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Un condannato per omicidio siede in Parlamento

Post n°274 pubblicato il 06 Ottobre 2006 da Boycott
 

immagine   Sergio D'Elia (vedi foto), nato il 5 maggio del 1952 a Pontecorvo (Frosinone), è un politico italiano della Rosa nel Pugno condannato a 25 anni per banda armata e omicidio. Forse è proprio per questo motivo che si è tagliato baffi e capelli, come mostra la foto sottostante, in modo da non farsi riconoscere.
   Iscritto alla facoltà di Scienze Politiche di Firenze, membro di Potere Operaio, poi di Senza tregua, poi di "Prima Linea". Fu dirigente per quest'ultima organizzazione che è stata un' importante formazione terroristica italiana formatasi in Lombardia nell'autunno del 1976. Per numero di aderenti e di azioni armate è stata seconda in Italia solo alle Brigate Rosse.
   Condannato a 25 anni di prigione per l'assalto al carcere di Firenze, in cui rimase ucciso l'agente Fausto Dionisi, ne ha effettivamente scontati solo 12 grazie ad una riduzione di pena.
   Nel 1986, si è iscritto al Partito Radicale durante la campagna per i mille iscritti, abbracciando così le posizioni nonviolente dei radicali.
   A partire dal 1987, nella Segreteria del Partito Radicale, si occupa soprattutto della riforma penitenzaria, avendone conoscenza diretta.
   Nel 2000 D'Elia venne riabilitato dal tribunale di Roma, che cancellò le pene accessorie, consentendogli l'eleggibilità. Ma quanti disastri ha fatto il Tribunale di Roma?
   E ora pensate a quanto questa persona è distante da quello che vuole la gente: tantissime persone si stanno battendo in Italia affinchè in Parlamento non ci siano a rappresentare i cittadini italiani condannati in via definitiva, invece D'Elia che ha fatto? Ha organizzato un'associazione per far riconoscere il voto ai detenuti (senza nessuna distinzione di pena) e per la riforma delle pene supplementari. Quindi questo nostro dipendente si muove per far votare anche i mafiosi che sono nelle carceri (o meglio, che c'erano nelle carceri, ma che grazie all'indulto non ci sono più) i quali non potranno esimersi dal votare persone vicine alla mafia.
immagine
   Ha collaborato al progetto per il Partito Nuovo e fondato, con Mariateresa Di Lascia, l'Associazione Nessuno Tocchi Caino per l'abolizione della pena di morte nel mondo. Insomma, pur non essendoci in Italia la pena di morte, lui sembra muoversi per motivi personali.
   Nelle elezioni politiche di aprile 2006 è stato eletto alla Camera per la Rosa nel Pugno, ha votato a favore dell'indulto e non ha risposto alla nostra email per spiegarci le ragioni di tale voto. 
   E' stato nominato dall'Unione segretario della Camera, suscitando accese proteste sia da parte dei familiari dell'agente Fausto Dionisi, sia da parte di alcuni sindacati delle forze di pubblica sicurezza.
  Ora, secondo voi, chi ha votato questo partito era informato di chi è Sergio D'Elia? Se fossero stati informati in maniera completa, avrebbero votato allo stesso modo?
  Se ritenete che questo personaggio debba dimettersi, scrivetegli all'indirizzo: 
DELIA_S@camera.it.
   Inoltre, visto che è l'unico condannato in via definitiva nella Rosa nel Pugno, scrivete al segretario dei Radicali Daniele Capezzone affinchè lo butti fuori dal partito per diventare un PARTITO PULITO:
CAPEZZONE_D@camera.it !

 
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sieropositiva62
sieropositiva62 il 09/10/06 alle 01:35 via WEB
PENA DI MORTE: Sette donne condannate alla lapidazione in Iran Alison Langley* BERLINO, 2 ottobre 2006 (IPS) - Amnesty International ha lanciato un appello urgente per la richiesta, con una lettera indirizzata alla Repubblica dell’Iran, di fermare la condanna alla lapidazione per sette donne. Quasi tutte sono state condannate a morte mediante lapidazione per adulterio. L’Iran aveva ufficialmente adottato la moratoria nel 2002 su questa pratica dolorosa e crudele, ma secondo Amnesty le condanne non si sono fermate. Il gruppo ha saputo da fonti attendibili che due persone sarebbero morte per lapidazione lo scorso maggio. La Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani ha stabilito che giudicare delitto penale l’adulterio e la fornicazione non è conforme agli standard internazionali sui diritti umani. “La sentenza di esecuzione della lapidazione per adulterio viola l’adesione dell’Iran all’articolo 6(2) del patto internazionale sui diritti civili e politici, secondo il quale le sentenze di morte sarebbero imposte ‘solo per i crimini più gravi’”, ha scritto Amnesty nel suo appello. Per la legge islamica sharia, il prigioniero viene sotterrato fino al petto, le mani bloccate. La legge specifica persino la dimensione delle pietre da lanciare, così che la morte sia dolorosa e più lenta. Possono essere condannati alla lapidazione sia le donne che gli uomini ma, in pratica, sono soprattutto le donne a scontare questa pena. “È ora che questa pratica brutale abbia fine. Non solo si viene privati, per mano dello stato, del proprio diritto alla vita, ma si viene anche torturati durante il processo”, spiega all’IPS Nicole Choueiry, addetta stampa di Amnesty per il Medio Oriente. “L’Iran dovrebbe rivedere urgentemente la propria legislazione, e metterla in linea con gli standard internazionali dei diritti umani”, ha aggiunto. Secondo un’analisi giuridica indipendente del codice penale del paese, ai giudici iraniani viene richiesto di emettere tali condanne obbligatorie. Tuttavia, secondo alcune fonti dell’IPS nel paese, queste sentenze vengono eseguite di rado. Un avvocato, che ha chiesto di restare anonimo, ha detto all’IPS che il capo del giudiziario, l’Ayatollah Shahroudi, spesso ha potuto rinviare le esecuzioni, ma non ha l’autorità per commutare le condanne a morte in ergastolo. Oltre alle sette donne citate nell’ultimo dossier, Amnesty aveva presentato un rapporto su altre due iraniane che sembra corressero il rischio di essere lapidate. Secondo Amnesty, Parisa A. aveva ricevuto una condanna esecutiva mentre lavorava come prostituta nella città di Shiraz. La donna racconta di essere stata costretta dal marito a prostituirsi, perché la sua famiglia era povera. La condanna è stata confermata da una sezione della Corte suprema a novembre 2005, ma il caso è attualmente in riesame presso la Corte suprema. Iran E., araba di Ahwaz del clan Bakhtiari, è stata condannata alla lapidazione per adulterio. Il verdetto è stato confermato dalla Corte suprema lo scorso aprile. Khayrieh V., anche lei araba della regione di Ahwaz, sembra subisse violenza domestica da parte del marito quando cominciò presumibilmente una relazione con uno dei familiari, che poi uccise il marito, secondo il rapporto di Amnesty. La donna ha negato ogni coinvolgimento nell’omicidio ma ha confessato l’adulterio. La Corte suprema ha confermato la condanna e il caso sembra sia ora passato al giudiziario per il provvedimento esecutivo. Amnesty riporta le parole della donna: “Sono pronta ad essere impiccata, ma non voglio essere lapidata. Se ti strangolano muori, ma è molto difficile che le pietre ti colpiscano in testa”. Shamameh Ghorbani (conosciuta come Malek), è stata condannata a morte mediante lapidazione per adulterio a giugno, dopo che i familiari avevano ucciso un uomo trovato nella sua casa. Il suo caso è ora in riesame. Kobra Najjar, 44 anni, è a rischio di imminente esecuzione, secondo Amnesty. La donna dice di essere stata costretta a prostituirsi dal marito, un eroinomane che la maltrattava. ”Nel 1995, dopo aver subito gravi percosse da lui, raccontò a uno dei suoi clienti che avrebbe voluto ucciderlo. Il cliente sembra abbia ucciso il marito dopo essere stato condotto da Kobra Najjar in un luogo prestabilito. Il cliente è stato inizialmente condannato a morte, ma poi perdonato dalla famiglia della vittima, alla quale avrebbe pagato denaro sporco”, aggiunge Amnesty. Soghra Mola’i è invece stata condannata a 15 anni di prigione per complicità nell’omicidio del marito Abdollah avvenuto nel gennaio 2004, e all’esecuzione mediante lapidazione per adulterio. La donna sostiene che sia stato l’amante ad uccidere il marito. Il compagno è stato condannato all’impiccagione per omicidio, dopo aver ricevuto 100 frustrate per ‘relazioni illecite’. Nel maggio 2005, un tribunale di Teheran ha condannato Fatemeh, il cui cognome è ignoto, a pagare una pena per complicità in omicidio, e ad essere lapidata per “relazione illecita” con un uomo di nome Mahmoud. Il marito è stato condannato a 16 anni di prigione per complicità nell’omicidio. Il suo caso è attualmente in riesame presso la Corte suprema. Oltre a queste donne, gli operatori di Amnesty riferiscono di essere preoccupati della sorte di Ashraf Kalhori e Hajjeh Esmailvand, anch’esse accusate di adulterio e condannate alla lapidazione. * Con il contributo di Kimia Sanati da Teheran. (FINE/2006
 
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