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Il Nero(tempo di lettura: meno di 5') Finché c’era il Turco ero tranquillo. Strano tipo, il Turco. Aveva ucciso più persone di quante zanzare io possa spiaccicare in una serata d’estate, eppure quando seppe che disegnavo mi prese a benvolere. Grazie ai suoi accordi con le guardie mi procurò matite colorate e carta semiruvida. Mi chiedeva di disegnargli i posti dov’era stato prima di finire dentro: Parigi, Amsterdam, le cascate del Niagara… poi se li appendeva in cella. Non volle mai altro da me e in cambio mi proteggeva da gente ben peggiore. Quando una mattina lo trovarono soffocato nel suo cuscino, cominciai ad avere paura. Il numero uno divenne il Nero. Perché poi lo chiamassero così, era un mistero: alto, biondo, la pelle color latte, l’unica cosa nera in lui era l’animaccia sua. Era un gigante, un suo braccio era grosso quanto una mia gamba, si era fatto strada nella comunità dei reclusi con la forza bruta. Se c’era qualcuno che poteva fare le scarpe al Turco, quello era il Nero. Un pomeriggio, tornando dall’ora d’aria, trovai la mia cella buttata all’aria. Le matite frantumate, inservibili, i disegni stracciati e appallottolati. Un uomo del Nero mi aspettava appoggiato alle sbarre: – Il capo ti vuole. Sei nuovo e carino, credo che tu gli piaccia. Buttava male. Tenni duro finché potei, svicolai, mi feci di nebbia, ma era una gara persa. Pensai che era meglio farsi rompere il culo che la testa. Magari ce l’ha piccolo, pensai. Lo avvicinai a pranzo, nel refettorio. – Fammi trovare le sbarre aperte stanotte – gli dissi. Sapevo che non avrebbe avuto problemi, anche i secondini si erano adeguati al nostro minigolpe. La fortuna mi aveva decisamente abbandonato. Ce l’aveva enorme. Mi aspettava con un ghigno che sembrava una cicatrice. Mi prese per i capelli della nuca, mi costrinse a chinarmi, mi sbatté la faccia contro le sbarre e mi cacciò quel cazzo smisurato in culo. Ansimava, gridava come un animale, ci teneva a far sapere a tutti che aveva avuto quel che voleva. Quand’ebbe finito di fare i suoi comodi mi lasciò andare i capelli. Non gli si era neanche ammosciato, a quel bastardo. – Adesso mi fai un pompino. Lo guardai, era sporco del mio sangue e di sperma. Credevo di non farcela, ma mi vennero in mente i racconti che si facevano su di lui, sulle ritorsioni che metteva in atto contro quelli che gli disubbidivano. Mi feci forza e affrontai anche quella prova. Quando mi venne in bocca non riuscii più a trattenermi, gli vomitai tra i piedi. Mi raggomitolai per terra, aspettando le botte che sicuramente sarebbero arrivate. Invece la bestia si mise a ridere, sguaiato come un pazzo. – Bravo, mi hai fatto divertire. Tieni, te lo sei meritato – e m’infilò un sigaro nel culo. – Adesso però pulisci. E càvati dai coglioni alla svelta. Mi tolsi la casacca e feci quel che m’aveva detto. Per un po’ di tempo andò avanti così, poi, visto che facevo il bravo, il Nero mi fece riavere i colori e la carta. Per un breve periodo mi lasciò anche in pace, mi pareva di aver ritrovato un qualche equilibrio. Durò poco. Mi mandò a dire che mi voleva di nuovo. Gli feci sapere che non avevo più intenzione di sottostare alle sue prepotenze. La replica non tardò: – Non hai diritto di scegliere. Quando il Nero chiama, tu corri. Molto meglio per te se spegni il cervello e fai quel che ti si dice. Andai da lui la sera stessa. Come al solito m’attendeva con un sorriso che era un misto di scherno, di vittoria e di eccitazione. A cose fatte uscii chiudendomi le sbarre alle spalle e rientrai nella mia cella. La mattina dopo, quando andarono a vedere perché non si presentava all’appello, non rideva più. La matita rossa gli aveva attraversato l’occhio e si era conficcata nel cervello quasi per intero. Qualche fine ragionatore fece notare l’ironia della sorte: il Nero, il non-colore, tolto dal mondo dal rosso, il colore della vendetta. Ma questo non era importante. L’importante era che potevamo smettere di vivere nella paura. Per un po’ almeno. Poi qualcun altro avrebbe preso il posto del Nero.
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