversi. L’invisibile agli occhi di chi era sul Golgota, cioè l’angelo, si fa visibile a noi attraverso l’immaginario dell’artista e subito si fa suggerimento, via da percorrere o l’immediato riconoscersi rispecchiarsi svelarsi di parti che costruiscono  il cuore umano: la capacità di scegliere, la tenerezza, lo stare vicino, accanto, il contatto amoroso.
E’ quindi quel tocco, quella tenerezza voluta, scelta e gratuita che mi incanta e che tutto fa scomparire.
Scompare anche questa rappresentazione geografica, che pure è di mio grande e divertito interesse -ma cosa ha combinato il pittore dalle parti del confine tra Francia e Spagna? e Corsica e Sardegna dove le hanno collocate?e il Mar Nero, è immenso! – e che ci sovrasta dal centro del soffitto a volta dell’Oratorio.

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Tutto scompare.
Rimangono solo queste due mani, in ogni parte del mio mondo.

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E adesso un pensiero mio, di sempre.
Bellezza? Bruttezza?
Si  possono davvero definire “brutte” quelle mani? Si può davvero leggere solo il tratto il colore le pennellate, in una chiusura di critico estetismo formale? E’ così difficile inserire nella lettura anche quel gesto, quella tenerezza infinita?
In un quadro e nella realtà, è così difficile?
Ho molta difficoltà a pronunciare le parole “bello”/”brutto”, da sempre, perché sento che mi sfugge qualcosa, che non sono corrette, che non narrano una completezza che, a sua volta, anch’essa però mi sfugge.
E penso che un grande salto in avanti dell’umanità avverrà quando sarà superata e dimenticata questa coppia “bello-brutto”, dicotomica, oppositiva, offuscante e così deviante nella lettura della realtà.
Si parla così tanto di bellezza, e se ne parla sempre fondando i discorsi su questa opposizione, anche quando la dicotomia non è evidenziata o non è portata sul piano della coscienza. Ma sempre, sempre, per un “bello” c’è un “brutto” e viceversa, due parole che non hanno espresso nel tempo e nello spazio le stesse medesime immutabili realtà, lo stesso tipo di bellezza o lo stesso tipo di bruttezza – un corpo umano considerato bello negli anni ’50 non lo è  oggi, tanto per fare un esempio banale- ma i due concetti si bilanciano e si sbilanciano reciprocamente, indissolubilmente legati dal meta-concetto degli opposti.
Ed è anche a partire da una riflessione sul meta-concetto degli opposti che  possiamo iniziare la ricerca di significati nuovi, non ancora intravisti – ma “sentiti” e sperati – e forse espressivi di valori condivisibili, inossidabili, duraturi, inattaccabili (sempre che esistano in questa nostra Dimensione). Perché ogni coppia di opposti ha sempre un significato che possiamo definire labile, “liquido”, per dirla con un termine in voga, cioè cambia, fino ad arrivare a significare anche l’opposto, e ciò che prima era bello ora è brutto e viceversa. Certo, questo si può dire per molte parole,  ma nella  coppia dicotomica emerge in modo evidente. In ogni epoca, in ogni potere, in ogni religione  -quindi sia in senso diacronico che sincronico- il significato dei termini che compongono le coppie di termini opposti (buono/cattivo, meglio/peggio, bello/brutto, ecc.) si rivela variegato, diverso, autoreferenziato, e dà immediatamente il senso valoriale di ciò che sta rappresentando, il senso di un’epoca, di una struttura, di un orizzonte simbolico. E soprattutto, nel suo mutare semantico, evidenzia il non mutare strutturale, cioè la struttura portante degli opposti. E’ allora qui che dobbiamo profondamente intervenire? Sì.
Un mondo nuovo avrà saputo pensare diversamente e avrà trovato altre parole perché avrà visto una realtà più complessa, più ricca, dove gli opposti  esclusivi non saranno nemmeno un ricordo.
E sarà invece presente una mano che sorregge un’altra mano.
Vi aspetto, partecipo alla vostra costruzione,  nuovi sguardi, nuove parole, nuovi pensieri.

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