Creato da Sole.ad.Oriente il 28/07/2008

Sole ad Oriente

Consapevolezza non è semplice conoscenza: essa corrisponde al grado in cui la conoscenza diventa totalmente e istintivamente applicata alla vita, poiché entra a far parte del bagaglio interiore della persona; a quel punto essa non ha più necessità di attraversare esperienze per imparare, né patirne le conseguenti sofferenze...

 

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MAHATMA GANDHI


"Parla solo se quello che dici è vero, utile, amorevole."
 
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JIDDU KRISHNAMURTI


"Sai cosa significa imparare?
Quando impari veramente, impari dalla vita; non c’è un insegnante particolare da cui imparare. Tutto ti è di insegnamento: una foglia morta, un uccello in volo, un profumo, una lacrima, il ricco e il povero, coloro che piangono, il sorriso di una donna, l’alterigia di un uomo. Impari da ogni cosa, quindi non hai bisogno di guide spirituali, di filosofi, di guru. La vita stessa ti è maestra, e tu sei in uno stato di costante apprendimento
."
 
 
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Come mai tutte queste prove nella vita?

Post n°1424 pubblicato il 11 Febbraio 2012 da 22k
 

Attraverso le prove noi impariamo le lezioni della vita. Le prove non sono fatte per distruggerci: sono fatte per sviluppare il nostro potere. Esse fanno parte della naturale legge dell'evoluzione e sono necessarie per noi per avanzare da un livello più basso ad uno superiore. Tu sei molto più
forte di tutte le tue prove. Se non lo capisci adesso, dovrai capirlo più tardi.

Dio ti ha dato il potere di controllare la tua mente e il tuo corpo e così liberarti dai dolori e dai dispiaceri. Non dire mai "sono finito". Non inquinare la tua mente pensando che se cammini un po' di più ti sforzerai troppo o che se non puoi avere un certo tipo di cibo soffrirai, e così via.

Non permettere mai alla tua mente di ospitare pensieri di malattia o di limitazione: vedrai che il tuo corpo cambierà in meglio.

Ricorda che la mente è il potere che governa questo corpo, quindi se la mente è debole anche il corpo diventa debole. Non intrististi o preoccuparti di nulla. Se rafforzi la tua mente non sentirai sofferenze fisiche. Non importa cosa succede, devi essere assolutamente libero nella tua mente.

Come in un sogno puoi pensare che stai male e svegliandoti di colpo vedi che non è vero, così nello stato di veglia devi sapere che la vita non è altro che un sogno.

La mente non ha alcun legame con il corpo se non quello che tu gli dai.
Quando la mente potrà rimanere distaccata dal corpo a tuo piacimento, tu sarai libero. Ricorda che sei immortale. Per poter superare le prove della vita avrai bisogno di ringiovanire sia il corpo che la mente. Dovrai sviluppare l'elasticità mentale. Se non puoi fare fronte alle prove della vita, sarai indifeso quando i problemi e le tribolazioni arriveranno.

A volte la vita sembra un gioco crudele. La sola giustificazione per questo è che la realtà è solo un sogno. Hai avuto molte esperienze attraverso molte incarnazioni e ne avrai altre in futuro, ma non dovrebbero impaurirti. Devi recitare tutte le parti in questo film della vita, dicendo a te stesso "Io
sono Spirito".

Questa è la grande consolazione che la saggezza ci dà. Realizza la presenza dell'infinito. Guarda Dio, tuo Padre, il tuo Spirito, dietro le ombre. Nel profondo del tuo essere realizza questo, indipendentemente da ciò che i tuoi pensieri comandano.

Non lasciare sedere nessuno sul trono del tuo cuore se non Dio. Se ami la creazione di Dio più di Dio stesso, sarai deluso. Dio deve essere il primo e l'ultimo, sempre. Non seguire i dettami dei tuoi sogni terreni, perché qualche volta i sogni si trasformano in incubi. Distruggi queste illusioni risvegliandoti in Dio e sarai salvo per sempre.

(di Paramhansa Yogananda, Inner Culture, aprile 1941)

 
 
 

L'esortazione quotidiana di Yoganandaji (08.02.2012)

Post n°1423 pubblicato il 08 Febbraio 2012 da 22k
 

"Dopo una visita fatta ad alcuni dotti, il M. disse ai suoi discepoli: "Certi intellettuali che citano i profeti sono come grammofoni. Come una macchina può eseguire registrazioni delle Sacre Scritture senza comprenderne il senso, così molti studiosi che ripetono le Scritture non si rendono conto del loro vero significato. Essi non vedono i profondi valori delle Scritture, atti a trasformare la vita. Tali uomini traggono dalle loro letture non la realizzazione di Dio, ma solo la conoscenza di parole. E ciò li rende orgogliosi e amanti delle discussioni". E aggiunse: "Ecco perchè vi dico di leggere meno e meditare di più"."

(Paramahansa Yogananda)


 
 
 

Quando la malattia fa crescere

Post n°1422 pubblicato il 08 Febbraio 2012 da 22k
 

- Corpo, emozioni e spirito: i tre livelli della sofferenza -

Diciamolo subito: ancora non vi è alcuna riprova scientifica a questo. Eppure la convinzione che la quasi totalità delle malattie sia di origine psicologica è un'evidenza che emerge da numerosi riscontri clinici. Senza voler fare "di tutt'erba un fascio" e tenendo conto di tanti fattori esterni come virus, batteri, agenti chimici, alimentari, lesioni e traumi, malgrado questo, la clinica e l'esperienza con le persone fa emergere questo dato sconcertante: i fattori interni, psicologici, hanno un peso determinante se non addirittura scatenante in moltissime malattie.


Per fare un esempio: essere esposti ad un virus - andando a trovare un amico influenzato - non comporta necessarimente contrarre l'influenza. Viceversa non sempre si è stati esposti al freddo per essersi buscati un bel raffreddore. Ma allora cos'è che veramente fa insorgere una malattia? Molti autori sono convinti che l'etiologia di una malattia sia un insieme di fattori interni ed esterni. Un bambino allergico al pelo di gatto si trova ad accarezzare un micio, ma contemporaneamente il suo vissuto interiore è disponibile ad accettare la malattia: ecco allora comparire la reazione allergica. Quest'ultima non sarebbe emersa (malgrado il bambino sia costituzionalmente allergico) se uno dei due fattori non fosse stato contemporaneamente presente: il micio e la disposizione interna. Fin qui gli studi vicini alla medicina psicosomatica che sta avendo numerosi riscontri scientifici e sta aprendo nuovi ed affascinanti filoni di ricerca.


Tuttavia l'affermazione che ancora non trova "pezze di appoggio" scientifiche è che tutte (o la maggior parte) delle malattie hanno origine prima di tutto nella psiche e nell'anima delle persone. Già alla fine dell'800 la pensava così Edward Bach, il famoso medico inglese scopritore dei 38 fiori che diedero vita alla Floriterapia. La sua convinzione era che la malattia insorge quando lo stato d'animo della persona è turbato da un'emozione negativa. Quello che va curato - diceva Bach - non è solo la gastrite, ma la rabbia, l'intolleranza, l'invidia, l'odio, la gelosia, l'acredine che fanno insorgere la gastrite. Sicuramente nello stomaco di un malato di gastrite vivono colonie di Helicopter Pylori, ma esse hanno potuto attecchire e proliferare solo perchè l'animo della persona era appesantito da stati d'animo negativi, da inconsci sensi di colpa, da rabbie inespresse, da un'incapacità cronica di amarsi.


E qui tocchiamo un punto importantissimo: la capacità di amarsi, di accettarsi per quello che si è e non per quello che si vorrebbe essere o avere. Louise Hay afferma in più occasioni che se attendiamo di avere una casa più grande, o un lavoro migliore per cominicare ad amarci, vuol dire che non abbiamo capito nulla del nostro stato di salute, nè di ciò che veramente costituisce la qualità della nostra vita. Ogni pensiero presente determina la nostra vita futura: l'opinione che oggi abbiamo di noi stessi influenza la realtà al punto tale che facilmente ci accadranno le cose che abbiamo pensato. Attenzione: non sto parlando del pensiero magico o animistico, secondo il quale basta pensare ad un oggetto o un evento perchè l'oggetto compaia o l'evento si avveri.


Dico invece che se nel nostro inconscio siamo convinti di non essere all'altezza, di non meritare nulla, di essere copevoli di qualcosa, o di essere arrabbiati per qualcosa, facilmente anche all'esterno andremo a capitare in situazioni, circostanze che avvereranno ciò che incosciamente ci portiamo dentro. Si tratta della conosciuta profezia che si autoavvera, secondo la quale le convinzioni interiori - spesso inconsce - influenzano concretamente la nostra vita. Se un persona - ad esempio - è continuamente convinta di essere criticata o perseguitata, facilmente si troverà in situazioni in cui qualcuno realmente la criticherà. In altre parole, tutti i nostri personaggi interiori, presto o tardi trovano espressione in persone reali, le quali si comporteranno esattamente come noi li viviamo internamente.


Il significato della malattia allora va ricercato ad un primo livello sicuramente nei batteri e nelle cause organiche, ma ad un secondo livello anche nelle emozioni.


Ma se le emozioni fanno parte del nostro bagaglio inconscio, basterebbe fare emergere dall'inconscio tali emozioni per non ammalarsi più? Assolutamente no! Noi abbiamo bisogno della malattia: esattamente come abbiamo bisogno di un buono stato di salute. Abbiamo bisogno della malattia perchè senza di essa non potremmo fare quelle trasformazioni che il nostro progetto esistenziale ci spinge a fare. Questo è il terzo livello, quello appunto esistenziale postulato da Antonio Mercurio, senza il quale la malattia non avrebbe significato e non può essere spiegata. Naturalmente questo non significa che per seguire il nostro progetto sia necessario ammalarsi: tuttavia spesso la malattia è l'espressione di una cattiva comunicazione interiore tra il nostro Io psichico e il nostro Sè.


Tutti noi desideriamo raggiungere quegli obiettivi che riteniamo desiderabili: un'autonomia finanziaria, una compagna/o per la vita, qualche figlio, una casa comoda ed accogliente, ecc. Ma quanti di noi sono disponibili a fare i mutamenti interiori necessari per realizzare tutto ciò? Ognuno di questi obiettivi rappresenta un passo fondamentale nella storia evolutiva delle persone: significa abbandonare vecchie abitudini, modi di pensare obsoleti, significa morire a vecchie modalità di relazione per passare ad una nuova vita. Ognuno di questi obiettivi rappresenta una trasformazione profonda: rappresenta una morte ed una rinascita. Quando nel corso della vita di una persona, un determinato passaggio evolutivo è maturo, è pronto per essere oltrepassato, l'individuo deve attraversare una trasformazione profonda, a volte dolorosa: una morte. Tutti vogliamo crescere ed evolverci, ma chi di noi - per questo - accetta volentieri di morire? Nessuno! Ecco perchè nel nostro corpo, nella nostra psiche e nel nostro spirito insorge un conflitto: crescere o non crescere? Lo spirito dice saggiamente che è ora di nascere, la psiche non ne vuole sapere e il corpo ne fa le spese.


Prendiamo un caso concreto. Giovanni, un giovane di 30 anni, laureato, una buona carriera di funzionario in una società di informatica, soffre di cefalea cronica. Ha provato molti farmaci, di cui alcuni analgesici molto potenti che sono in grado di dargli sollievo, ma che cominciano a disturbare il fegato a causa della sempre maggiore dipendenza dal farmaco stesso e quindi delle maggiori dosi che è costretto ad ingerire. Quando si rivolge allo psicologo dichiara di non essere molto fiducioso nei trattamenti psicologici, ma è stato consigliato in tal senso da alcuni amici e dal suo medico. Dopo qualche seduta, l'uomo afferma di essere l'ultimo di 3 fratelli e di vivere con la madre vedova. L'idea di vivere da solo non lo interessa: la madre cucina, pulisce, lava la sua biancheria, si occupa dei conti di casa, mentre lui ha a disposione una grande camera. Si sente felice perchè lì può fare quello che vuole: portare gli amici, chiudersi a chiave con la sua fidanzata, ascoltare musica fino a tardi, ecc.


Tutto sarebbe perfetto, se non ci fosse questo malaugurato e cronico mal di testa a rovinare la festa. Giovanni non immagina che la cefalea sta cercando di comunicargli qualcosa: il suo unico interesse è addormentarla con una massiccia dose di Novalgina. Dopo quasi un anno di lavoro nelle sedute, Giovanni ha un'altra fidanzata e si appresta a trovare una casa per andarci a vivere assieme. La cefalea si fa più forte e pungente, ma già da tempo ha lasciato ampi spazi di tranquillità. E' perplesso perchè con la madre aveva tutto quello che desiderava, mentre nella nuova casa dovrà assumersi tante nuove responsabilità a cui non è abituato. Man mano che Giovanni accetta di seguire il suo progetto con la nuova fidanzata e di assumersi il dolore e i sensi di colpa che comporta il separarsi dalla madre, la cefalea è diventata più leggera: Giovanni comincia a non prendere più l'analgesico anche durante i sempre più rari attacchi ed ha imparato a massaggiarsi la nuca e il volto.


Dopo ulteriori 6 mesi, Giovanni vive con la sua donna in un appartamento in centro, la cefalea è scomparsa e la terapia si conclude. Ad una visita di controllo programmata, Giovanni non ha avuto alcun attacco acuto: solo una piccola emcrania dopo la visita in ospedale alla madre che si era slogata una caviglia, subito scomparsa senza alcun farmaco.


Finalmente Giovanni aveva imparato ad ascoltare il messaggio della sua malattia. L'azione continuata dell'analgesico reprimeva oltre al sintomo anche il significato positivo che questo aveva. Se Giovanni non avesse accettato di vivere il vero dolore, non quello della cefalea ma quello ben più profondo della separazione dalla madre, l'emozione non sarebbe emersa e il corpo avrebbe continuato a soffrire.


Solo il nostro Sè - la nostra parte spirituale - è in grado di comunicarci la trasformazione esistenziale che la vita ci chiede di fare; la nostra parte psichica insegue costantemente il piacere (perchè andar via dalla casa materna: si sta così bene? Perchè affrontare i sensi di colpa di lasciare sola una madre vedova? Perchè affrontare il dolore della separazione? Perchè affrontare questa morte?); e il corpo con il suo stato di salute diventa la pagina su cui siamo liberi di leggere o meno il nostro cammino evolutivo in armonia con le leggi della vita.

(di Paola Capriani)

 
 
 

Il pensiero orientale

Post n°1421 pubblicato il 07 Febbraio 2012 da 22k
 

(Non uscendo dalla porta si conosce il mondo. Non guardando dalla finestra si scorge la via del cielo. LAO-TZU)

Nel corso della storia si è constatato che la mente dell'uomo è capace di due tipi di conoscenza, la prima modalità è quella razionale tenuta in grande considerazione dall'occidente, la seconda è quell'intuitiva che in genere è esattamente l'opposto, ed è confacente all'atteggiamento orientale. La conoscenza razionale appartiene al campo della scienza e dell'intelletto, la cui funzione è quella di analizzare, discriminare, dividere, confrontare, misurare e ordinare in categorie.

La conoscenza razionale è un sistema di concetti astratti e di simboli, in questo modo si considera l'ambiente naturale come se fosse costituito da parti separate, e si costruisce una mappa intellettuale della realtà, nella quale le cose sono ridotte ai loro contorni. Il pensiero orientale e più generalmente il pensiero mistico, forniscono alle teorie della scienza contemporanea un importante e coerente riferimento filosofico: una concezione del mondo nella quale i due temi fondamentali sono l'unità e l'interdipendenza di tutti i fenomeni, e considera l'uomo come parte integrante di questo sistema. Ciò che interessa ai mistici orientali è la ricerca di una esperienza diretta della realtà, che trascenda non solo il pensiero intellettuale, ma anche la percezione sensoriale. La conoscenza che deriva da un'esperienza di questo tipo viene chiamata dai buddisti "conoscenza assoluta" perché non si basa su discriminazioni, astrazioni, e classificazioni dell'intelletto, le quali sono sempre relative e approssimate. Essa è come dicono i Buddisti, l'esperienza diretta dell'essenza assoluta, indifferenziata, indivisa, indeterminata.

La conoscenza assoluta è quindi un'esperienza della realtà totalmente non intellettuale, un'esperienza che nasce da uno stato di coscienza non ordinario, che può essere chiamato uno stato meditativo o mistico. E' la realtà della vita del Sé che vive solo così com'è, la nuda esperienza della vita (quel soltanto essere vivo ora). Il Sé non è superficiale è la pienezza della gioia. Essere consapevoli del Sé significa essere gioiosi. "Cosa fa un Buddha sotto l'albero del Bodhi? Non fa nulla. Si limita ad essere". Egli è colmo di un'insondabile gioia, perché ora non rimane nulla da raggiungere. Nel proprio essere si scopre che qualsiasi cosa degna di essere raggiunta esiste già. Il semplice accadere della vita, l'espirare e l'inspirare, il semplice pulsare della vita, è beatitudine. Non ha nulla a cui pensare, non pensa alla famiglia, né pensa al futuro, è semplicemente immerso nella beatitudine, il giusto modo di essere, non vi è passato né futuro.

Non sta andando da nessuna parte, il cuore batte, il respiro entra ed esce il sangue circola semplicemente esiste, tutto è vivo e pulsante. Un'energia priva di scopo che fluisce senza meta, che fluisce ovunque ma che non va da nessuna parte. Fluisce verso il nulla. L'estasi non è una meta. E' qui e ora, proprio nel movimento, è felice di per sé, proprio nella pulsazione dell'essere vivo. Lo zen che ebbe origine in seno al Buddhismo ma fu fortemente influenzato dal Taoismo, si vanta di essere senza parole, senza spiegazioni, senza istruzioni, senza conoscenza. Esso si concentra quasi interamente sull'esperienza di illuminazione (satori), ed essa non consiste nel fare qualcosa o nell'ottenere qualcosa, ma consiste semplicemente nel riconoscere quello che è sempre esistito di fatto, e si interessa solo marginalmente di interpretare questa esperienza.

A causa dell'educazione e del condizionamento ambientale il funzionamento delle nostre menti è legato a un sistema particolare di logica formato da concetti, e ogni cosa viene considerata attraverso un sistema di opposti: buono cattivo, bianco o nero, giusto o errato. A causa di questo modo di giudicare non possiamo raggiungere le unità attraverso la molteplicità. Lo scopo dello Zen è quello di andare al di là dei legami della dualità, rinunciare a tutti i concetti creati dall'intelletto e vedere le cose come realmente sono, per mezzo della introspezione intuitiva. Poiché il flusso della mente non può essere fermato mediante uno sforzo egocentrico di volontà, quello che si richiede momento per momento è la osservazione continua delle dualità, della tendenza continua del nostro io, delle tendenze che costituiscono i nostri pensieri, i nostri sentimenti, il nostro corpo.

In tutto il misticismo orientale, l'intelletto è visto soltanto come un mezzo per aprire la strada all'esperienza mistica diretta, che i Buddhisti chiamano "risveglio". Lo zen insegna che il risveglio (satori) attraverso la meditazione è al termine della attesa-attenzione, che deve essere una vigilanza senza oggetto. Non c'è nulla da attendere infatti, ciò che succede succede. Non esistono leggi regole e scopi, né in natura né nei pensieri. Riacquistare la spontaneità della nostra natura originaria, la natura di Budda di tutte le cose, richiede un lungo percorso e costituisce una grande conquista spirituale. Attraverso la meditazione si può fare l'esperienza di sentire la nostra natura originaria.

Il programma basico dello Zen è quello di calmare la mente e il corpo, in un primo tempo, mediante la pratica della meditazione, con lo scopo di arrivare ad una visione interiore. Zazen (meditazione seduta) seduti con le gambe incrociate, la schiena dritta, la respirazione calma, il corpo e lo spirito unificati, senza spirito avido. Girando il proprio sguardo verso l'interno, ciascuno depone naturalmente i limiti dell'egoismo e fa direttamente l'esperienza del risveglio alla sua vera natura. La base della filosofia Zen è il silenzio, è il Ku (il silenzio totale) che è la condizione originaria della natura umana. Praticare aldilà di ogni oggetto è lo zazen più elevato; soltanto sedersi senza scopo. Durante zazen non si pensa anche se il subconscio si manifesta, si lascia passare, non si ferma il pensiero, non si trattiene. In questo modo la coscienza diventa illimitata, infinita.

E' la coscienza cosmica (la cosmicità è la natura intrinseca della mente). Il metodo Zen, questo tipo di approccio alla realtà, è un metodo prescentifico, o metascentifico, o perfino antiscentifico. In questo modo lo Zen si immerge nella fonte della creatività e beve ad essa tutta la vita che contiene. Tale fonte è l'inconscio dello Zen. L'inconscio è fuori dall'ambito della ricerca scientifica, l'inconscio si può solo sentire, e non nel senso comune del termine, pertanto bisogna imparare a padroneggiare le vie dell'inconscio e la saggezza sconosciuta del Sé. Ciò che esiste nel centro interiore è aldilà di ogni spiegazione. Viceversa la scienza inizia là dove comincia la spiegazione, all'esterno, è una ricerca sulla circonferenza, nell'ambiente dell'uomo. Di solito la consapevolezza scientifica è oggettiva: conosci gli altri, conosci il mondo, conosci le stelle.

Nel momento però in cui la consapevolezza si rivolge all'interno e inizia a conoscere se stessa, in altre parole nel momento in cui la consapevolezza diventa oggetto della propria conoscenza l'illuminazione fiorisce. D'ora in poi la consapevolezza sarà il padrone e l'incosapevolezza il servitore. La porta della verità non è né il centro né la circonferenza che sono in realtà due facce di una sola e unica verità, ma uno stato in cui colui che vede e la cosa vista, l'osservatore e la cosa osservata, si uniscono. Solo l'uomo libero da opinioni e da idee preconcette può vedere l'unità e l'integrità della vita.

Scoprire il proprio inconscio non è un atto intellettuale, ma un'esperienza affettiva che non può essere spiegata a parole. L'intelletto in ultima analisi, è superficiale, è qualcosa che fluttua alla superficie della coscienza, e la superficie di deve spaccare perché possa raggiungere l'inconscio cosmico, lo spirito logico deve dissolversi progressivamente per consentire al pensiero translogico ed unificatore dello Zen di emergere. Una volta che tale livello sia raggiunto, la comune coscienza viene pervasa dal flusso dell'inconscio, è questo appunto il momento in cui lo spirito finito comprende di avere le proprie radici nell'infinito. La presa immediata e piena sul mondo è proprio la finalità dello Zen, è l'autentico risveglio (farsi consapevoli) che si trova alla radice insieme del pensiero creativo intellettuale, e dell'immediata apprensione intuitiva, equivale al superamento della contaminazione affettiva e della manipolazione cerebrale; equivale alla scomparsa della polarità conscio e inconscio. Significa non avere nulla ed essere.

Il seguace Zen consegue qui il suo oggetto perché è giunto a destinazione; egli è adesso pervenuto nel cuore delle dualità include in sé tutto ciò che vi è di intellettuale, di affettivo o creativo in modo indiscriminato, indifferenziato o meglio assoluto. Le sue attività non sono cambiate, ciò che è cambiato è la sua soggettività. La mia esperienza personale della consapevolezza nella vita di tutti i giorni, è quella di perderla facilmente, continuamente, in ogni momento. Mi capita a volte di perdermi nelle reazioni, o mi isolo da ciò che accade. Ogni giorno infinite volte perdo la consapevolezza, spesso cado vittima della "tigre della mente". Purtroppo le pressioni, le tensioni e la frenesia della vita non sono certo condizioni ideali per la consapevolezza. Tuttavia non appena riconosco di averla smarrita posso ricominciare d'accapo.

Si affaccia così un Sé semplice basato sul respiro, capace di arrendersi al momento presente. Ecco quanto voglio sottolineare come esperienza personale; nel momento in cui riconosco di aver smarrito la consapevolezza, l'ho già riconquistata, perché quel riconoscimento stesso è una funzione della consapevolezza. La consapevolezza infatti non è qualcosa di astratto o lontano: per ognuno di noi prende vita nel momento in cui iniziamo, e ogni volta che ricominciamo. Essere consapevoli, svegli, ricordarsi di Sé, osservare, non farsi travolgere dal chiacchiericcio della mente, questo è il potere della consapevolezza, essere attenti e presenti con equilibrio, serenità e comprensione, sia che l'esperienza sia piacevole, spiacevole o neutra. Restare un semplice testimone indifferente.

Quando siamo presenti osserviamo con la visione meditativa, con un'attenzione profonda e penetrante caratterizzata dall'assenza di superficialità, e sappiamo incontrare direttamente ciò che accade nel nostro mondo (la nuda realtà), con apertura, sensibilità, lucidità. Quando accendiamo la luce dell'attenzione saggia, possiamo vedere con chiarezza, comprendiamo che non dobbiamo fare neppure un passo in nessuna direzione, per ritrovare il nostro posto dove possiamo essere a nostro agio; è proprio qui, dove ci troviamo ora. Di solito manchiamo d'intuizione e di una chiara visione perché siamo prigionieri dei nostri condizionamenti. La realtà è già presente in noi ma per la nostra cecità essa ci sfugge completamente. In un certo senso sperimentiamo qualcosa di continuo, ma siamo scarsamente in contatto con le nostre esperienze, solo a metà svegli di fronte alla realtà.

In questo senso possiamo dire che non sperimentiamo veramente. Per la Gestalt la vera esperienza è terapeutica o correttiva di per sé, è quel punto al di là delle tecniche come realtà-consapevolezza-responsabilità. Un momento di veglia un momento di contatto con la realtà è quello in cui i fantasmi dei nostri sogni a occhi aperti possono venire riconosciuti per quello che sono, è un momento di addestramento all'esperienza, attraverso il quale possiamo imparare ad esempio, che non c'è nulla da temere, o che la soddisfazione di essere vivi supera la sofferenza o la perdita che avremmo voluto evitare col nostro dormiveglia. Colui che ha sviluppato la stimolazione dall'interno, può ricongiungersi così ai suoi sensi ed entrare in contatto con la propria esperienza, ridestandosi e tornando alla realtà nuda della vita che è "il Sé in Sé per Sé", il Sé che fa se stesso in Sé stesso, qualunque cosa capiti.

Questa è la vera dimensione spirituale, quel punto in cui non si è più diretti dall'io, ma da una coscienza non dualista, non c'è più nessuno che pensa: "tu giungi senza alcun concetto di giungere e vedi senza alcun concetto di vedere". Finche non avremo superato il dualismo, non conosceremo la libertà definitiva (l'ultima realtà). Realizzare questa profonda comprensione di sé stessi è la fonte della vera saggezza, l'autentica saggezza risiede nell'osservazione e nella conoscenza di se stessi. Il punto di vista della terapia gestaltica su questo come su altri temi è che la consapevolezza è abbastanza, tenendo bene a mente la distinzione tra essere aperti all'esperienza e fabbricare esperienze. Infatti le azioni che derivano dall'esperienza e la esprimono non sono tese a produrre un effetto.

Le azioni che affermano la vita piuttosto che negarla, che rivelano piuttosto che nascondere, che esprimono piuttosto che reprimere, sono in un certo senso non azioni. L'azione infatti contrariamente alla manipolazione (di se stessi o degli altri), viene sperimentata come fluente dall'interno invece che compiuta per andare incontro a modelli estrinseci. Per finire voglio dire che la consapevolezza è il nostro vero Sé è ciò che siamo. Perciò in un certo senso non c'è bisogno di sviluppare la consapevolezza: basta rendersi conto di come la blocchiamo con pensieri, fantasie, opinioni e giudizi.

Stare semplicemente nell'istante fare una cosa alla volta e consegnarci totalmente a essa è il modo più efficiente di vivere, è essere semplicemente qui, vivere la nostra vita. "Niente di speciale". La vita è così com'è, il lavoro è così com'è, il mondo è così com'è, e forse, se sappiamo accettarlo così com'è, ci sveglieremo al suo significato.

In ogni situazione, che gli altri ci osservino o no, dovremmo essere consapevoli di ciò che avviene in noi e stare in guardia contro la trascuratezza e la disattenzione. Così non nuoceremo agli altri. La meta è sviluppare gradualmente la consapevolezza, e attivare quella compassione e gentilezza amorevole che già sono in noi. E questo è alla portata di tutti.
Akong Tulku Rinpoche


(di Francesco Ioppol)

 
 
 

La sindrome dell'abbandonato

Post n°1420 pubblicato il 07 Febbraio 2012 da 22k
 

Secondo un'indagine dell'Univesità degli Studi di Roma "La Sapienza", quasi il 90% delle relazioni d'amore si conclude per iniziativa della donna.
E ogni volta che sento che un uomo è stato lasciato, abbandonato, tradito dalla sua compagna, mi aspetto sempre di sentire e di rivedere sempre la stessa scena.

La descrizione che Lui fa dell'intera faccenda è quantomai standardizzata e sempra ripetere una procedura tacitamente approvata dai partner. Lui non capisce come mai sia potuto accadere una cosa del genere; non se lo aspettava; non credeva che Lei sarebbe stata capace di una cosa simile; Lui - in fondo - l'amava ancora; ecc...

Raramente sono riuscito ad osservare e ascoltare un uomo che - sin dall'inizio della fine - sapesse assumersi fino in fondo tutte le proprie responsabilità. Frequentemente si passa dalla rimozione, alla negazione completa della propria responsabilità, fino al vittimismo più aperto nei commenti "da spogliatoio", del tipo: le donne sono tutte ...
Mi riesce davvero difficile comprendere la ragione più profonda che spinge l'uomo a delegare così frequentemente il peso (e "la colpa") della fine del rapporto alla donna (e naturalmente, perchè le donne così frequentemnte se la assumono).

La risposta che sento di darmi è che questa donna idealizzata (la principessa) che vive nell'immaginario maschile non ha un equilibrato corrispettivo nel "principe azzurro", ma è molto più radicata ed alimentata.

La tradizione culturale fondata sui valori della virilità e del "machismo", per quanto anacronistica, sembra essere sostenuta più che dagli uomini stessi che ne sono in realtà vittime, dalle loro madri che - in fondo in fondo - forse hanno sempre desiderato educare il loro figlio a questi valori. Naturalmente non va dimenticata la responsabilità del figlio che poi accetta questo progetto di identità e lo persegue, integralmente o solo parzialmente.

Allora l'uomo sembra avere solo la responsabilità biologica di conquistare la donna, di sedurla, di corteggiarla fino a giungere alla penetrazione del coito. Completato il processo di "conquista", sembra quasi che quella donna ormai "appartenga" defintivamente all'uomo, e una serie di ripetuti incontri sessuali possono confermare l'avvenuta conquista.

Questo scenario quindi sembra concludersi con il coito: e poi?
Chi ha la responsabilità di costruire il rapporto? Chi la forza, il coraggio, l'impegno per mantenerlo e farlo crescere?
Chi investe la propria energia per creare una relazione armoniosa, amorevole ed appagante?
Sicuramente entrambi i partner, ma in quale misura? Ho la sensazione che questo investimento non sia sempre equilibrato.

Allora la de-responsabilizzazione dell'uomo non giunge solo nel momento in cui uno dei due prende la decisione di separarsi, ma probabilmente comincia molto prima.
Ho idea che la "sindrome dell'abbandonato" sarebbe molto meno diffusa se ci si interrogasse un pò prima sulla qualità del rapporto che offriamo alle nostre compagne, mogli e fidanzate; se ci si interrogasse un pò di più sulla quantità di energia che mettiamo a disposizione non solo per fare l'amore e qualche regalino, ma per sostenere quotidianamente i nostri rapporti; sul modo in cui sappiamo affrontare i momenti di paura, di angoscia, di salto esistenziale nostro e del nostro partner; se ci interrogasse infine su quale sia veramente il nostro progetto di coppia, e se ne abbiamo mai sognato uno che possa veramente realizzarsi su questa terra...

(di Cic)


 
 
 

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