Luoghi Perduti
l'introvabile dove...tra sensazione e coscienza
Giovedì Santo Divisa in due, avvolta dai lini in un cesto, S’abbuiano i colli, fra i castagni e gli ulivi Il pero, il loto, il tiglio, l’ippocastano, Eccidi a Gaza, tregua di un giorno in Rhodesia, Scende il Cristo straziato dentro gli inferni Orfeo salì spossato i cupi viadotti (da In margine e altro, Oedipus, 2011) |
Post n°52 pubblicato il 25 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
Ti ho disegnato un seggio E non posso risponderti E giustamente tu ora mostri i denti Dal cuore spicco i semi al girasole Così mi segui. Il sogno è un Librocielo |
Post n°51 pubblicato il 25 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
Parlare come nascere Voce che inseguo da più notti invano Parlare come Parlare come Domani, domani, quando? |
La fine del mondo il suo corpo leggero Il suo corpo leggero * Vicino al ghiaccio è un errore * In una posizione delimitata * È la fine del mondo che respira * È solo una colomba (traduzione di Alfredo Riponi) La fin du monde son corps léger Son corps léger * Près de la glace c’est une erreur * Dans une position délimitée * Est-ce la fin du monde qui respire * Ce n’est qu’une colombe
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Post n°49 pubblicato il 25 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
Chiamiamo mani negative le pitture di mani trovate nelle grotte magdaleniane dell’Europa Sud-Atlantica. L’impronta di queste mani – completamente aperte sulla pietra – era impregnata di colore. Di blu e di nero più di frequente. A volte di rosso. Nessuna spiegazione è stata trovata per questa pratica Davanti all’oceano queste mani Blu E nere Del blu dell’acqua Del nero della notte L’uomo è venuto solo nella grotta Davanti all’oceano Tutte le mani hanno la stessa grandezza L’uomo solo nella grotta ha guardato E ha gridato Tu che hai un nome tu che hai un’identità Queste mani Impresse Aperte squartate sul granito grigio Affinché qualcuno le veda Sono quello che chiama Sono quello che chiamava che gridava trenta Ti amo Grido che voglio amarti, ti amo Amerei chiunque senta che grido Sulla terra vuota resteranno queste mani sulla parete di Insostenibile Nessuno sentirà più Ne vedrà Trenta mila anni Quelle mani, nere La luce rifranta sul mare fa vibrare Sono qualcuno sono quello che chiamava che Il desiderio Lui ha guardato l’immensità delle cose nel fragore Su di lui le foreste d’Europa, Lui si tiene al centro della pietra Tu che hai un nome tu che hai un’identità Occorreva discendere la scogliera Il vento soffia dal continente respinge Le onde lottano contro il vento Avanzano Tutto si schianta Ti amo oltre te Amerei chiunque mi senta gridare che ti Trentamila anni Chiamo Chiamo quella che mi risponderà Voglio amarti ti amo Da trentamila anni grido davanti al mare lo Spettro bianco Sono colui che gridava di amarti, di amare te [traduzione di Rita R. Florit e Alfredo Riponi] On appelle mains négatives les peintures de mains trouvées dans les grottes magdaléniennes de l´Europe Sud-Atlantique. Le contour de ces mains – posées grandes ouvertes sur la pierre – était enduit de couleur. Le plus souvent de bleu, de noir. Parfois de rouge. Aucune explication n´a été trouvée à cette pratique. Devant l´océan Bleues Et noires Du bleu de l´eau Du noir de la nuit L´homme est venu seul dans la grotte L´homme seul dans la grotte a regardé Et il a crié Toi qui es nommée toi qui es douée d´identité je Ces mains Plates Posées écartelées sur le granit gris Pour que quelqu´un les ait vues Je suis celui qui appelle Je suis celui qui appelait qui criait il y a trente Je t´aime Je crie que je veux t´aimer, je t´aime J´aimerai quiconque entendra que je crie Sur la terre vide resteront ces mains sur la paroi de Insoutenable Personne n´entendra plus Ne verra Trente mille ans Ces mains-là, noires La réfraction de la lumière sur la mer fait frémir Je suis quelqu´un je suis celui qui appelait qui Le désir Il a regardé l´immensité des choses dans le fracas Au-dessus de lui les forêts d´Europe, Il se tient au centre de la pierre Toi qui es nommée toi qui es douée d´identité je Il fallait descendre la falaise Le vent souffle du continent il repousse Les vagues luttent contre le vent Elles avancent Tout s´écrase Je t´aime plus loin que toi J´aimerais quiconque entendra que je crie que je Trente mille ans J´appelle J´appelle celui qui me répondra Je veux t´aimer je t´aime Depuis trente mille ans je crie devant la mer le Spectre blanc Je suis celui qui criait qu´il t´aimait, toi |
Post n°48 pubblicato il 24 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
Strano pianeta e strana la gente che lo abita. Sottostanno al tempo, ma non vogliono accettarlo. Hanno modi per esprimere la loro protesta. Fanno quadretti, ad esempio questo:
A un primo sguardo nulla di particolare. Si vede uno specchio d’acqua. Si vede una delle sue sponde. Si vede una barchetta che s’affatica. Si vede un ponte sull’acqua e gente sul ponte. La gente affretta visibilmente il passo. perché da una nuvola scura la pioggia ha appena cominciato a scrosciare.
Il fatto è che poi non accade nulla. La nuvola non muta colore né forma. La pioggia né aumenta né smette. La barchetta naviga immobile. La gente sul ponte corre proprio là dov’era un attimo prima.
E’ difficile esimersi qui da un commento. Il quadretto non è affatto innocente. Qui il tempo è stato fermato. Non si è più tenuto conto delle sue leggi. Lo si è privato dell’influsso sul corso degli eventi. Lo si è ignorato e offeso.
A causa d’un ribelle, un tale Hiroshige Utagawa (un essere che del resto da un pezzo, e come è giusto, è scomparso), il tempo è inciampato e caduto. Forse non è che una burla innocua, uno scherzo della portata di solo qualche galassia, tuttavia a ogni buon conto aggiungiamo quanto segue:
Qui è bon ton apprezzare molto questo quadretto, ammirarlo e commuoversene da generazioni.
Per alcuni non basta neanche questo. Sentono perfino il fruscio della pioggia, sentono il freddo delle gocce sul collo e sul dorso, guardano il ponte e la gente come se là vedessero se stessi, in quella stessa corsa che non finisce mai per una strada senza fine, sempre da percorrere, e credono nella loro arroganza che sia davvero così. -Tratta da Wisława Szymborska. Opere, a cura di Pietro Marchesani- |
Varchi del rosso di Rita R. Florit
Nel maggio arioso avrei pensato un cielo allontanato dal biancore surfactante, in interiore celeste tessuto, in cerca di una quieta via di bruchi, di insett’assalto ai pollini dorati, d’onnipresente cinguettar dell’aria in disperati morsi al cuore delle attese.
è il senso vellutato delle rose muscose e variamente inclini a spudorata offerta ai varchi più funamboli del rosso; fiammanti più che roghi circoscritti, esili nel levarsi fil di fumo d’antichi cori funebri e cinerei…
in folto percorribile carminio, rorido, mai sazio di lucore in lembi e stami, in sghembe arricciature a risaltare nell’umido lunare delle notti.
Avrei deciso che sommesse crespe volute districarsi potessero dai nidi del colore più accanito, guizzare di sinaptiche scintille a scatenar vitalità ebbre e stillanti, dai vinti artigliassilli liberate.
Che acuminate dalie m’attirassero nei vuoti vortici di ben setosi aculei, quasi metalliche scarlatte lame non supposi; che gonfie ortensie roteassero in stelle piluccanti oltre i giardini, estese in solitudini boschive non sapevo; né che cerulei sentori oltremare travalicando i muri ad occidente stabilissero di lì abitare, e in rosso trasmutarsi.
Dalle serali inclinazioni frangenti sillabai con cautela i riflessi… Appresi che il segreto delle porpore è il rintanarsi in pozze di clamori, in mormoranti buche e avvallamenti, sonorità minori e accattivanti.
Strariparono infine i miei passati intendimenti ché i varchi sanguigni dalle tue proprie vene emanano. Precipitarono nei baratri cromati del giallume, negli steli in fiato corto di calure, negli infinitesimi brillii d’ali vetrose, multicolori iridescenze inferte.
Preludio di amnistie autunnali mi rifugiai in scrigni vermigli melograni. La mia dimora estiva s’instellò cerata, poi carta velina gonna papavera, mattiniero squillo di tromba in sordina, q uasi asfissia d’arancio furente.
Nel latte e sangue dei gigli marini rinvenni, in candore di garze riposati occhi straziati, polsi e caviglie sprigionati, dagli scoscesi dirupi immersavvolta in sonno tiepido m’arresi.
d’insinuar varchi del rosa… addirittura…
Voce e immagine di Enrico Frattaroli Calligrafie di Elizabeth Frolet Riprese Angelo Melpignano Montaggio Claudia D'Elia |
Nulla è cambiato.
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La luz caída de la noche Alejandra Pizarnik
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Un giorno Jan Skàcel |
Post n°43 pubblicato il 24 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
da "Libertà al crepuscolo" - Un secolo di poesia - edit. Corriere della Sera |
Post n°42 pubblicato il 23 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
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Post n°40 pubblicato il 13 Gennaio 2013 da Ufficioluoghiperduti
Vado in un prato. con i mondi del sogno. Se io cammino è perchè Laureano Albán tratto dal libro "Suma de claridades", 1989- |
“Disegno della tua voce nella riva del sogno, scogliere di cuscini con quest’odore di costa vicina, quando gli animali buttati nella cala, le creature di sentinaodorano l’erba e per i ponti si arrampicaun tremito di pelle e di furioso godimento.Allora mi capita di non conoscerti, aprire l’occhio di questa lampadaa cui sfuggi coprendoti il viso con i capelli, ti guardo e non so piùse ancora una volta affiori dalla nottecon il disegno esatto di quest’altra notte della tua pelle,con il ventre che palpita la sua respirazione soaveabbandonata appena nella nostra tiepida spiaggiada un leggero colpo di risacca.Ti riconosco, salgo per il profumo dei tuoi capellifino a questa voce che nuovamente mi sollecita, contempliamonello stesso tempo la doppia isola sulla quale siamonaufraghi e paesaggio, piede e arena, anche tu mi sollevi dal nullacon il tuo sguardo errabondo sul mio petto sul mio sesso, la carezza che inventa nella mia cintura il suo galoppo di puledri.Nella luce sei ombra e io sono luce, sono la luce della tua ombrae tu gettata nelle alghe fingi l’ombra del mio corpo, quando la sua angusta fronte ferisce le pietre e proiettacome un fragore di voragine all’altro lato, un territorioche inutilmente investe e brama.Ombra della mia luce, come raggiungerti, come inguainare questo balenio nella tua notte!Allora c’è un istante segretoin cui gli occhi cercano negli occhi un volo di gabbiani, qualcosa che sia orbita e richiamo, una consacrazione e un labirinto di pipistrelli, ciò che sorgeva nell’oscurità come un gemere a tentoni,una pelle che si raffreddava e scendeva, un ritmo rotto, si muta in convivenza, parola d’ordine, strappodel vento che si infrange contro la vela bianca,il grido della vedetta ci esalta, corriamo insieme fino a che la crestadell’onda zenitale ci travolgein una interminabile cerimonia di spume, e ricominciano i naufragi, il lento nuoto verso le spiagge, il sogno bocconi fra meduse morte e i cristalli di saledove arde il mondo.”Julio Cortazar
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Post n°38 pubblicato il 28 Settembre 2012 da Ufficioluoghiperduti
No / non allora c’è il no e c’è il non tipo dire no fare no che è diverso da non fare e non dire ma poi c’è il se il se ma il ma forse poi c’è la piega tra le parole che diventa piaga la parola come la mollica di pane che se la guardi da vicino è piena di buchi e allora dentro ci trovi il pieno e il vuoto è come che mica puoi toccare le cose perché le cose non ci sono e se ci sono è come se non ci sono oppure è no semplicemente ma se dico non non è mica come dire no se guardo un albero che non ci sono le foglie allora non dico le foglie no dico non ci sono le foglie dico non mica no dico perché se io vedo le foglie che non ci sono allora un po’ ci sono dico solo non mica no l’albero di cachi si chiama caco perché è giusto così e io avevo o forse ce l’ho ancora un albero di cachi al lago non gli ho mai dato un nome no mica gliel’ho dato e lui mica me l’ha detto comunque è alla casa del lago che una volta era quella dei miei nonni o forse no ma albero senza un nome non è che ha un nome no insomma quell’albero lì è un albero di cachi che è fatto proprio così è nudo coi rami secchi che sembra morto sembra vivo proprio no mica non vivo insomma piuttosto morto ma poi fa delle foglie che sembrano verdi e che sono proprio verdi io parlo dell’albero ma dico potrei anche parlare di altro tipo di questo e di quello però volevo insomma partire proprio dall’albero che sta dentro a un’aiola tipo rialzata nella casa che era dei miei nonni credo allora a un certo punto che sei al lago e piove e fa freddo ma l’albero sputa fuori tipo delle noci verdi con un bitorzolo sopra insomma è come se ti dice guarda che sono mica morto non muoio no cazzo ti ho fregato ti sembravo morto tutto secco e invece tiè sputo fuori è che mi nascondo e tu mica mi vedi è che mi vedi no l’albero dice più o meno sei un coglione questo mi dice insomma perché io avevo pensato che no e lui continuava a dirmi che non ma pensavo sei morto ma mica lo dicevo io lo guardavo e basta ma il bastardo ascoltava i cachi sono mica arancioni fanno un frutto tipo il colore della luna ma più forte ma più morbido ma più grasso ma meno rotondo ma più lucido ma solitario uguale dico insomma è un albero secco pieno di luna e pieno di lune che quasi sempre dice non mica no Giovanni Borriero è nato a Schio nel 1968. Filologo romanzo, si occupa soprattutto di lirica medievale: insegna attualmente Lingua e letteratura galega all'Università di Padova. È' presente, con le Quartine di San Francesco, nel volume Il valore del tempo nella scrittura (Fara 2011). |
Post n°37 pubblicato il 27 Settembre 2012 da Ufficioluoghiperduti
Tocco la terra, madre della mia ombra
. Sonoro il mese di aprile duole di trasparente. Ogni terra è assenza dopo la nascita. Dopo il seme ogni fiore è stella. Per questo la radice ha forma di spina o pioggia o morte che sostiene silenzi. Può scordare l’uomo il futuro o la sorte, può bruciare il tempo le pagine o il bacio, può ossidare la notte i giorni del diamante, però mai la terra e la sua fatale memoria di galoppi lontani. È un patto. E lo dico con la cenere incerta del viaggiatore sulle labbra. È il debito del mare che ci resta sulla lingua attraverso l’acqua e le sue mappe. È l’alta somiglianza della notte negli occhi che imita distanze. È il gesto d’uccello della mano lanciata. È l’albero che irrompe dai labirinti dell’anno infaticabile, certamente vivo come uno stormo. Tocco la terra. Odo piovere. I frutti dentro lei corrono come giorni planetari. Un lombrico dorato si trattiene nel palmo della mia desolazione: tra lui e questo giorno ci sono fiamme insalvabili. Attraverso vi corre un bimbo remotamente sempre chiamando le distanze. Io mi avvicino e lo nomino. Io mi avvicino e lo abbraccio. Ma lui corre per prati di lune specchianti, per boschi dove il cielo è un albero azzurro, per nebbie dove il tempo è un frutto pallido. Entra ed esce dal giorno con l’innocenza rapida del fiore nella pioggia. Qualcuno lo sta chiamando da lampade lontane. E lui corre senza sapere che non esce dall’unica terra della memoria. Che lo spazio terrestre sempre sarà il primo, inesauribile giorno convocato. Che non cambia la luce prima tra gli occhi. Solo cambiano l’ombra, il sogno e le sue spade. Che solo vive l’uomo d’amore per la terra, e la terra lo intende. Però lui continua a correre la sfera trasparente della prima sorte, verso le fonde case della luce invisibile, perché qualcuno lo sta chiamando e lui porta tra le mani un pugno di terra fino all’amato azzurro. Laureano Albán |
Post n°36 pubblicato il 24 Settembre 2012 da Ufficioluoghiperduti
'la vera alchimia risiede in questa formula: la tua memoria, i tuoi sensi, non saranno altro che alimento al tuo impulso creatore e il mondo, quando tu uscirai, che sarà divenuto? a ogni modo, nessuna delle apparenze attuali."
Dopo aver bevuto i mari ci stupisce
“Questo giorno ha ottanta mondi, la cifra è indicativa ed è questa perché piaceva al mio omonimo, ma forse ieri erano cinque e questo pomeriggio centoventi, nessuno può sapere quanti mondi ci siano nel giorno di un cronopio o di un poeta”. J. Cortàzar— Il giro del giorno in ottanta mondi-
Gabriel García Márquez raccontava sempre: “Fuentes domandò a Cortázar come, quando e per iniziativa di chi fosse stato introdotto il pianoforte nell’orchestra jazz. Era una domanda casuale e prevedeva solo una data e un nome, ma la risposta fu una lezione sorprendente che durò fino all’alba, fra enormi bicchieri di birra e hot-dog. Cortázar, che sapeva dosare bene le parole, fece una ricostruzione storica ed estetica con una competenza e una semplicità quasi incredibili, che culminò con le prime luci del giorno in un’apologia omerica di Thelonius Monk. Non parlava solo con una profonda voce da organo piena di erre mosce, ma anche con le sue mani dalle ossa grandi, espressivo come non ne ricordo altre”. Il gusto estremo per la parola punta dritto a stravolgerne il senso senza intaccarne la sostanza, come fanno i grandi del jazz, come per Lester Young in Three little words: “Quell’invenzione che rimane fedele al tema mentre lo combatte, lo strasforma e lo irida”.
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A Francisco Porrúa Mio caro Paco, ieri mattina sono arrivati i cronopios. Petulanti e maligni come sempre, hanno convinto la portinaia ad assestare dei colpi terribili sulla porta di casa, proprio nell’ora in cui io e Aurora dormivamo immersi in quella magia speciale che acquista il sonno dopo che la sveglia ha suonato e si è già sicuri che si arriverà in ufficio con un’ora di ritardo. La tua lettera, invece, è apparsa, discreta, nel pomeriggio, e si è infilata per conto suo sotto la porta. E così la festa era al completo, in casa ci sono state straordinarie aperture di bottiglie e un’allegria nella quale mancavate solo tu, Sara ed Esteban. Abbiamo maledetto minuziosamente l’oceano Atlantico, Pedro de Mendoza e «il tempo che è nemico degli amici». Ma eravamo comunque contenti, e c’erano cronopios da tutte le parti a Place du Général Beuret. Paco, questo sì che è un libro. Non un opuscolo qualsiasi, un libro vero. Uno lo prende in mano e pesa, vale di per sé, si difende. È venuto benissimo, e i difetti che potrei segnalarti senz’altro li conosci già molto meglio di me. Protesto per essere stato ridotto a «J. Cortázar» sul dorso. Che taccagno questo Minotauro. Ogni volta che guardo il libro di taglio resto a bocca aperta e mi chiedo: Chi sarà questo J. Cortázar? Suona strano, non ti pare? La colpa è mia, che non ti ho esposto la mia teoria secondo la quale i libri sono definiti malissimo a parole, e quello che chiamiamo dorso non lo è in assoluto, anzi, è il volto del libro, la sua parte più importante e più viva. Pensa che appena lo metti in una libreria, l’unica cosa che resta del libro è il mal chiamato dorso. In realtà, i libri si potrebbero pubblicare senza copertina (magari con una fascetta perché i librai possano esporli in vetrina e la gente si renda conto di che cosa si parla), allora tutto il talento dell’editore, del tipografo e dell’illustratore sarebbero concentrati sulla vera faccia del libro, ovvero il dorso. Non ti sembra una buona idea? J. Cortázar! J. Cortázar! Scelga lei l’arma che preferisce, signor Porrúa. A parte gli scherzi, l’edizione è venuta molto bene, e ti ringrazio molto. Dillo anche a Esteban. Sai, mi rendo conto finalmente che le buone azioni vengono ricompensate. Io ho difeso il minotauro quindici anni fa, e ora questa bestiola riconoscente mi pubblica, in modo ammirevole, per giunta. Ciò che la gente chiamerebbe una coincidenza, no? Sai, tutto quello che mi hai scritto su Rayuela mi ha lasciato così commosso che non voglio nemmeno provare a dartene un’idea. È successo semplicemente questo (e per me è tutto, l’unica cosa che importa davvero): la tua reazione al libro rispecchia l’esperienza stessa che ne ho avuto io. Le parole che utilizzi, «un enorme imbuto», «il buco nero di un enorme imbuto», ecco, Rayuela è esattamente questo, è ciò che ho vissuto in tutti questi anni e che ho voluto provare a raccontare – con il tragico problema che appena questo tipo di cose si dice, scatta il malinteso, tutto l’orrore del linguaggio («le cagne funeste» – le parole –) che preoccupa Morelli. Guarda, Paco, a me non importa tanto che il libro ti sembri buono – sebbene questo abbia per me un’importanza enorme, è chiaro –; ciò che realmente conta è tu sia rimasto sconcertato, «scosso», alienato e al limite, come si sente il povero Oliveira, come me quando facevo a pugni con Oliveira in ogni capitolo del libro. Ho detto ad Aurora: «Ora posso anche morire, perché là fuori c’è un uomo che ha sentito ciò che io desideravo il lettore sentisse». Il resto saranno malintesi, idiozie, elogi, la fiera di sempre. Nessuna importanza. E ciò che in fondo ho apprezzato di più è che tu abbia desiderato tirarmi il libro in testa. Perché è ovvio, Paco. Poche persone possono essere insopportabili ed esasperanti come credo di essere io in certi momenti. Lo so per certo, e mi adeguo alle conseguenze. Più avanti, se il libro sarà pubblicato, vorrò le tue critiche concrete, e so che non mi nasconderai nulla di ciò che pensi. Per ora, mi accontento dell’immenso sollievo di sapere che quattro anni di lavoro sono serviti a qualcosa. Non posso dirti nient’altro. Scrivimi uno di questi giorni, e grazie di tutto, con un grande abbraccio a Sara e un altro per te da Aurora legge da dietro la mia spalla – queste donne – e mi sfiora un orecchio con un bacio per voi. le edizioni SUR (il marchio di minimum fax dedicato alla letteratura latinoamericana)pubblicherenno le «Lettere» di Julio Cortázar, in tre volumi a cura di Giulia Zavagna: rispettivamente, lettere ad altri scrittori; lettere sul lavoro editoriale; lettere politiche. Oltre a questi tre volumi SUR pubblicherà anche il romanzo «Un tal Lucas» e il volume antologico che raccoglie tutte le sue poesie, «Salvo el crepúsculo».
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di Alessandra Pigliaru «Hai memoria di questo mondo? | Sai come si chiama questo mondo? || Tutti lo chiamano mondo, ma qual è | il suo vero nome? || Il sole, sai come si chiama il sole? | Perché non risponde mai? E l’incendio?… È già finito? | E l’acqua… Che nome ha | che nome ha? || E tu che mi chiami di notte | come mi chiami? | Ti ricordi il colore dei miei capelli?» Dal silenzio alla scelta esiste un’età propizia e congrua in cui apprendere l’esercizio del ritmo. Ricordarlo e accoglierlo mentre (ci) avanza. Il corpo della poesia si sa trasfigurare dunque in un orizzonte dirimente; non c’è più un taglio che lascia attoniti, c’è invece l’edificazione della scelta e della distinzione del tempo e dello spazio. Inna Zet Nikka e Sasa sono i protagonisti del nuovo lavoro poetico di Ida Travi. Loro dimorano la terra di Zard, sono i parlanti di una lingua sconosciuta e vicina, i Tolki, che seguono il rintocco di un tempo altro, di un’attesa a picco che li rende prossimi al circostante. Eppure quell’attesa ha l’esplorazione della pausa, di un fermarsi per registrare e confermare ciò che si è messo in scena fino all’istante dello strappo dal buio. Ur è invece la struttura mancante, è la terra del non ritorno che frana il passo. A lui non si può reclamare niente tant’è che non vive insieme a loro, si incontra al bordo, si invoca senza risposta. Ur, il ferramenta, non aggiusta lo sparpagliamento del già accaduto, del ritardo dell’attenzione. Il compito è affidato ad un precedente corredo familiare: quello di Inna, l’abitante, Zet, l’ospite, Nikka, la vecchia, e Sasa, il bambino. Ognuna e ognuno di loro rappresentano l’opportunità di un mondo che può ricomporsi, e al contempo un ruolo che stabilisce la regione misteriosa e generosa di buone notizie se ascoltate e maneggiate con dedizione. Eppure è la sola Inna che sa pronunciare il proprio nome, che conosce il silenzio dal quale si è sottratta e che custodisce il segreto della gratitudine. Lei è freccia del tempo. Gli altri sono chiamati, lei si dà del tu. Inna è l’elemento che principia, l’unica presenza che desidera quell’abitare in tutta la sua incandescente contraddizione. (Estratto da Nel cuore della parola. Nota a Ida Travi, Il mio nome è Inna. Scene dal casolare rosso, Moretti&Vitali 2012)
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