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LA PENSIONE

Post n°1315 pubblicato il 04 Maggio 2012 da non.sono.io
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La mattina a casa mia era sempre un casino. Nell’unica stanza del monolocale dove vivevamo dormivamo: io e mio fratello su un letto a castello accanto alla macchina del gas; mia madre e mio padre usando un divanoletto ad una piazza e mezza; il fratello di mia madre, cioè mio zio, su una brandina incastrata per metà sotto il tavolo dove mangiavamo; mio nonno, che a causa della sua malattia che gli impediva di parlare e di essere autosufficiente riposava direttamente sulla sedia a rotelle, così occupava meno spazio. Quando ci alzavamo sembrava di stare all’ufficio postale il giorno della scadenza delle tasse, tanta era la fila per lavarsi, per fare colazione e per vestirsi. Per infilarsi gli abiti, infatti, non si poteva essere più di tre alla volta o altrimenti si rischiava il collasso del traffico casalingo. Per fortuna che a casa mia nessuno lavorava, così che potevamo gestirci al meglio gli orari per la sveglia e cercare di limitare i disagi.
Nella mia famiglia, l’unico che veniva pagato da qualcuno era mio nonno, ex capostazione, che con la sua pensione da milletrecentosessantacinque euro mensili, ci sfamava tutti quanti. Io in verità non so se si rendeva conto dell’importanza che aveva per noi, perché, come accennato, data la sua infermità, l’unico modo con cui riusciva a comunicare con l’esterno erano dei mugolii inframmezzati da brevi rutti, con i quali faceva capire quando aveva fame o doveva andare al bagno. Per tutto il resto, mio nonno veniva più o meno considerato un mobilio, una cosa che stava lì, umile ma essenziale come la tazza del cesso. E deve essere stato per questo che non ci siamo accorti subito quando nonno morì.
La prima a sospettare è stata mia madre, dopo un paio di giorni che non ruttava. Lei continuava a spostarlo da una parte all’altra del monolocale a seconda di dove serviva più spazio, ed era abituata al suo immobilismo, però quando si rese finalmente conto che erano due giorni che non mangiava né pisciava il dubbio la colse all’improvviso lasciandola senza fiato.
La sera mio padre subito convocò un’assemblea di famiglia. L’annuncio, scontato, era dei più tragici: non avevamo più la pensione di nonno. Rimanemmo tutti senza parole. Senza il suo aiuto non avremo nemmeno avuto più la possibilità di abitare in quel bugigattolo. Così mia madre disse che sarebbe ritornata a lavare le scale del condominio, ma io feci presente che i trecento euro che avrebbe guadagnato in quel modo non sarebbero bastati neanche per pagare le bollette. Allora mio fratello, come colto da un’ispirazione celestiale, trasalì annunciando che aveva letto da qualche parte che cercavano un distributore di volantini, e che per ogni foglietto lasciato dietro i tergicristalli promettevano dieci centesimi. Anche in quel caso fui costretto a fare due conti, e a spiegare che per racimolare uno stipendio avrebbe dovuto distribuire diecimila volantini al mese, cosa ovviamente impossibile. Mio padre non faceva altro che scuotere la testa indicando la gamba destra, per ricordare a tutti quanti che lui aveva la malattia, cioè un’artrite cronica all’anca, e che purtroppo non poteva aiutarci in alcun modo.
A quel punto a me venne un’idea. Suggerii ai parenti che se non dicevamo niente, nessuno si sarebbe accorto della morte del nonno. Tanto lo Stato mica controlla porta a porta se quelli che dichiarano di essere vivi lo sono veramente. Cioè, per come l’avevo pensata io, tutti eravamo immortali fino a quando un timbro su un certificato ufficiale non ci avrebbe ucciso definitivamente. Con questo trucco potevamo riscuotere tranquillamente la pensione fino a quando non avremmo, chissà come, provveduto a trovare altre entrate.
La trovata piacque a tutti. Poggiammo la sedia a rotelle con il cadavere ancora con la sua copertina di lana sulle cosce nell’angolo più remoto della casa, vicino alla porta del bagno, e ci convincemmo tutti che nonno non era mai morto. Questa pure era una mia idea, cioè se noi credevamo fortemente che lui era ancora in vita, saremo riusciti a convincere anche gli ispettori dell’INPS. La verità è che pure prima di morire mio nonno non è che sprizzasse vitalità, ed è per questo che pensavo sarebbe stato un gioco da ragazzi far finta di nulla.
Ma la natura ingiusta e beffarda, come diceva il poeta, ci mise il suo zampino.
Dopo un po’ nonno iniziò a decomporsi, e successivamente ad emanare un odore insopportabile che nemmeno la puzza di cacca che lasciava papà quando usciva dal bagno riusciva a nascondere. A quel punto fu necessario un piccolo aggiustamento del piano. Nonno doveva sparire, ma doveva farlo poco a poco se non volevamo che qualcuno ci vedesse trasportare via il morto. Mica eravamo assassini in fondo. Così papà, indì un’altra assemblea in cui fu deciso che nonno andava affettato in tante piccole parti e che ognuno di noi doveva trovare il modo di farle sparire. Mamma annunciò subito che la sua parte l’avrebbe data in pasto ai gatti che scorrazzavano numerosi nel cortile. Mio fratello annunciò che la domenica dopo avrebbe dovuto partecipare ad una gita con i compagni dell’oratorio, e che avevano deciso che ognuno di loro doveva portare qualcosa da mangiare. Gli venne in mente di preparare un polpettone con il morto, che tanto in mezzo a quella baraonda nessuno l’avrebbe mai capito che si stavano mangiando una persona. Papà, come al solito, si limitò ad indicare la gamba e mio zio disse che lui avrebbe gettato il pezzo di nonno che gli sarebbe toccato nella spazzatura e tanti saluti. Io, come mente geniale della banda, mi tirai fuori dalla questione come ricompensa per essere l’inventore di un piano perfetto. Tutti assentirono e il progetto partì.
Tutto andò per il meglio. Mio nonno fu smembrato, i suoi resti distribuiti per la città e L’INPS continuò a pagare la pensione ignara della nostra truffa.
Ancora adesso, che per lo Stato nonno ha centoventisette anni, a volte mi affaccio all’unica finestra di casa, guardo il cielo e sospiro pensando che nonno da lassù ci guarda, ci protegge e ci ama.
O forse no.

 
 
 
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