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UN BUCO NEL CIELO - CAP. VI

Post n°1353 pubblicato il 12 Luglio 2012 da non.sono.io
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Appena si aprì la grande porta bianca e liscia, che dava direttamente sulla sala d’attesa, Leonora fu letteralmente inondata da una nuvola puzzolente composta principalmente da olio fritto. Odiava quell’odore. Lo sentiva procurarsi sentieri verso ogni poro del suo corpo. Quell’olezzo di frittura rifritta di un olio che l’oliva l’ha solo vista in un video di Youtube, sapeva costruirsi un nido sicuro tra i peli dei suoi capelli, e lì rimaneva. Per sempre, come i proprietari delle case popolari. Il massimo del disgusto glielo procurava quando aveva il turno di mattina, quando i sensi, addolciti dal sonno ristoratore, trasformavano quel battesimo in una vera e propria umiliazione. Lavorare in una fabbrica di patatine ti rende diverso da tutti, perché il puzzo del sistema te lo porti dietro ovunque, e in ogni momento. E’ un aroma che sa di risorse sfruttate fino a quando l’organismo ce la fa a digerirle. Per questo a Leonora veniva da vomitare quando aveva il turno di mattina. Ma poi con il tempo si abituò; dopo un anno di lavoro già quasi non si accorgeva di essere immersa nei vapori di olio fritto. O meglio, quel puzzo ancora le dava i conati, ma aveva imparato a convivere con quella situazione. Anzi: un po’ per darsi coraggio, un po’ perché in fondo era vero, si diceva che lei era una persona fortunata, perché lavorava. Era convinta che, ripetendosi questo mantra per un numero necessario di volte, avrebbe finito con il tollerare anche la busta paga più bassa dello stipendio reale che percepiva. Anche le ore di straordinario sottopagate. Anche quella stramaledetta puzza di olio fritto. Perché lavorare, ci dicono, è la prima cosa nella vita. Non ci pensiamo noi, che senza vita non c’è lavoro.
Per questo Leonora era un’operaia scrupolosa e puntuale, sicuramente la migliore del suo reparto. E certamente la più benvoluta, per il suo carattere mite, la sua simpatia popolare ma schietta. Quando, dopo aver timbrato il cartellino e cambiatasi d’abito nello spogliatoio, entrò nel suo capannone, tutte le altre colleghe la salutarono con allegria, e lei ricambiò. Poi si mise subito all’opera. Leonora era stata assegnata a un macchinario che si occupa di spruzzare sulle patatine, dopo averle fritte, una sostanza che le dona un sapore particolare. Siccome la linea commerciale della sua fabbrica comprendeva sette diversi sapori per le patatine, c’erano dentro la struttura sette di questi apparati, e ognuno si occupava di un gusto diverso. Leonora gestiva la postazione “paprika”. La macchina faceva tutto da sola: prendeva le patate a gruppi già pesati, se li portava con un braccio a paletta sotto una specie di doccia dalla quale, ogni tre secondi, usciva un liquido vaporizzato al sapore riprodotto di paprika. Lei doveva solo verificare che tutto procedesse per il verso giusto, che non ci fossero guasti o ritardi. Sei ore a guardare le patatine fare la doccia. 
Quando si ha così tanto tempo libero da dedicare ai pensieri, è normale a volte perdersi per dei vicoli che svoltano repentinamente a destra o a sinistra della realtà. Si rimane ad ella abbastanza vicini per non accorgersi di averla abbandonata, ma irrimediabilmente lontani da essa. Leonora prese a giocare a immaginarsi cosa potesse celare quel buco nel cielo. Stranamente l’idea dell’”uscita d’emergenza dal mondo”, gli non si sembrava più tanto astrusa. “Sarebbe sempre meglio scoprire che quello non è altro che una qualche forma d’inquinamento o di chissà che altro”, si diceva, “Non sarebbe meraviglioso sapere che c’è ancora qualcosa che non riusciamo a comprendere? Qualcosa di bello intendo…”.
La macchina docciatrice, però, a quel punto del ragionamento emise un rumore strano. Leonora la conosceva a memoria e non aveva mai sentito quel suono. Era come un fischio, come se qualcosa di metallico avesse frenato all’improvviso su un altro pezzo ferroso. Poi la paletta meccanica prese a tirare le patatine in aria, senza aspettare che la doccia spruzzasse la sostanza. Leonora si spaventò: non aveva mai assistito ad una scena del genere da quando aveva iniziato a prestare servizio nella fabbrica. L’allarme prese a far strillare la sirena d’emergenza della macchina, potente con ritmi lenti ma regolari. Provò due tre volte a spegnere l’apparato, ma quello non rispondeva ai comandi. Allora le diede un pugno, ma le patatine continuavano a schizzare da tutte le parti e le braccia meccaniche a colpire il vetro da dove Leonora le spiava. In mezzo a tutta quella confusione e  al rumore assordante, riuscì a farsi venire in mente l’arresto d’emergenza, per questo si voltò a cercare il grosso tasto rosso che una volta individuato si apprestò a schiacciare con forza.  Di colpo, tutto si fermò.
Leonora si allontanò di un passo dalla macchina respirando affannosamente. Dopo si riavvicinò e guardò dal finestrino, solo per formalità, perché in realtà non le importava nulla della sorte di quell’ammasso di giunture metalliche. Quando tornò a prendere le distanze, immediatamente si voltò a cercare i colleghi per commentare l’accaduto e decidere il da farsi, e fu proprio allora che scoprì di essere sola. Il capannone era deserto e le macchine ferme. Non c’era proprio più nessuno lì dentro eccetto lei. Leonora si mise a ridere. “Ma guarda che cagasotto”, pensò. E cominciò a chiamare per nome i suoi compagni avvertendoli che il pericolo era cessato. Nessuno rispose, allora lei si mise alla ricerca del resto della gente che lavorava lì dentro intrufolandosi nei vari tunnel che collegavano i reparti, attraversando il cortile esterno, rientrando in un’altra struttura, arrivando persino agli uffici dell’amministrazione. Non incontrò neanche una persona. 

 
 
 
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