Creato da Signorina_Golightly il 23/06/2014

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Messaggi di Settembre 2019

13,14

Post n°943 pubblicato il 18 Settembre 2019 da Signorina_Golightly
 

Non scrivo cose  mie da molto. E poi le ultime pause pranzo le ho trascorse, oltre che a mangiare, a compilare il mio sacro file annuale di fanta-teatro. E sì, perchè si sta delineando il programma degli spettacoli milanesi in abbonamento, e io ormai ho preso l'abitudine di inserirli in un super-file da condividere con le compagne di teatro, in modo da poter scegliere al meglio gli spettacoli. Una cosa seria insomma!

Il resto?

Il resto è che ho concluso la mia terapia. Di ritorno dalle vacanze sono andata al primo appuntamento di ripresa, e ho detto alla psycho che era accaduto quel che lei mi aveva pronosticato ma io faticavo a comprendere: un giorno ho iniziato a sentire che non ne avevo più bisogno. Quel desiderio di andare da lei per capirmi meglio, la certezza che stavo impiegando fruttuosamente soldi, tempo ed energie, sono evaporati, sostituiti dalla consapevolezza che sto bene, che non devo sviscerare oltre, che ho raggiunto, non voglio dire un equilibrio, ma quantomeno una quotidianità in cui trova spazio almeno in parte la serenità.

Lei ne è stata contenta. Io pure, perché ho capito che questo percorso è servito.

Ora mi restano il mio yoga e la mia meditazione quotidiani, che sono stati fondamentali nel portarmi a distaccarmi dalla terapia. Si potrebbe pure pensare che io abbia sostituito una terapia con un'altra. Non saprei. Può essere. Forse starò sempre in una sorta di terapia. Ma almeno questo non mi costa nulla (toh! tredici euro in un anno: tanto ho speso per scaricare alcuni video particolarmente utili), posso farlo ogni giorno e in qualunque momento libero. 

E soprattutto sto scoprendo di avere muscoli mai visti prima!

Pappa time

PS: me lo devo ricordare più spesso quanto mi piace scrivere qui.

 
 
 

I rassegnati (Tommaso Labate)

Post n°942 pubblicato il 05 Settembre 2019 da Signorina_Golightly
 

E noi figli, oggi quarantenni? Ascritti in massa al rango di «predestinati» fin da quando eravamo in culla, abbiamo avuto da una generazione di genitori tanto onnivori quanto benestanti un Tetris di conoscenze e competenze che s’incastravano tra loro – da una scuola pubblica funzionante alla possibilità di prendere lezioni private al pomeriggio, poi i corsi d’inglese, l’informatica, gli strumenti musicali, gli sport, i viaggi all’estero – accompagnato dalla garanzia che sarebbe «bastato studiare» per poi prendersi tutto, per diventare nella vita quello che Baggio era nel calcio. Ed è finita proprio come Baggio al mondiale del ’94. Quando eravamo ormai pronti, quando «toccava a noi», nel momento in cui è capitato che qualcuno dovesse cedere un posto, il numero comparso sul tabellino dei cambi era proprio il nostro. Ci hanno sostituito.


L’università americana costa migliaia di dollari, è elitaria, selettiva, legata alle imprese, «schiava» del sistema capitalistico come tutti gli atenei anglosassoni. «Giusto, giustissimo. […] Ma siamo riusciti in Italia a mettere e a tenere in piedi, finché dura, un’università ancora peggiore. Quella americana è selettiva e crudele ma vera. La nostra è generosa e tollerante, ma falsa. Non soffre di crisi d’identità perché d’identità non ne ha. Non ne dà. I professori recitano la commedia recandosi a insegnare una volta alla settimana in università lontane quattrocento chilometri. […] Gli studenti recitano la parte degli studenti, affollandosi a centinaia nelle aule. Dove cercano di capire da lontano, con l’aiuto di un binocolo da teatro, se il professore quel giorno si è tagliato la barba o no. Alla fine della lezione, il professore, con la barba o meno rasata, scappa via: per paura degli studenti che potrebbero (ma come si permettono?) affollarglisi intorno per fargli qualche domanda. Poi c’è la commedia degli esami. Poi c’è la commedia della laurea. E se qualcuno sostiene che la situazione non è questa, si faccia avanti e lo dimostri. Oppure taccia per sempre.» 


così, passo dopo passo, angoscia dopo angoscia, paura dopo paura, la nostra lotta per avere un mondo migliore si è polverizzata in una serie di duelli personali per la sopravvivenza. Le battaglie per Tutti si sono trasformate in quelle per Me. Ci siamo rassegnati a essere soli con noi stessi. Poco importa che sia un migrante che arriva dalla Libia o il condomino che implora l’installazione di un montascale: l’altro, tutto sommato, non ci piace. Per l’altro, tutto sommato, non c’è posto. 


La perenne situazione emergenziale in cui viviamo o crediamo di vivere – crisi economica, disoccupazione, calo demografico, cinque milioni di famiglie italiane sotto la soglia della povertà – ci hanno convinto che gli altri verso cui essere altruisti, per usare le parole di Umberto Tozzi, siamo noi e noi soltanto. Da qui al rintanarsi in noi stessi, all’ondata di egoismo che pervade la generazione dei quarantenni, il passo è stato brevissimo. 


Sarà perché faccio parte di quella schiera di persone che, nei loro incubi peggiori, temono di perdere la mobilità molto di più di quanto non temano di perdere la vita


Quel perché può ritrovarsi nella distanza che ogni Rassegnato ha finito per mettere tra sé e gli altri. In alcuni casi ha origine nel senso di «vergogna» per le cose che non vanno come dovrebbero andare, per il lavoro perso e non più ritrovato, per il rinnovo del contratto che tarda ad arrivare, per i soldi che sembrano sempre pochi; in altri, perché quel generale senso di angoscia che accompagna un’intera generazione – anche se un lavoro ce l’abbiamo – mal si concilia con una chiacchierata, con un colloquio, con una telefonata. 


oggi va molto di moda la parola «percorso» (sai da dove parti, sai dove puoi arrivare) e molto meno la parola «cammino» (sai da dove parti ma puoi arrivare ovunque). Proprio nel passaggio da «cammino» a «percorso» si sono persi per strada molti sogni, molte ambizioni, molta felicità.


manca, al tavolo del dibattito, la parte in causa più importante: il lavoratore precario. Estromesso lentamente dallo spettro d’interesse dei grandi sindacati, che a loro volta sono stati estromessi velocemente (dal centrosinistra prima, da Di Maio e Salvini dopo) dai tavoli di Palazzo Chigi, il lavoratore precario, oggi, esiste solo come singolo. 


Da solo non vale nulla. Se non organizzato, è solo un minuscolo granello di sabbia accompagnato da un account su Facebook o Twitter che può produrre, volta per volta, post o tweet più o meno condivisi, con un numero di «mi piace» che di fatto non altera la sostanza, Senza la sua posizione, un’analisi seria sul sistema-lavoro è impossibile. E senza quest’analisi, ogni legge sul tema sarà destinata a fallire


le aziende, la congiuntura economica, la politica c’entrano tutte per un pezzetto ma non sono né la causa della malattia né la medicina per guarire.


 «matrice di Eisenhower», dal nome del trentaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America che aveva teorizzato la suddivisione delle attività umane secondo quattro criteri («importante e urgente», «importante e non urgente», «non importante e urgente», «non importante e non urgente»)… Preferiamo fare le cose urgenti rispetto a quelle più importanti «perché tendono a essere semplici e lineari e perché ci danno una soddisfazione immediata, come per esempio fare contento il nostro capo, o andare a pagare l’affitto del prossimo mese, invece che realizzare i nostri sogni o impegnarci per un futuro migliore […]. Senza contare che è piacevole farle subito, perché ci libera dalla fastidiosa sensazione di avere sempre qualcosa in sospeso, anche se, continuando a comportarci così, il risultato che otteniamo è una vita fatta di banalità». 


La rassegnazione che marchia a fuoco la generazione dei nati negli anni Settanta si alimenta dell’abbondanza di «urgenze» e della sostanziale fuga dalle cose «importanti». 


L’ambizione a uscire da un presente in cui siamo. Si passa, secondo il Rassegnato, da una serie di elementi all’apparenza imprescindibili: un lavoro da finire, un curriculum da mandare, una scadenza da rispettare, delle persone da incontrare o a cui mandare delle e-mail o dei messaggi che sono sistematicamente «urgenti», delle altre da pagare o da cui essere pagati. Il nostro è un mare in cui si galleggia muovendo con forza le gambe e le braccia ma restando sostanzialmente fermi, e per giunta stanchi di quella stanchezza propria di chi ha fatto grandi traversate. Noi paghiamo in stanchezza, ma non incassiamo la traversata.


 I curriculum sono la peggior forma di selezione del personale. Non se ne trovi uno che non abbia dichiarato nel suo primo cv: «La mia aspirazione è lavorare in squadra». Sono gli anni in cui la propensione al team building, la capacità di costruire un gruppo e di farlo funzionare, diventa una specie di sushi antropologico: tutti dicono di non poterne fare a meno, tutti giurano che è il loro pasto preferito, mentre nella vita reale sembra proprio che non sia così. Se per entrare in un’azienda prestigiosa devi di fatto pagare per lavorare, quel posto sarà disegnato a misura solo delle famiglie che potranno permetterselo. Una regola che ha tante eccezioni, per fortuna. Ma di base è così. L’ingresso con gli stage gratuiti, in fondo, è stato un trucco, il pulsante start di una «sindrome di Stoccolma» collettiva che ha finito per legare a doppio filo i «poco pagati» ai loro datori di lavoro. Se guadagni zero appena entri, ti basterà uno per essere gratificato. E se ti senti gratificato con poco, pochissimo… sei già rassegnato, in fondo. io ho solo rinunciato coraggiosamente a non avere i soldi per l’affitto, a non avere tempo libero, ho rinunciato a sbattermi per collaborare gratis con questo e con quello, ho evitato di costruire una rete di relazioni utili (trad. leccare il culo) che mi consentisse di collaborare sempre gratis con quello e con l’altro ancora, ho audacemente svicolato l’invito a collaborare gratis con varie riviste e associazioni, […] essere socievole con quelli che mi avrebbero potuto procurare altre collaborazioni precarie per fare un lavoro che siccome non è un lavoro è arbitrariamente soggetto all’andamento delle relazioni umane


 «Fatti pagare, mi raccomando.» Se ci pensate, anche questa, e soprattutto questa, è una forma di vaccino alla rassegnazione. dell’Arte della guerra di Sun Tzu. è un altro il motivo che ha reso la generazione dei Rassegnati meno degna di essere ascritta da Salvini al «partito degli indifesi» rispetto a un pensionato medio. E questo motivo è che Salvini, alla generazione di cui fa parte, sente di non dovere nulla perché nulla ha avuto dalla generazione di cui fa parte. Non c’è la benché minima traccia, nel suo orizzonte, di una battaglia «generazionale». E non c’è perché Salvini, così come tantissimi giovani politici prima di lui, di sinistra e di destra, non ha costruito la sua personale carriera sfidando il «padre» a suon di lotte giovanili tutte indignazione e ribellioni. Al contrario, l’ha costruita obbedendogli ciecamente.


 Il cuperlismo, visto come la tendenza dei trentenni degli anni Novanta a non aprire conflitti coi «padri» e a stare nella loro scia aspettando il proprio turno, è stato uno degli elementi che ha messo fuori dai giochi (almeno a sinistra) anche la generazione successiva. Cuperlo, insomma, avrebbe dovuto lanciare la sfida ai D’Alema perché quelli più giovani di Cuperlo – i Rassegnati di oggi – lanciassero la sfida a lui. E invece questi ultimi si sono ritrovati di fronte ancora un D’Alema sempre in sella, un Cuperlo che vivacchiava subito dietro, e non hanno capito o voluto capire chi doveva sfidare chi, chi doveva combattere chi, chi era buono e chi cattivo, chi doveva lasciare il posto e chi no. E si sono fatti poi sconfiggere da Renzi, che di sinistra non è mai stato.


Il contrario del sogno è la Rassegnazione. Il contrario dei sognatori sono i Rassegnati. L’illusione di poter far qualsiasi cosa senza avere bisogno di nessuno è senz’altro una delle cose che ha alimentato la nostra più intima solitudine. 


Negli ultimi vent’anni, in fondo, ci siamo fatti guidare da un navigatore; e, come tutti quelli che si fanno guidare dal navigatore, non abbiamo fatto caso alla strada percorsa, non abbiamo guardato fuori dal finestrino. La parola più nobile del nostro vocabolario di italiani («Resistenza») è stata sostituita da un’omonima con la erre minuscola («resistenza»), sporcata dal caloroso invito che ci è stato rivolto dai leader politici e dai manager medi (come quelli raccontati nei capitoli precedenti) a sapere «resistere» e ad aspettare in coda il nostro turno.


Con la Rete abbiamo avanzato molti no e pochi sì: abbiamo chiesto meno diritti per chi ne aveva qualcuno invece di pretenderne di più per chi non ne ha; abbiamo chiesto di ridurre il conto in banca dei parlamentari e dei consiglieri regionali invece che pretendere accessi più agevolati ai mutui dei quarantenni a partita Iva; abbiamo detto e diciamo no alla Tav, al Tap, all’inceneritore sotto casa invece che pretendere linee merci e passeggeri ancora più capillari e più rapide e meno care, energia a prezzi più competitivi, bidoni della spazzatura più vuoti. La grande ideologia del «no» è stata l’unica lotta che si è concesso il Rassegnato, una lotta che però non l’ha guarito dalla Rassegnazione.


 Va impresso nella coscienza di tutti che, all’interno dello stesso luogo di lavoro e a parità di mansioni, un quarantenne non può continuare a guadagnare meno di un sessantenne solo per il fatto di aver iniziato la sua carriera, al contrario dell’altro, dal numero zero, dal lavoro gratis, dallo stage. Va impresso nella coscienza di tutti che un lavoratore flessibile deve, in linea di principio, guadagnare più di un lavoratore garantito. Va impresso nella coscienza di tutti che il diritto ad avere un mutuo va misurato sulla base di quanto uno guadagna e non sulla base di quanto è garantito,… impresso nella coscienza di tutti che ognuno a suo modo è indispensabile. E va impresso nella mente di tutti che l’estensione della sfera dei diritti, del benessere, della felicità, della serenità è una conquista della società nel suo complesso, e non solo della parte che inizia a beneficiarne. nei luoghi in cui la dignità dell’essere umano non è un punto di partenza, nei luoghi in cui il rischio d’impresa viene sempre più scaricato sul lavoro e sempre meno sul capitale, in tutti questi luoghi serve un conflitto. 


Io e il mio branco di cinque lupi, che tra poco forse diventeranno dieci, abbiamo deciso di impegnarci in questo conflitto e in questa contrapposizione. E anche di far maturare questa coscienza.

 
 
 

L'apertura

Post n°941 pubblicato il 01 Settembre 2019 da Signorina_Golightly
 

http://starerikson.blogspot.com/2019/09/lapertura.html

 
 
 

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