Creato da amministratore_blog il 06/03/2008

SEDE EUR-MOSTACCIANO

AZIONE GIOVANI, ALLEANZA NAZIONALE

 

ANNOZERO... Telenovela vergognosa...

Post n°52 pubblicato il 19 Gennaio 2009 da amministratore_blog

Il tentativo, forse anche onesto, di riavvicinare il giornalismo alla gente, avvicina la gente, anche quella che non sembra avere niente da dire, al giornalismo. La domanda è: a cosa serve un giornalismo così?
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L'altro giorno ho guardato il noto programma televisivo Annozero, dal quale la giornalista Lucia Annunziata si è allontanata prima del tempo, protestando la sua contrarietà contro l'organizzazione delle trasmissione da parte del noto conduttore del programma.

A parte l'atteggiamento della giornalista, che peraltro replica in sedicesimi l'aventino di un suo celebre ospite, mi chiedo sempre a cosa servano, puntate fatte in questo modo. Che contributo di comprensione può produrre, rispetto alla tragedia della guerra in corso a Gaza, avere, fra l'altro, due ragazze, una israeliana e una palestinese che si parlano addosso? O avere la cavea piena di giovani? E questo sarebbe l'approfondimento? A me sembra piuttosto una sorta di "discussione" alla Maria De Filippi. Queste trasmissioni sia che si parli di guerra o di crisi finanziaria cosa spiegano? Cosa viene spiegato intervistando coloro che subiscono i rovesci di un mutuo che non si può più pagare se non che loro stanno male? Cosa si capisce delle cause, oltre che degli effetti? Cosa si capisce di tutto ciò, dopo aver indugiato sul desco vuoto e sul lesinare nella spesa? Dopo avere inquadrato in close up le lacrime sgorganti, ecco mi chiedo, alla fine, cosa spiegano? Che cosa resta? Cosa abbiamo imparato, che già non sapessimo? Mi viene in mente la nota pubblicità di un'azienda chimica tedesca: contributo invisibile.

La trasmissione della scorsa sera su Gaza avrebbe potuto fare un analisi delle vicende storiche; farci vedere le cartine geografiche della zona ed intervistare demografi; si sarebbe potuto tentare di rendere un minimo più "fattiva" l'informazione, invece di dare solo a intendere che tutto sarebbe finito nel solito spurgo di grida e recriminazioni. Al solito si è preferito lasciar parlare la ggente...quello che sempre più spesso si vede anche nei telegiornali: un microfono e una telecamera e via a intervistare a ruota libera e a sentire cosa ha da dire la gente. Questa la sorte dei giornalisti?

 
 
 

OBAMA? Già una gaffe. Iniziamo bene!?

Post n°51 pubblicato il 16 Gennaio 2009 da amministratore_blog

Anche in America si evadono le tasse: ce lo ricorda la rivelazione di alcune "dimenticanze" del candidato ministro del tesoro Timothy Geithner nel pagare prontamente i contributi previdenziali. Ma non è questo a stupirmi. Mi stupisce che l'evento venga, sorprendentemente per gli standards americani, classificato come perdonabile. Geithner, secondo alcuni, è come una grande banca, "too big to fail" (concetto per la verità discutibile anche per le banche). Il "mercato", si sostiene, già scottato dalla crisi finanziaria, non può permettersi un fallimento della sua conferma.
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Che si tratti di evasione abbiamo pochi dubbi, anche se il team di Obama cerca di edulcorarla come honest mistake, un errore in buona fede. Il sig. Geithner si sarebbe dimenticato di pagare i contributi pensionistici dal 2001 al 2004, periodo durante il quale lavorava al Fondo Monetario Internazionale. Il Fondo è infatti, per legge, esente dall'imporre detrazioni alla fonte: la maggioranza dei suoi dipendenti, quelli di nazionalità non statunitense, sono esenti da tasse e contributi. Quelli americani devono ogni anno versarli volontariamente.
È risaputo che all'IMF gli americani ricevono una paga maggiorata proprio come compensazione del fatto che devono pagare le tasse. È persino scritto in un manuale che l'IMF fornisce ai suoi dipendenti, e in "buste paga" trimestrali e annuali che ricordano al dipendente la maggiorazione del salario ricevuta allo scopo suddetto. Tutto perfettamente documentato in questo documento del senato (si veda in particolare la pagina 5).
Della "dimenticanza" si sono accorti gli ispettori del ministero del tesoro che nel 2006 hanno chiesto a Geithner di pagare tasse e interessi per i contributi non pagati nel 2003 e 2004 (di solito le indagini degli ispettori si fermano ai tre anni precedenti). Le penali gli erano state perdonate, avendolo ritenuto un errore in buona fede. Poi, improvvisamente, pochi giorni prima della nomina a candidato da parte di Obama, Geithner paga volontariamente i contributi anche per gli anni 2001 e 2002 (questa volta la spintarella gliel'hanno data gli ispettori di Obama). Questi i fatti: un errore di "gioventù" o una dimenticanza, chi lo sa.
Le udienze di conferma dei ministri di fronte al senato sono uno degli eventi più interessanti della democrazia americana. Non si tratta per nulla di eventi formali, molti senatori, di maggioranza e di opposizione, colgono l'occasione per dimostrarsi "cattivi" di fronte alle telecamere mettendo con le loro domande in difficoltà i candidati. In tempi normali, errori di questo tipo avrebbero causato il ritiro della candidatura, o comunque la mancata conferma. Si ricordino, per esempio, i molti candidati ministro dell'era Clinton che fallirono la conferma per avere assunto, in passato, baby sitters straniere mancanti di documenti di residenza regolari. L'udienza di Geithner è stata spostata a mercoledì, ma gia si preannuncia che anche i senatori dell'opposizione non calcheranno troppo la mano sulla questione, con la scusa del "too big to fail".
Davvero spiacevole che un evasore sia messo a capo del ministero preposto a decidere delle tasse ed a controllarne l'evasione, fra le altre cose. Davvero non esiste un candidato altrettanto o più competente? I repubblicani sembrano, dopo questa sconfitta e per effetto della "paura da crisi economica" rinunciare al loro ruolo di partito di opposizione, commettendo lo stesso errore commesso dai democratici dopo l'11 Settembre.

 
 
 

Da un articolo del Corriere....Alcune considerazioni...

Post n°50 pubblicato il 15 Gennaio 2009 da amministratore_blog

Un recente articolo-inchiesta del Corriere della Sera denuncia la pratica di alcune scuole private che non pagano i propri docenti. Tali docenti, a loro volta, accettano di lavorare gratuitamente perché l'esperienza accumulata nelle scuole private viene poi usata per accedere all'impiego pubblico. L'articolo si riferisce in particolare alla Campania, ma il fenomeno non sembra essere limitato a questa regione.
Come spesso accade quando si parla di precariato e dintorni l'articolo adotta un tono moralistico ed evita di indagare più a fondo le ragioni economiche del diffondersi di tali pratiche. È un peccato, perché se non si capiscono le ragioni economiche si finiscono poi per proporre rimedi inefficaci e fantasiosi.
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Per chi non ha voglia di leggersi l'articolo la sintesi è in questo pezzo del paragrafo iniziale.

"Esiste ormai da anni una regola tacita imposta dai dirigenti di tante scuole private ai docenti freschi di abilitazione all'insegnamento che entrano nel mondo della scuola attraverso il canale degli istituti privati: le scuole paritarie assumono con un regolare contratto i giovani insegnanti permettendo loro di accumulare punteggio e scalare le graduatorie provinciali d'insegnamento (condizione necessaria per lavorare un giorno nella scuola pubblica e ottenere il fatidico posto fisso). I docenti in cambio accettano di lavorare gratuitamente o per poche centinaia di euro nelle scuole private. È raro che un giovane insegnante si ribelli a questa prassi: nelle regioni meridionali il numero dei docenti precari è molto alto e le scuole private non hanno problemi a trovare insegnanti pronti a tutto pur di ottenere un incarico annuale."

A dir la verità, l'evidenza empirica offerta nell'articolo non è molto soddisfacente. Infatti l'articolo si limita a riportare tre interviste. La prima è di una certa M., ''trentenne che da quasi tre anni lavora in un istituto primario paritario ... a metà strada tra Salerno e Napoli'' e dichiara di ricevere solo 300 euro al mese. La seconda è di S., che ha lavorato 6 anni per 200 euro al mese ma ora è felicemente approdato a un posto fisso in un liceo pubblico di Salerno. Infine G., che ''ha 27 anni ed è alla sua seconda esperienza in una scuola privata del salernitano'', e dichiara di lavorare del tutto gratuitamente.
È un po' poco per sostenere la tesi che la pratica viene adottata ''dai dirigenti di tante scuole private''. Voglio però sperare che il giornalista che ha scritto l'articolo lo abbia fatto spinto dalla conoscenza di una realtà sufficientemente vasta da poter essere considerata significativa e cha abbia usato le interviste come rappresentative di una situazione diffusa (se così non è, ciò che dico nel resto dell'articolo è basato su fatti erronei e può quindi essere ignorato). I commenti all'articolo, giunti copiosi, sembrano inoltre indicare che il fenomeno è noto e diffuso. Prenderò quindi sul serio la tesi dell'articolo, assumendo che la situazione descritta nel paragrafo introduttivo sia una buona approssimazione della realtà. Prenderò anche sul serio la tesi che tale realtà differisca tra Nord e Sud del paese; questo sembra trasparire dai commenti e dal tono dell'articolo, che in effetti si concentra sulla ''Campania'', anche se ad essere onesti qui l'evidenza diretta è un po' più debole.
Cerchiamo prima di tutto di valutare cosa sta succedendo con gli strumenti di un economista. I docenti che accettano di prestare i propri servizi senza farsi pagare lo fanno volontariamente. Essendo presumibilmente persone che non agiscono intenzionalmente per farsi del male, lo fanno perché ritengono che tale azione sia meglio delle alternative (non lavorare, cercare un lavoro in un altro settore, emigrare). Come chiarisce l'articolo, la controparte della transazione è la concessione di punteggio che aumenta la probabilità di ottenere un posto fisso in una scuola pubblica. Deve essere quindi vero che tale aumento di probabilità più che compensa, in valore economico, il sacrificio di lavorare gratuitamente o quasi.
Come è possibile ciò? Stiamo parlando di valori economici non indifferenti. L'unico caso giunto a maturazione, quello di S., riguarda 6 anni di lavoro quasi gratuito. S. non sembra reputarsi sfortunato, e dice tranquillamente che ne è valsa la pena per ottenere alla fine il posto publico. Ma anche se in media occorresse aspettare meno, diciamo quattro anni, si tratterebbe comunque di periodi cospicui.
Qual è il valore di un posto alla scuola pubblica? Esso è dato dal valore atteso scontato della differenza tra l'utilità che si ottiene in tale posto e l'utilità che si ottiene nel migliore impiego alternativo (ossia, principalmente, l'utilità che si ottiene migrando o cercando lavoro in un settore diverso dalla scuola). Chiamerò tale differenza ''rendita da impiego pubblico''. L'utilità è funzione del salario che si riceve e delle condizioni di lavoro. È difficile comparare le condizioni di lavoro, ma un ovvio beneficio del posto pubblico, rispetto a quello privato, è la sua stabilità. Data l'importanza di tale aspetto, sospetto che in generale a parità di salario un agente razionale preferisca il posto pubblico.
L'aspetto salariale però è altrettanto importante, e probabilmente offre la chiave per comprendere perché il fenomeno risulta essere più diffuso nelle regioni meridionali. È fatto abbastanza noto che il costo della vita varia a seconda delle zone del paese; il effetti il costo della vita risulta tipicamente essere inferiore al Sud che al Nord (si veda questa ricerca condotta dall'Istat e da altri istituti di ricerca per evidenza più precisa di questo fatto). Secondo la curiosissima nozione di egalitarismo che prevale in Italia, sono i salari nominali dei dipendenti pubblici che vanno uguagliati tra le diverse aree territoriali, piuttosto che i salari reali. Data la realtà prevalente di un costo della vita inferiore al Sud, questo significa che il salario reale di un dipendente pubblico (e quindi di un insegnante) è più alto al Sud che al Nord. Si aggiunga a questo che i salari del settore privato sono più bassi al Sud che al Nord (si veda ad esempio questo rapporto ISFOL). Riassumendo: il salario reale che si ottiene con un impiego pubblico è più alto al Sud che al Nord, mentre il salario reale che si ottiene fuori dal settore pubblico è più basso al Sud che al Nord. La differenze è quindi, senza ambiguità, più alta al Sud che al Nord. Se ne conclude che la rendita da impiego pubblico è più alta al Sud che al Nord, e quindi dobbiamo aspettarci che la gente sia disposta a fare più sacrifici al Sud che al Nord per accaparrarsi tale rendita.
A chi va la rendita? Questo dipende dal meccanismo di allocazione. In generale possiamo vedere il processo di assegnazione della rendita come una lotteria, in cui i partecipanti possono aumentare la probabilità di vittoria mediante l'acquisizione costosa di ''biglietti''. Per esempio, un sistema in cui il posto pubblico viene assegnato a caso tra tutti quelli che hanno l'abilitazione equivale a una lotteria in cui ciascuno ha esattamente un biglietto gratuitamente distribuito, e ha quindi uguale probabilità di vittoria. Con tale sistema la rendita affluisce interamente ai fortunati vincitori.
Il sistema usato in Italia è differente, dato che è possibile aumentare la probabilità di vittoria, tra le altre cose, mediante insegnamento nelle scuole private. Questo è equivalente a regalare alle scuole private un pacchetto di biglietti della lotteria, che poi sono libere di vendere al miglior offerente. A quale prezzo? Al prezzo determinato dalla concorrenza tra coloro che cercano di acquisire la rendita. Il fatto che il prezzo venga pagato in termini di ore di lavoro gratuito, piuttosto che con un esborso monetario, non cambia la natura economica della transazione. Se è vero quanto riportato dall'articolo, per cui gli insegnanti sono disposti a lavorare gratis o quasi per anni, questo significa che il prezzo d'equilibrio di tali biglietti è alto assai.
Che fare? Leggendo i commenti saltano fuori le solite soluzioni dirigiste-giustizialiste. Obblighiamo le scuole a pagare per bonifico bancario. Mandiamo gli ispettori del lavoro. Mandiamo la guardia di finanza. Si tratta sempre di soluzioni inefficaci. La logica economica è stringente: il meccanismo attuale consente alle scuole private la creazione dal nulla di un bene economico, ossia l'aumentata probabilità di accesso alla rendita da impiego pubblico, e gli incentivi alla produzione sono quindi forti. Il problema è come spartire la torta, e le quote verranno determinate dalla concorrenza. Imponendo il bonifico bancario, per esempio, si ottiene solo che le scuole private richiedano più ore di insegnamento, o più banalmente richiedano la restituzione brevi manu dei soldi previamente depositati. Le transazioni di cui stiamo parlando, è bene tenerlo a mente, sono interamente volontarie da entrambe le parti. È estremamente difficile impedire uno scambio tra due parti consenzienti.
Una soluzione che ovviamente funziona è quella di eliminare il vantaggio che l'insegnamento nella scuola private conferisce per l'ottenimento del posto pubblico. Questo è equivalente a sottrarre alle scuole private i biglietti della lotteria, e distribuirli a qualcun altro. Quando dico ''funziona'' intendo che elimina le rendite che affluiscono alle scuole private, e che onestamente non hanno giustificazione economica, perlomeno in questa forma. Se si decide di finanziare le scuole private infatti bisogna farlo apertamente, non mediante meccanismi occulti e distorsivi che oltretutto premiano comportamenti illegali.
Non ci si illuda però che, a seguito di tale provvedimento, tutti i posti da insegnante nella scuola privata attualmente sottopagati verranno magicamente trasformati in posti pagati al pari della scuola pubblica. Tanti di questi posti semplicemente spariranno.
Non conosco a sufficienza il meccanismo di assegnazione dei posti di insegnati per valutare chi beneficerebbe dalla sottrazione dei ''biglietti della lotteria'' alle scuole private. In generale, se ci sono altri soggetti che possono far aumentare la probabilità di ottenere la rendita (per esempio, politici o burocrati che possono influenzare l'assegnazione dei contratti di supplenza nella scuola pubblica), ci si può aspettare che aumenterà la fetta di rendita che va a tali soggetti.

Ovviamente esiste una soluzione semplice semplice che elimina distorsioni, malcostume e comportamenti illegali: ridurre drasticamente la rendita da impiego pubblico. C'è qualcuno che ne parla?

fonte: NFA

 
 
 

Occhiate velenose....

Post n°49 pubblicato il 14 Gennaio 2009 da amministratore_blog

Noto ora che Heritage foundation ha pubblicato ieri la classifica della libertà economica nel mondo. Il tutto è disponibile in un gratuito libro che si può scaricare sia in ufficio che sul proprio computer personale.
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Notasi ivi che il “Belpaese” segue in classifica sia il Sudafrica, che la Namibia. In RSA ci sta pure il partito comunista al governo.
Anche una (ex-)colonia dominata da una potenza comunista (Hong Kong) di gran lunga sopravvanza l'Italia. Interessante, non vi pare?

Domanda non retorica:
"On.li Berlusconi, Brunetta, Carfagna, e Cicchitto (in ordine alfabetico) dai numeri di chi ha: la maggioranza parlamentare, la RAI, l'esercito, e “tutto il resto”,  davvero anche Heritage è parte del vasto complotto della magistratura di sinistra?"

Suggerisco di rifletterci e parlar meno, ma fare di più, libertà ... i mezzi ce li avete, no?

 
 
 

La stravagante notizia del giorno....

Post n°48 pubblicato il 14 Gennaio 2009 da amministratore_blog

Ultimissime dall'Unica (e Inimitabile) Repubblica delle Banane a forma di Stivale del Mediterraneo.
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Il decreto milleproroghe è diventato legge alla fine dello scorso anno. All’articolo 9, comma 1, si stabilisce che:

"Il termine per il pagamento delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dai decreti legislativi 2 agosto 2007, n. 145, e 2 agosto 2007, n. 146, irrogate nell'anno 2008 dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato, è prorogato di trenta giorni. Gli importi da pagare per le suddette sanzioni, anche irrogate negli anni successivi, sono versati fino all'importo di 50.000 euro per ciascuna sanzione, sul conto di tesoreria intestato all'Autorità, da destinare a spese di carattere non continuativo e non obbligatorio; la parte di sanzione eccedente il predetto importo è versata al bilancio dello Stato per le destinazioni previste dalla legislazione vigente. L' importo di 50.000 euro può essere ridotto o incrementato ogni sei mesi con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, avente natura non regolamentare, in relazione a specifiche esigenze dell'Autorità."

Le sanzioni di cui parla il decreto sono quelle che l'Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust) appioppa alle imprese che utilizzano pratiche commerciali scorrette. D’ora in poi, quindi, i primi 50.000 euro di ogni sanzione pagata da chi viola  queste disposizioni, li intascherà l’Antitrust. Come dire che il vigile si prende una parte della multa che si paga per divieto di sosta. Non è propriamente simpatico, ma si può sostenere che l’introduzione di un contratto incentivante, in sé, non è una cattiva idea. L’Antitrust sarà più alacre nel tutelare il consumatore gabbato dai comportamenti illeciti di un’impresa scorretta e, in ogni caso, l’arbitrio del vigile è temperato dalla procedura che prevede, per le sue decisioni, due gradi di giudizio (TAR del Lazio e Consiglio di Stato). Insomma, strana maniera di dare incentivi ai lavoratori dell'Antitrust, ma non da giustificare il titolo di questa nota, se tutto fosse finito lì.
L’articolo 9 si chiude, però, con un inverecondo finale, degno delle migliori tradizioni di una repubblica delle banane. Il decreto, infatti, accorda al Presidente del Consiglio la facoltà di aumentare o diminuire, ogni sei mesi, la porzione di quattrini che l’Antitrust potrà incassare dalle sanzioni. L’attuale Presidente del Consiglio è l’indiscusso protagonista dell’italica sceneggiata sul conflitto di interesse. L’Antitrust è il soggetto al quale la legge affida il compito di occuparsi della spinosa materia e, bisogna dirlo, lo ha sempre fatto con ammirevole delicatezza e superba discrezione. In ogni caso, siccome non si sa mai, per scongiurare la tentazione di curiosità morbose si fa dipendere una parte del finanziamento del controllore direttamente dagli umori del controllato.

 
 
 

Il libro: "LA CRISI. PUO' LA POLITICA SALVARE IL MONDO?

Post n°47 pubblicato il 12 Gennaio 2009 da amministratore_blog
 
Tag: Libri

La domanda è quella giusta. È una domanda  importante perché l'elezione di Obama in Amerika, la conversione sulla via di Colbert di Tremonti (e anche di Sarkò) hanno cambiato il vento. Ora tutti si chiedono cosa lo stato - gli stati - possono fare per salvarci. E naturalmente, la realtà è che possono fare poco o nulla di buono, ma putroppo possono facilmente rendere la situazione economica molto peggiore. Basterebbe questo a farmi piacere il libro, che queste cose ormai non le dice nessuno, e tantomeno in Italia. Ma il libro non si ferma a questo punto; la parte più interessante del libro è la profonda spiegazione del perché la politica non può salvare il mondo; in due parole:

life sucks.

In altre due parole:
shit happens.

In italiano non ce la faccio in due parole; ne ho bisogno di quattro:
adda passa' a nuttata.

Il Il punto è importante: checché ne dica Adidas, comprendere i vincoli è già metà del fare una buona scelta. I vincoli di bilancio ci sono e sono inevitabili. Dati i vincoli di bilancio, c'è poco che si possa fare per evitare la crisi (poco non significa nulla; aiutare coloro che sono nel mezzo della riconversione, travolti dalla distruzione creativa è importante; anche qui però ci sono dei vincoli - che gli economisti chiamo Incentive Compatibility - cassa integrazione per sette anni non incentiva a cercare lavoro).

In buona sostanza, riassumo il libro, capitolo per capitolo:

1) "la superiorità della politica" in Italia significa economia pubblica, protezionismo, capitalismo di stato; tutte parole brutte;

2)  la crisi di questi giorni non è paragonabile alla Grande Depressione;

3) tra le ragioni della crisi bisogna ricordare le politiche espansive di Greenspan e gli interventi statali su Fannie e Freddie;

4) finanza non è una brutta parola;

5) e nemmeno globalizzazione;

6) e tantomeno Euro;

7) l'Italia non cresce perché ha troppo, non troppo poco, pubblico/politico nell'economia.

Conclusioni:
"Il libro è scritto bene e scorre veloce. Non aspettatevi un saggio accademico."

 
 
 

CHE NON SI DICA MAI PIU' PUBBLICO....Basta capitalismo locale, liberalizziamo...

Post n°46 pubblicato il 09 Gennaio 2009 da amministratore_blog

Quella dei servizi pubblici locali è stato, per due legislature, uno dei casi più clamorosi di riforma abortita. Al di là delle incertezze dei governi nazionali nella XIII e XIV legislatura, le maggiori resistenze alla riforma sono venute proprio dagli amministratori locali.

La socialità è una scusa:

Tutti gli argomenti “ideali” a favore del capitalismo comunale sono stati smontati così tante volte che non c’è bisogno di ritornarci sopra. Oggi soltanto un lunatico può credere che sia necessaria la proprietà pubblica locale per assicurare che vengano prodotti nella quantità necessaria e a un prezzo accessibile gran parte dei servizi pubblici locali. Tutti sanno che il public procurement, se incardinato in rapporti contrattuali incentivanti con soggetti selezionati per mezzo di gare trasparenti, può dare luogo a risultati per i cittadini preferibili a quelli della produzione monopolistica pubblica. Il problema è che non sono i cittadini i soggetti che stanno realmente a cuore dei difensori del capitalismo comunale. In alcuni casi, i servizi vengono utilizzati per tassare implicitamente il cittadino-consumatore, a beneficio dell’azionista pubblico facendogli pagare prezzi elevati per servizi che in altri paesi europei sono disponibili a prezzi assai più contenuti. In altri casi, il cittadino-consumatore viene invocato soltanto in quanto meritevole di attenzioni “sociali”, ovvero come titolare del diritto di accesso ai servizi (o almeno ad alcuni di essi) a prezzi contenuti. Ma viene generalmente taciuto che la garanzia di tale diritto viene sopportata dalla finanza pubblica e quindi, in ultima analisi, dallo stesso cittadino in quanto contribuente, perché i costi di produzione dei servizi, in Italia, sono, in molti casi, elevati rispetto ai migliori standard internazionali, mentre la qualità risulta insoddisfacente.
Insomma, spesso la “socialità” è solo la copertura delle inefficienze e delle posizioni di rendita dei produttori dei servizi, che ancora godono di ampie posizioni di monopolio, legali o di fatto. “Porre al centro il cittadino-consumatore” significa cambiare prospettiva: significa dire a chiare lettere che l’efficienza non è nemica della “socialità” e anzi che, per un buon tratto, la socialità può essere perseguita attraverso l’efficienza. Significa anche affermare che la concorrenza e la buona regolazione non sono obiettivi ideologici, ma servono al cittadino-consumatore perché strumentali al raggiungimento dell’efficienza e della qualità dei servizi.


Le vere ragioni di tenuta del capitalismo comunale:

A dispetto di ciò, negli ultimi anni, mentre la riforma arretrava, il capitalismo comunale si è andato allargando. Le ragioni di un tale sviluppo sono, a mio giudizio, così riassumibili:
in primo luogo l'elevata redditività delle aziende operanti nei settori della distribuzione dell’energia e del gas e delle autostrade, redditività garantita da un assetto industriale assai poco concorrenziale e da una regolazione generosa. Gli enti locali puntano sul mantenimento dell’attuale assetto della regolazione al fine di assicurarsi stabili e consistenti flussi di cassa negli anni avvenire, preferendoli agli introiti, rilevanti ma una tantum, garantiti dalla privatizzazione. Tale preferenza è spiegabile con la garanzia che il mantenimento del controllo assicura di poter continuare a sussidiare, con i proventi delle “galline dalle uova d’oro”, le perdite dei servizi sociali o gravati da “obblighi di servizio pubblico”, come i trasporti locali o la raccolta dei rifiuti. Inoltre, la possibilità dell’affidamento in house (introdotta con l’art. 35 della legge 448/2001, poi confermata con l’art. 14 del DL 269/03, ulteriormente modificato con l’art. 4 della L 350/03, noto come “lodo Buttiglione), consente di evitare di ricorrere al public procurement tramite gare competitive e trasparenti e di distorcere la concorrenza in mercati pienamente liberalizzati con la presenza di soggetti che, in quanto controllati dalla mano pubblica locale, non possono fallire e non rischiano il take over.
La mancata riforma dei servizi pubblici locali, inoltre, ha ridotto la spinta esogena all’introduzione di maggiore concorrenza, con la conseguenza che in alcuni comparti particolarmente gravati da inefficienze (come i trasporti locali) non si è realizzata un’apprezzabile riduzione dei costi. Dopo gli efficientamenti conseguiti tra il 1998 e il 2001, sotto la minaccia delle gare – che,  secondo la normativa allora in vigore, si sarebbero dovute svolgere in tutta Italia entro il 2003 – molti comportamenti del passato sono tornati in auge non appena il “lodo Buttiglione” ha allontanato la minaccia della concorrenza. Settori come i trasporti locali  sono dunque rimasti “affamati” di risorse pubbliche, con conseguente ulteriore rafforzamento della propensione degli enti locali per i sussidi incrociati consentiti dal mantenimento del controllo sulle aziende redditizie.
Appare poi probabile che le ristrettezze finanziarie in cui si sono venuti a trovare gli enti locali per le progressive “strette” determinate dalle esigenze di finanza pubblica (i vari Patti di stabilità interni, ecc.) abbiano finito per rafforzare la preferenza degli enti locali per il controllo delle imprese profittevoli. La fame di risorse ha spinto gli enti locali a costituire proprie società per entrare in altri settori redditizi, dalla gestione della sosta e dei parcheggi alla erogazione di servizi di supporto al funzionamento degli enti locali stessi, fino a servizi informatici o a servizi di bus turistico. Abbiamo assistito così alla crescita di un “nuovo” settore pubblico locale, finalizzato al finanziamento dell’ente locale stesso. Una conseguenza diretta delle regole contabili collegate ai vari Patti di stabilità è la tentazione, avvertibile a livello locale come a livello nazionale, di aggirare i Patti stessi riuscendo a collocare al di fuori del perimetro della PA aziende che devono indebitarsi, così da poter far apparire tali indebitamenti come di pertinenza delle aziende stesse e non della PA, a cui, tra l’altro, è fatto divieto di finanziare con mutui le spese correnti. Tale divieto – che peraltro risponde a un principio di sana e prudente gestione – ha finito per sviluppare la fantasia delle amministrazioni locali al fine di mascherare come spese di investimento quelle che, a tutti gli effetti, sono spese correnti.
Gli argomenti precedenti sono rafforzati (e non di poco) dalla spontanea propensione degli amministratori e dei politici locali a mantenere e, se possibile, allargare il controllo pubblico sulle aziende locali allo scopo di consolidare il proprio potere, distribuendo posti nei consigli di amministrazione e nel management di tali aziende (molto spesso a ex sindacalisti o a sodali politici), nonché allo scopo di influire direttamente sulle scelte concrete delle aziende stesse e di mantenere un rapporto diretto con una fetta non grande ma “attiva” di elettorato potenziale: i dipendenti delle aziende. Il lettore che trova sgradevoli ragionamenti di questo genere, giudicandoli troppo cinici, dovrebbe andarsi a leggere i nomi dei manager pubblici locali della propria città e cercare su internet un loro breve curriculum.

 
 
 

Sarebbe cosa saggia fare un passo indietro....

Post n°45 pubblicato il 09 Gennaio 2009 da amministratore_blog

Quali sono gli standard minimi per diventare ricercatore, professore associato o professore ordinario? Questa domanda è stata posta dal Ministro Gelmini al CUN. Purtroppo, il CUN ha risposto.
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Dopo avere deciso di riformare il meccanismo della formazione delle commissioni per i concorsi, introducendo, di fatto, un sorteggio dei commissari, il Ministro Gelmini ha chiesto al CUN di formulare degli standard minimi di qualità per gli idonei nelle diverse fasce concorsuali. Insomma, il Ministro ha chiesto al CUN: quante pubblicazioni deve avere come minimo un Professore Associato nel settore delle Scienze Matematiche? E un Ordinario di Scienze Economiche? E cosi via.
In principio sembra una buona idea. Però solo in principio. Dopo aver visto la risposta del CUN (della saggezza del "dopo" son piene le fosse, è vero, però giuriamo d’averlo pensato anche “prima”) argomenteremo che NON si e' trattato affatto di una buona idea.
Il nostro consiglio al Ministro Gelmini è il seguente: per favore, ignori il documento del CUN e cerchi altrove gli strumenti per imporre quel minimo di competenza accademica che Lei, giustamente, vorrebbe che l’università italiana soddisfacesse.
Perché mai prendersela con l’imposizione di requisiti minimi in una situazione di grave crisi, come quella dell’università italiana? Perché mai, nello sfascio generalizzato, criticare un sincero tentativo d’imporre almeno un livello minimo di decenza alla docenza, così da eliminare i casi più scandalosi? In altre parole, non siamo forse affetti, ancora una volta, dalla tipica cecità dei massimalisti che rinunciano al buono nella vacua attesa del meglio? Forse, ma crediamo di no e la ragione, duplice, è presto detta.
Da un lato, come la nostra breve disamina a seguire cerca di provare, la formulazione di criteri minimi in realtà non implica l’imposizione d’alcun criterio minimo, vuoi per l’eterogeneità dei criteri suggeriti nelle diverse aree disciplinari, vuoi per l’imbarazzante vaghezza ed elasticità con cui i medesimi sono formulati. Vi sarebbe, sempre dallo stesso lato, anche un problema di "incentive compatibility", ma lasciamo perdere le cose complicate che quanto detto basta ed avanza!
Dall’altro lato - e qui viene la ragione per cui non è vero che “tentar non nuoce”: in questo caso “nuoce” – richiedere al CUN d’esprimere criteri minimi potrebbe forzare ora il ministro ad accettarli. Accettare criteri minimi “sbagliati” sarebbe dannoso perché offrirebbe la foglia di fico definitiva a qualsiasi futura sconcezza. In altre parole, il soddisfacimento dei requisiti minimi potrebbe diventare una “patente”, un certificato di qualità, anche nei casi in cui i criteri minimi siano palesemente incongrui. Ministro Gelmini, per favore, dimostri un coraggio politico unico nella storia del MIUR: ringrazi e cestini. In fin dei conti, quelli del CUN sono solo suggerimenti e Lei, signora Ministro, ha il diritto di dire “Ho cambiato idea, ho dato uno sguardo in giro, ho riflettuto ulteriormente e non mi sembra il caso di stabilire dei criteri minimi nazionali. Che ogni Rettore, Consiglio di Facoltà e Dipartimento si assuma la propria responsabilità accademica e scientifica di giudicare e selezionare. Noi giudicheremo e valuteremo le loro scelte, come è nostro compito.”
Per le medesime ragioni, e perché in nessun paese civile – che noi si sappia – esiste una tale lista, il CUN avrebbe dovuto dire semplicemente al Ministro: non è un esercizio sensato, lasci perdere. Invece, con grande spirito di servizio, le diverse commissioni del CUN si sono attivate e hanno prodotto il documento richiesto. La cosa migliore è senza dubbio il preambolo. Ecco alcuni passi [neretto nostro]:

Premesso

- che la promozione della qualità ed eccellenza del sistema universitario dipende da molteplici fattori e non può prescindere da un'autonomia responsabile degli Atenei nella valorizzazione del merito ad ogni livello; […]

Ritenuto

- che gli indicatori proposti sono intesi esclusivamente al fine di determinare livelli minimi normalmente accettabili per l’ammissione alle diverse fasce della docenza;

- che tali livelli minimi non possono essere utilizzati per determinare in modo automatico l’esclusione o l’ammissione di un candidato ad una valutazione comparativa;

- che gli indicatori forniscono una rappresentazione inevitabilmente sommaria dell’attività scientifica dei candidati e che le commissioni giudicatrici, cui esclusivamente compete la responsabilità di stabilire la graduatoria finale, devono comunque formulare un giudizio qualitativo su tale attività scientifica;

- che gli indicatori proposti nulla debbono togliere all’autonomia degli Atenei nella libertà di strutturare i bandi di concorso secondo le necessità espresse dagli Organi collegiali degli Atenei stessi;

- che comunque i valori minimi proposti per gli indicatori ai fini dell’accesso alle fasce di docenza sono punti di riferimento qualificanti per le commissioni e per l’autovalutazione dei candidati;

- che in caso di non osservanza di tali valori minimi le commissioni debbono motivare le ragioni della loro scelta.

Insomma, sembra premettere il CUN: per rendere migliore la ricerca nel sistema universitario italiano ci vogliono riforme più serie, che diano agli Atenei gli incentivi appropriati a perseguire l’eccellenza nella ricerca. Giusto. Anzi, ineccepibile. Se gli incentivi di Dipartimenti ed Atenei vanno nella direzione di promuovere la ricerca, ognuno si regoli come vuole sui criteri di chiamata e promozione, dato che se sbaglia paga. Potrebbero, dovrebbero (vorrebbero?) fermarsi qui, i saggi del CUN. Ma non possono (o non vogliono?). Affrontano allora la mission impossible e, non essendo disponibile Tom Cruise, sanno che stanno per fallire. Quindi mettono le mani avanti in tutte le possibili direzioni, che non si sa mai come andrà a finire.
Iniziano dicendo: quelli che proponiamo sono solo requisiti minimi. Ma subito dopo aggiungono: anche se un candidato non li soddisfa non può essere escluso dai concorsi. Bisogna vedere caso per caso. Insomma, sono requisiti minimi, ma a volte anche chi ha meno del minimo può andare bene. Lo decideranno le commissioni di concorso. Continuano dicendo: sia chiaro, gli Atenei sono liberi di strutturare i bandi come vogliono. Dunque, cosa sono questi standard minimi? Dei semplici punti di riferimento, dice il CUN. L’unico vincolo è per le commissioni che, nel caso in cui scelgano di promuovere qualcuno che non rispetta i requisiti minimi, devono motivare le ragioni della scelta. Vincolo non troppo stringente, visti i costumi nazionali. Forse, al posto del preambolo, il Cun avrebbe potuto citare il verso di Montale: "Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo".
Ma il bello viene quando si leggono le proposte per i singoli settori disciplinari. Qui c’è tutto ed il contrario di tutto, come ha già brevemente osservato Giovanni Federico in un commento ad un altro articolo. Che senso ha promulgare criteri minimi cosi spaventosamente difformi tra un’area disciplinare e l’altra? E, che senso ha promulgare criteri minimi, in alcuni casi, estremamente vaghi? Essendo noi economisti, ci limitiamo all’Area 13, quella di Scienze Economiche e Statistiche. Il testo si trova alle pagine 28 e 29 del documento.
Gli estensori mettono ancor di più le mani avanti di quanto non venisse già fatto nel preambolo generale, e dicono: Scienze Economiche è un baillame. Ci sono aree in cui si pubblica sulle riviste internazionali con il sistema di referaggio, altre in cui si pubblica prevalentemente su riviste nazionali e altre in cui si scrivono principalmente libri, come Storia Economica e Storia del Pensiero Economico (una verità solo parziale, nel primo caso, se si allarga lo sguardo all'esperienza internazionale, ed irrilevante nel secondo, visto che il raggruppamento concorsuale di Storia del Pensiero è uno strano oggetto tutto italiano). Come facciamo a dare criteri validi per tutte queste aree? Questa sarebbe stata una buona occasione per segnalare alla signora Ministro il proliferare di aree disciplinari inventate a tavolino, che non corrispondono a veri filoni di ricerca indipendenti ed autonomi. Che differenza c’è tra un professore di Economia Politica e uno di Politica Economica? Perchè Economia Applicata è distinta da Economia Politica? Misteri italici, anche se, per fortuna, meno seri di Ustica e di Piazza della Loggia.
Ma questa non è stata la scelta dei colleghi che siedono nel CUN. I quali finiscono invece per definire criteri piuttosto vaghi. Prendiamo i criteri per gli Ordinari. Ci vogliono 10 pubblicazioni negli ultimi 8 anni. Ma solo 4 delle 10 devono essere pubblicate in riviste di “grande rilievo scientifico”. Prima perplessità: a che servono le 6 pubblicazioni in riviste di non grande rilievo scientifico? A far numero? Non ne potremmo fare a meno, allora, nei criteri minimi? Ma i saggi del CUN ci confondono ulteriormente le idee dicendo che di queste 4 pubblicazioni su riviste di grande rilievo solo 2 devono essere a carattere internazionale. Quindi esistono, evidentemente, delle riviste di “grande rilievo scientifico” nel campo dell’economia edite in Italia. A nostra conoscenza, NO. Forse una volta. Oggi senz'altro no. Almeno secondo quelli che noi riteniamo siano gli standard che definiscono il grande rilievo scientifico. A far scendere una nebbia fitta su di noi provvede l’ultimo punto in cui si dice che gli editori devono applicare il referaggio anonimo e indipendente. Gli editori? Ma allora qua si parla anche di libri (invece che di riviste) o stanno forse decidendo che e' l'editore che definisce della qualita' di una rivista? Starete mica scherzando, colleghi del CUN: Blackwell pubblica di tutto, oltre che Econometrica! O non e', forse, che editori è la traduzione (sbagliata) di “editors”, che in italiano dovrebbe essere "direttori”? Insomma, cosa vuol dire quel paragrafo?
Supponiamo pure - non è per nulla improbabile - di essere noi che non capiamo quello che c’è scritto nel documento del CUN. C’è però di certo qualcosa che nel documento dell'area 13 NON viene scritto. La parola "citazioni." Le citazioni ottenute non contano niente? Può diventare ordinario di economia anche chi non ha citazioni? Pare di sì.
Non vorremmo però dare l’impressione di essere impietosi o irrispettosi verso il documento del CUN. Noi non avremmo certo fatto meglio di loro, sia chiaro. Il problema è che l'intero esercizio ha una base per niente solida: chi può sostenere che esistano dei requisiti minimi validi sempre? Forse quello che era lecito chiedere al CUN era di non assecondare la richiesta del Ministro.
Avendo loro perso questa occasione rispondendo, non ci rimane che chiedere al Ministro, che fece la domanda, di non accettare i criteri suggeriti dal CUN e di ammettere d’aver fatto un errore di percorso sul quale si è ricreduta. Ci creda, signora Ministro, non c’è nulla di male nel cambiare idea di fronte all’evidenza contraria, specialmente quando si è, fra le altre cose, Ministro della Ricerca. Come diceva quel tale:
           
                      “Se sapessimo cosa stiamo facendo, non la chiameremmo ricerca, no?"

 
 
 

SPERANDO NEL 2009....

Post n°44 pubblicato il 29 Dicembre 2008 da amministratore_blog

...L’Indice delle liberalizzazioni stilato dal think-tank italiano traguarda i nostri successi sul benchmark dei migliori, Gran Bretagna, Irlanda e Svezia. Benone il comparto elettrico, malissimo fisco e lavoro. Il colpevole? Si chiama Stato…
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L’Indice delle liberalizzazioni 2008 non lascia spazio a dubbi: l’economia italiana versa in una protratta situazione di stallo, che ingessa il Paese e che è indice di un declino lento ma costante. Realizzato per il secondo anno consecutivo dall’Istituto Bruno Leoni di Torino, lo studio misura il livello della libertà d’iniziativa italiana, la quale è passata globalmente dal 48% del 2007 al 47% attuale, e questo in dodici settori chiave dell’economia nazionale. Dall’elettricità alle telecomunicazioni, dal gas al trasporto aereo, dal trasporto ferroviario ai servizi postali, dal mercato del lavoro alle professioni intellettuali, inclusi quattro nuovi comparti: i servizi idrici, il trasporto pubblico locale, il fisco e la pubblica amministrazione.

Lo studio parte da un assunto evidente. Per “liberalizzazione” s’intende la diminuzione di barriere d’ingresso nel campo dell’intrapresa e in generale della vita economica del Paese, barriere la cui esistenza dipende precisamente da decisioni in senso lato “politiche”. Insomma, sempre e comunque dall’ingombro dello Stato.
Liberalizzare significa invece accrescere le possibilità concrete che gli attori della scena imprenditoriale-economica hanno di entrare sul mercato e quindi di competere con gli altri soggetti presenti allo scopo di soddisfare una domanda dei consumatori di cui comunque s’intuisce l’esistenza anche laddove il panorama appare stagnante. Di per sé, dunque, a uno studio serio sulle liberalizzazioni come quello prodotto per l’Italia dall’IBL interessa poco il risultato materiale, la performance dei mercati o il numero dei concorrenti. Interessa molto invece il quadro generale del Paese che su questo tema si può disegnare, la valutazione del clima vigente, l'orizzonte di movimento.

9 su 12 gl’inglesi sono liberi
Nell’“Indice”, del resto, la valutazione del grado di liberalizzazione viene operata  creando, per ciascun settore preso in esame, una griglia di criteri e di sottocriteri di natura qualitativa o quantitativa, i quali vengono poi messi a confronto con i risultati ottenuti dal Paese dell’Unione Europea che gode dell’economia più aperta e libera (liberalizzata). Per esempio, nel campo delle telecomunicazioni, si tratta di valutare l’entità delle barriere giuridiche d’ingresso al mercato che incontrano i nuovi possibili competitori, il numero degli operatori già attivi e la quota di partecipazione statale che ancora pesa sul soggetto attualmente dominante il mercato (in genere l’ex monopolista), tutti elementi che possono fortemente condizionare il mercato, e  quindi libertà imprenditoriale-economica di cui esso vive, in un senso o nell’altro.
Ebbene, in ben nove settori su dodici il Paese dove l’economia vanta maggiori spazi di libertà è il Regno Unito (o addirittura la sola Inghilterra), ma non sono comunque da meno la Svezia e l’Irlanda, nazione, questa, in cui il trasporto aereo è oggi liberalizzato ai livelli massimi.

Emerge così che alcuni settori dell’economia italiana hanno nel 2007 beneficiato di un leggero aumento del tasso di liberalizzazione a motivo di una “inerzia positiva”, a causa, cioè, della stabilità normativa che consente la scommessa imprenditoriale di un maggior numero di attori, con conseguente aumento della concorrenza.
In cima alla classifica italiana (74% rispetto al benchmark inglese, con un miglioramento del 2%) sta oggi il mercato elettrico, grazie all’ottimo livello di suddivisione della rete e alla presenza di strutture di mercato che permettono l’incremento della capacità di generazione, senza contare che il possibile aumento verso quote di mercato libero potrebbe portare a importanti riduzioni di prezzo.
Non male anche il settore del trasporto aereo, cresciuto del 4%, ovvero oggi a quota 70% rispetto al mercato irlandese, grazie all’eliminazione delle restrizioni dei voli da e verso la Sardegna, e all’accordo Open Skies tra Europa e Stati Uniti che ha liberalizzato le rotte atlantiche a conferma del consolidarsi, nell’ultimo decennio, di una floridezza del settore favorita dalle norme europee, dalle decisioni prese a livello comunitario e dalla crisi di Alitalia.

Registra, invece, una flessione di ben il 5% la liberalizzazione del mercato italiano delle telecomunicazioni (sceso al 35% rispetto al Regno Unito), dovuta a interventi politici specifici: l’abolizione dei costi di ricarica per le carte prepagate ha infatti introdotto un elemento dirigistico in un campo fino a ora largamente libero, laddove gl’interventi “forti” del governo contro potenziali acquirenti dell’ex monopolista telefonico (che hanno avuto l’effetto collaterale di causare uno scontro tra mondo politico e azionisti) hanno portato allo stallo nel processo di separazione funzionale della rete fissa, frapponendo così un ostacolo enorme – il maggiore – all’istituzione di un regime di autentica concorrenza.

Troppe tasse, e non è finita
Un quasi insignificante +1% si registra infine nel trasporto locale, nei servizi postali e nel fisco. In quest’ultimo caso il grado di liberalizzazione italiano è purtroppo fermo al 52% rispetto a quello della Gran Bretagna, a causa dell’asfissiante tassazione delle persone fisiche e alla non ancora netta semplificazione dei meccanismi di prelievo. Le ore che le imprese italiane sono costrette a destinare agli obblighi fiscali ammontano a 360 contro le 105 britanniche... Va peraltro sottolineato che gli ultimi dati disponibili si riferiscono al 2006: sono quindi da tenere in conto, per i mesi a venire, le ulteriori conseguenze negative causate dalla riforma dell’Irpef varata dal governo guidato da Romano Prodi, in particolare per quel che riguarda l’inasprimento sui redditi medio-alti e l’aumento del numero di aliquote.

La situazione più drammatica è però quella che fa registrare dal mercato del lavoro, dove il grado di liberalizzazione arretra del 15% rispetto al 2007 e questo per un «efficace lavoro di guerriglia normativa» (come ironizzano gli esperti autori dell’“Indice” IBL) che ha bloccato il processo di riforma facendo, in alcuni casi, retrocedere la legislazione  di 15 o di 20 anni. Nel lavoro a termine è stata ripristinata una regola sulla eccezionalità e, in materia di sicurezza sul luogo del lavoro, le regole sono diventate ancora più complesse.
In questo quadro, risuona come un ultimatum il mea culpa di Federica Guidi, presidente dei Giovani di Confindustria, che a nome della categoria dice a il Domenicale: «il mondo delle relazioni industriali non riesce più a intercettare il cambiamento ed è giunto invece il momento di deregolamentare, come proposto dal ministro Maurizio Sacconi, e di valorizzare il capitale umano, consentendo a esso di crescere, di stare sul mercato e di essere premiato in base al merito».

 
 
 

DL 185/08. Presa in giro o banale sciatteria?La settimana di Giulio!

Post n°43 pubblicato il 19 Dicembre 2008 da amministratore_blog

Dove, andando a leggere il testo dell'ultimo decreto-legge del governo nella parte che riguarda le agevolazioni sui mutui, si scopre che Giulio prima afferma una cosa e tre righe dopo sostiene l'esatto contrario.
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Nella stesura del DL n° 185 dello scorso 29 Novembre si scorge l'inconfondibile mano di Giulio Tremonti. Solo il genio, infatti, poteva battezzarlo “Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale”. A parte l'etichetta, anche il contenuto possiede gli inimitabili tratti della proverbiale acribia dell'estensore.

Un esempio? Basta dare un'occhiata all'articolo 2 del decreto, che riguarda i sottoscrittori di mutui a tasso variabile. Il testo dell'articolo é preceduto da uno spot pubblicitario di indubbia abilità comunicativa.

"Mutui prima casa: per i mutui in corso le rate variabili 2009 non possono superare il 4 per cento grazie all'accollo da parte dello Stato dell'eventuale eccedenza"

Chiaro. Chi ha stipulato un mutuo a tasso variabile, nel 2009, pagherà una rata calcolata al tasso del 4%. Fidandosi di questo proclama Il Sole ha elaborato la seguente tabella:

Il risparmio annuo, per ogni 100000 euro di mutuo, sarà di 144 euro nel caso di un tasso effettivo del 4,27% (prima riga della tabella).
Tuttavia, il comma 1 dello stesso articolo stabilisce che:

"L'importo delle rate, a carico del mutuatario, dei mutui a tasso non fisso da corrispondere nel corso del 2009 e' calcolato con riferimento al maggiore tra il 4 per cento senza spread, spese varie o altro tipo di maggiorazione e il tasso contrattuale alla data di sottoscrizione del contratto. Tale criterio di calcolo non si applica nel caso in cui le condizioni contrattuali determinano una rata di importo inferiore."

Chiaro. Il tasso da applicare per determinare la rata a carico del mutuatario é il maggiore fra “il 4 per cento senza spread, spese varie o altro tipo di maggiorazione” e “il tasso contrattuale alla data di sottoscrizione del contratto”. Se, quando si é stipulato il mutuo, il tasso effettivo era maggiore del 4%, si continuerà tranquillamente a pagare la rata prevista dal contratto. Se invece risultasse essere stato inferiore, Giulio - bontà sua - non aumenterà la rata al mutuatario. Grazie ad un raffinato e complesso procedimento matematico - si forniscono ragguagli su richiesta - si può sostenere che il tasso da applicare all'esempio di prima è il 4,27% e non il 4%. L'ipotetico sottoscrittore di quel mutuo di 100000 euro pagherà, per la sua rata mensile, 623 e non 611 euro. Una banca che pubblicizzasse una proposta fuorviante come quella del proclama di Giulio, spacciandola come vantaggiosa, verrebbe giustamente condannata, in quattro e quattr’otto, per pubblicità ingannevole. Va però detto, per amor di verità, che le illuminanti creazioni di Giulio, - che i detrattori si ostinano a chiamare sotterfugi - non possono non deliziare le persone di cultura. La pratica quotidiana di Giulio e' debitrice, nelle sue più geniali intuizioni, del programma dadaista di Tristan Tzara. Sommo artista del '900, si interrogò sulla centrale questione "Si può ancora credere alle parole?", raggiungendo l'immortale conclusione, "il pensiero nasce in bocca".

Si può supporre che, in fase di conversione del decreto, l’improvvido aggettivo "maggiore" venga sostituito dal più sensato "minore". Secondo la tabella de Il Sole, il beneficio annuale per l'acquirente di una casa del valore di 600000 euro, che ha stipulato un mutuo a tasso variabile di 500000 euro, é compreso fra 720 e 2940 euro, a seconda dello spread. Per i mutui più recenti lo spread si attesta attorno all’1,8%; qui è possibile avere un’idea dei tassi e degli spread correnti. In questo caso il beneficio supererebbe i 3800 euro. Niente male: il triplo dei mille euro che otterrà una famiglia con handicappato a carico e reddito non superiore a 35000 euro (vedi l’articolo 1 dello stesso decreto). D’altra parte Giulio vuole “ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale”. Diamogliene atto: che c'entrano con quest'ambizioso progetto quei pezzenti che guadagnano meno di 35000 euro e sono così sfigati da avere anche un handicappato dentro casa?

 
 
 

PMI e decreto anti-crisi...

Post n°42 pubblicato il 17 Dicembre 2008 da amministratore_blog

È la nuova parola d'ordine. Tutti hanno scoperto quanto sia determinante il supporto alla cosiddetta economia reale che, nell'ambito italiano, vuol dire piccola e/o media impresa.
S'immaginano ricette, ci si scambia il consueto j'accuse, ci si attribuisce la primogenitura dell'attenzione, si chiacchiera molto ..... spesso senza avere la minima idea delle reali situazioni sulle quali si vuole intervenire. È opportuno, allora, cercar di fare un po' di chiarezza, allo scopo di comprendere quali siano le urgenze da affrontare e quali i motivi che spingono a considerare inadeguata l'azione di governo.
Non si elemosinano trattamenti di favore, si vuol bensì dare evidenza a normative e comportamenti che minano le basi della competitività, creando condizioni di svantaggio rispetto ad altri paesi, forse con l'unico risultato di perpetuare il controllo delle risorse da parte della casta politica, che se ne serve per garantirsi il potere.
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In un contesto di mercato sempre più difficile, i principali problemi che le piccole e medie imprese si trovano ad affrontare - tra loro interconnessi - sono relativi alla solidità patrimoniale ed alla carenza di liquidità: questi sono dunque gli aspetti sui quali occorre concentrarsi, se l'obiettivo è quello – da più parti dichiarato – di fornire sostegno al nostro sistema produttivo, caratterizzato dalla modesta dimensione aziendale.
Alcune proposte in tal senso sono state da tempo avanzate dalla Piccola Industria confindustriale ma, sebbene successivamente condivise ed appoggiate anche dai vertici associativi, non pare che – almeno per il momento – abbiano ispirato le ipotesi di lavoro governative che, anzi, sembra le abbiano utilizzate a scopo di copertura delle pudenda, vantandone la realizzazione ma, di fatto, snaturandole e rendendole così inefficaci o, in alcuni casi, persino dannose. Affrontando la prima questione, è corretto osservare che le PMI italiane sono sottocapitalizzate, sebbene negli ultimi tempi la situazione sia migliorata, in virtù della spinta garantita dall'entrata a regime del sistema di rating denominato Basilea 2, che ha reso conveniente riconsiderare la struttura dei bilanci per presentare situazioni patrimoniali credibili ed ottenere condizioni di credito adeguate.
I piccoli imprenditori, dunque, hanno ribaltato la passata tendenza a sottrarre risorse alle aziende, tendenza incentivata dalla normativa fiscale, ed hanno chiesto ai governi (attuale e precedente) un provvedimento - in linea con tale impostazione - che non penalizzi la rivalutazione degli immobili strumentali (quelli utilizzati esclusivamente per l'esercizio dell'attività) dal valore iscritto a bilancio – spesso quello storico - ad un livello congruo con i prezzi di mercato. In tal modo le imprese acquisirebbero una maggior solidità, facilitando l'ottenimento di condizioni creditizie più favorevoli, dal momento che il sistema bancario vedrebbe aumentate le garanzie. Una misura di questo tipo, però, ha possibilità di successo solo se il costo dell'operazione è nullo (coerentemente con il non costituire una distribuzione di reddito) o molto basso: si è ritenuta accettabile un'aliquota del 2%.
Inoltre, specie in un contesto di generale incertezza e difficoltà, logica vorrebbe che i proventi di tale operazione fossero rimessi in circolo nel sistema produttivo: l'intervento prospettato dai rappresentanti della PMI si sostanzierebbe in una detassazione degli utili mantenuti in azienda – a titolo di investimenti o di riserva – per un importo di pari entità, tenendo conto del fatto che anche tali risorse non costituiscono distribuzione di reddito. Si potrebbe trattare, in sostanza, di una partita di giro, cioè di un'operazione complessivamente a costo zero per lo Stato, che otterrebbe due importanti risultati, sia – come detto – in termini di patrimonializzazione e quindi di rapporti con il sistema creditizio, sia dal punto di vista della liquidità, mantenendo risorse in azienda, preziose in un momento di drammatico calo degli ordinativi e – attenzione – di grande difficoltà ad incassare i corrispettivi del venduto.
Ciò è tanto più vero in situazioni che vedono numerose piccole aziende impossibilitate a stabilire i budgets richiesti dalle banche per il 2009, dovendo fare i conti – sono le parole di una collega lombarda – con il blocco improvviso degli ordini, che dovrebbe costringere a prevedere un fatturato dimezzato rispetto al 2008, oppure realtà, anche mirate a targets di alto livello, nelle quali il lavoro dell'imprenditore – questo è un collega ed amico veneto - non è nemmeno più quello di girare il mondo per andare a vendere, ma quello di farlo allo scopo di farsi pagare quanto già consegnato, sperando di non ricevere, invece, annullamenti a catena. Interventi di tal fatta, tra l'altro, dovrebbero essere considerati estremamente urgenti, in un momento che si sta presentando talmente difficile da spingere un numero rapidamente crescente di voci - in un moto razionalmente calcolato di auto-difesa - a dichiarare la scelta di non pagare IRES ed IRAP, pena lo sprofondamento in un circolo vizioso che s'innescherebbe qualora la sofferenza finanziaria si riversasse nel mancato pagamento dei fornitori, con le inevitabili conseguenze sia in termini di contingentamento dei materiali necessari alla produzione, sia di ulteriore stretta del credito bancario: in pratica, l'inizio della fine.
A questo punto, non appaia inopportuna una piccola postilla polemica – di carattere etico-filosofico - relativa al fatto che non si capisce l'equità della pretesa di tassazione per un reddito che non viene distribuito - cioè che di fatto non esiste – se non in un'ottica vetero cattocomunista, secondo la quale “i ricchi devono piangere” e l'impresa è un male necessario ma i veri valori sono altri. Sarebbe alquanto istruttivo apprendere chi, quest'illuminati pensatori, ritengano sia in grado di produrre quella ricchezza che dev'essere distribuita (rigorosamente a prescindere dal merito, ma in virtù del solo fatto di dichiararne la necessità), posto che il valore si realizza solo nel momento della vendita a fronte di adeguato corrispettivo ...
Sta di fatto, comunque, che nel decreto impropriamente definito “anticrisi” si prevede la possibilità di rivalutare i beni strumentali, ma con un'aliquota del 10% e senza alcuna traccia di detassazione degli utili mantenuti in azienda che ad essa – come spiegato - dovrebbe esser legata: è facilissimo prevedere che la misura otterrà pochissime adesioni e risulta evidente come, ancora una volta, lo scopo dell'azione governativa sia solamente far cassa, sempre naturalmente a spese di un sistema produttivo già caricato di oneri imparagonabili a quelli gravanti sui competitors internazionali. Anche il pagamento dell'IVA al momento dell'incasso relativo al bene venduto, anziché della fatturazione, fa parte del pacchetto di proposte avanzate dalle PMI: il motivo è facilmente comprensibile e risiede nel miglioramento della liquidità, evitando di consegnare all'erario risorse ancora non disponibili o - nell'ipotesi peggiore, ma non improbabile in un momento di notevole aumento degli insoluti - senza nemmeno riuscire a monetizzare il credito. Il governo sostiene di aver provveduto, ma la decisione non ha, nell'immediato, alcun effetto se si dichiara (erroneamente, in quanto l'articolo 66 della direttiva 2006/112/CE consente agli Stati membri di collegare l'esigibilità al pagamento, senza richiedere alcuna preventiva autorizzazione) di dover attendere gli otto mesi necessari ad ottenere il benestare europeo. Teniamo anche conto del fatto che ancora non conosciamo il reale peso della misura, giacché sarà un successivo decreto ministeriale a fissare il volume d'affari dei contribuenti nei cui confronti si applicherà l'IVA “di cassa”, ma le voci più ricorrenti lo prevedono a quota 300,000 euro: un fatturato da artigiano, non certo da PMI con un minimo di struttura industriale.
Inoltre, a fronte di un modesto innalzamento delle soglie relative alla detassazione dei premi di produttività, è stato deciso di non confermare la detassazione degli straordinari. La scusa è che, in un momento di crisi economica, non si fanno straordinari ….. ma, allora, nessun onere ne deriverebbe per i conti pubblici, quindi tanto vale mantenere il provvedimento. In realtà, una tale decisione dimostra, ancora una volta, che non si conosce il mondo delle piccole aziende – nonostante la cosa sia stata più volte spiegata – nelle quali le ore straordinarie non sono legate solo alla produzione, ma anche alle manutenzioni. Queste, abitualmente, vengono svolte fuori dall'orario produttivo canonico, per motivi legati sia alle interferenze, più probabili in spazi ridotti, sia alla disponibilità di personale specializzato, che deve adempiere anche ad altri compiti, sia, infine, al fatto che gli addetti sono i collaboratori migliori, cioè i più esperti, volonterosi e legati (anche affettivamente) ai destini aziendali, in altre parole i più meritevoli di ottenere preziose risorse economiche aggiuntive.
Già che ci siamo, poi, è opportuno ricordare come assoluta priorità abbia la richiesta di abolizione della norma introdotta – dal governo Prodi - con la legge finanziaria per il 2008, che ha limitato la deducibilità degli interessi passivi: l'ampliamento della deducibilità dall'attuale 30% al 40% del ROL (Reddito Operativo Lordo = valore della produzione - costo della Produzione + ammortamenti + canoni di leasing), secondo la richiesta formulata – purtroppo - da Confindustria è del tutto insufficiente e può essere utile solo a riassorbire l'intervenuto aumento dei tassi di interesse sui finanziamenti rispetto all'anno prima, ma basandosi sul presupposto che le imprese abbiano comunque un ROL positivo. Con la crisi in atto, moltissime PMI avranno, invece, ROL piatto o negativo e, quindi, l'innalzamento proposto sarebbe ininfluente e verrebbe interpretato solo come una beffa: tale norma va cassata o, almeno, dev'essere fissata un'ampia franchigia fino al raggiungimento della quale sia consentita la deduzione, a prescindere dalla percentuale sul ROL.
A proposito di beffa, ad un altro capitolo del decreto è sufficiente riservare poche parole, giusto per non dar l'impressione di trascurarlo: se qualcuno annuncia, magno cum gaudio, che le aziende possono godere di una riduzione dell'anticipo IRES (che passa dal 100 % al 97 %, tra l'altro con una formulazione che, non si sa se per errore o pressapochismo, richiede comunque il completo pagamento entro il 31 dicembre …...), è bene sappia che tale misura è vissuta come irrilevante ed addirittura offensiva, una vera presa per i fondelli che nemmeno è il caso di perder tempo a spiegare, giacchè non capisce solo chi non vuole. Furbesca, infine, appare la parziale deducibilità dell'IRAP dall'imponibile IRES, misura attuata in ossequio alla quasi certa sentenza della Corte Costituzionale, che sancirà – a breve – l'obbligo di prevederla integralmente, sconfessando la nativa impostazione dell'ineffabile Visco, che così volle senza considerare che la sua infausta creatura andava a sostituirne altre prive di tale caratteristica. Anche quest'intervento, quindi, non ha valore: è solo una minima anticipazione di quanto avverrà in seguito alla predetta sentenza ed avrebbe dovuto, evitando annunci demagogici, almeno tracciare un percorso certo verso la meta che tra poco il governo sarà obbligato a concedere, in attesa di quella abolizione che le imprese chiedono da tempo, ricordando l'anomalia internazionale che essa costituisce.
Intanto, il ritardo di pagamento ai fornitori accumulato dalla P.A. ha raggiunto l'allucinante cifra di 70 – dicesi settanta - miliardi di euro, in stridente contrasto con quanto il mercato concede alle PMI, facendo così pendant con le lungaggini dei rimborsi d'imposta ed, in particolare, dell'IVA che avvengono normalmente in tempi compresi tra i 10 ed i 24 mesi, in aperta violazione della norma che stabilisce tre mesi dalla richiesta: ciò si configura come un prestito forzoso all'erario, remunerato col tasso di interesse legale (da confrontarsi con quanto richiesto, tra interessi e penali, nel caso opposto di inadempienza temporale del contribuente, ça va sans dire …..), che provoca un danno legato al fatto di dover ricorrere al credito bancario a costi più elevati. Si chiede o, meglio, si pretende di porre un immediato stop a tale indecenza che, tra l'altro, inficerebbe l'eventuale – più volte promessa e mai attuata - modifica della norma sulla compensazione di crediti e debiti erariali, alla quale oggi è imposto un iniquo tetto, che dev'essere progressivamente tolto, almeno iniziando dal raddoppio degli attuali 516.000 Euro.
Possiamo anche fermarci qui, per ora, ma (in un territorio nel quale la somma della pressione fiscale e contributiva reale è la più alta d'Europa - si veda l'indagine Paying Taxes 2009 della World Bank – a fronte di una bassa qualità dei servizi ed in aggiunta ai cospicui oneri derivanti dalle inefficienze burocratiche) il discorso andrebbe ampliato ulteriormente prendendo in esame tutta una serie di norme vessatorie, inique e disallineate con i partners/competitors a noi vicini, ad esempio per quanto riguarda le spese di funzionamento/rappresentanza, sulle quali magari torneremo, se e quando sarà finalmente firmato il decreto attuativo, da tempo annunciato e costantemente rimandato senza veri motivi. Senza dimenticare, naturalmente, che l'italica amplificazione dei problemi globali ha la sua genesi dalla storica assenza di vero mercato in settori fondamentali dell'economia – e che, quindi, lì sta l'impervia via maestra da percorrere – ma volendo limitare l'analisi alla gestione dell'emergenza.
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Possibilmente senza elemosine di stato, quello anacronisticamente etico che par tanto piacere al tributarista più in vista del Belpaese.

 
 
 

MANIFESTO E NON STUDIO...I più impreparati!

Post n°41 pubblicato il 15 Dicembre 2008 da amministratore_blog

Nell'indagine precedente, effettuata nel 2003, gli alunni italiani ottennero risultati modesti, appena superiori alla media dei circa 50 paesi partecipanti. La media però era viziata dalla presenza di alcuni paesi in via di sviluppo. Escludendo dai calcoli anche solo il Marocco, la Tunisia e l'Armenia, i risultati degli studenti italiani erano significamente inferiori alla media dei paesi rimanenti. Nei test rilevati alla fine dell'ottavo anno di istruzione la posizione dell'Italia nel confronto internazionale era persino peggiore.
Com'è andata nel 2007? Le tabelle rilevanti si trovano nel primo capitolo di ciascun rapporto internazionale (cfr. le tabelle 1.1 di ciascun rapporto). Preciso, e spero con questo di prevenire qualche probabile lamentela da parte dei lettori, che mi limiterò qui ad alcune veloci considerazioni di natura qualitativa nella speranza di chiarire le dichiarazioni che certamente verranno pubblicizzate nei prossimi giorni. Non è certamente lo scopo di questo breve articolo analizzare i dati in modo dettagliato.
Chiarisco anche per chi volesse consultare le tabelle (che non riporto ma che sono facilmente rintracciabili dal link che ho appena indicato) che per facilitare il confronto intertemporale i risultati del 2007 sono stati riscalati in modo tale che un risultato di 500 "punti" nel 2007 equivalga a 500 punti nel 1995. I risultati del 1995 vennero riscalati in modo da avere una media di 500 e uno scarto quadratico medio di 100. La media evidenziata nella tabella, pari a 500, è un numero puramente indicativo della scala usata per valutare i test, e non corrisponde alla media dei risultati del 2007, che non viene riportata. Giusto per aumentare la confusione, la corrispondente tabella del rapporto del 2003 invece riportava la media calcolata sui risultati di quell'anno. Il confronto dei risultati con le medie, in ogni caso, ha un valore relativamente poco informativo, essendo queste statistiche calcolate sull'insieme limitato dei paesi partecipanti all'indagine. Meglio dunque soffermarsi anche su valutazioni puramente qualitative.

Le conoscenze in matematica
In matematica, gli alunni italiani di quarta elementare si piazzano al sedicesimo posto dei trentasei paesi partecipanti (escludo qui e nel resto dell'articolo le regioni che fanno parte dei "Benchmarking participants"). Tutti i paesi con un livello di industrializzazione e reddito simile a quello italiano sono in una posizione migliore di quella dell'Italia, tranne la Svezia e l'Austria, i cui risultati sono sostanzialmente simili a quelli dell'Italia. Il risultato quantitativo di 507 è appena sopra la media della scala di grandezza usata, 500, che va interpretata come ho segnalato sopra. Ho calcolato la media aritmetica dei risultati di tutti i paesi partecipanti all'indagine nel 2007. Questa media è pari a 476, appunto perché in questa indagine sono stati inclusi più paesi con risultati mediocri rispetto al 1995. Eliminando per esempio dal calcolo Qatar, Tunisia, El Salvador, Yemen, Marocco e Kuwait, il risultato dell'Italia si sarebbe attestato di un paio di punti al di sotto della media dei paesi rimanenti. Non un risultato confortante.
I risultati degli alunni italiani di terza media invece sono disastrosi. Gli italiani si piazzano al diciannovesimo su quarantanove paesi. Non riesco a trovare nessun paese occidentale industrializzato sotto l'Italia in questa classifica, a meno di non volervi includere Israele. Il risultato quantitativo, pari a 480, ha poca rilevanza di fronte a questa deprimente evidenza.
La dinamica intertemporale è piuttosto stabile, gli alunni di quarta elementare hanno leggermente migliorato il proprio risultato rispetto al 2003, ma in maniera non statisticamente significativa; quelli di terza media lo hanno leggermente peggiorato, ma anche in questo caso la differenza non è statisticamente significativa.

Le conoscenze nelle scienze
Osservando le tabelle riguardanti i risultati nelle materie scientifiche, il colpo d'occhio sembra favorevole all'Italia. Gli alunni italiani di quarta elementare sono al decimo posto di una classifica che comprende trentacinque paesi. Il punteggio medio ottenuto, 535, si colloca all'incirca a metà fra il massimo (587, Singapore) ed il minimo (477, Norvegia) ottenuti da paesi con livelli di reddito agiati (mi scuso per l'approssimazione, ma basta scorrere i nomi dei paesi coinvolti per convincersi). Non ho calcolato la media, che sarebbe comunque viziata dalla presenza di paesi con risultati disastrosi (inferiori a 350), come Kuwait, Qatar, Yemen, Marocco e Tunisia, ma tutto sommato gli alunni italiani se la cavano decentemente soprattutto considerando che hanno eseguito il test ad un'età inferiore di circa un anno rispetto agli alunni di quasi tutti gli altri paesi.
Peggiore però è il risultato degli alunni di terza media, pari a 495, che è non solo inferiore alla media della scala di grandezza usata, 500, ma è migliore solo del risultato ottenuto da paesi in via di sviluppo o comunque con livelli di reddito e benessere decisamente inferiori a quelli italiani, con l'eccezione della Norvegia.
La dinamica per gli alunni delle elementari è positiva. Il miglioramento di circa 20 punti rispetto al risultato del 2003 (da 516 a 535) è statisticamente significativo, ma non enorme (l'unità di riferimento per valutare questo miglioramento viene dalla deviazione standard su cui sono calcolati i dati, pari a 100 nel 1995). Nessun miglioramento né peggioramento per gli alunni delle medie rispetto al 2003 e al 1995.

Conclusione
La stampa e le parti in causa contribuiscono non poco a generare una discreta confusione sui risultati di queste indagini, forse a proposito, ma non voglio essere maligno. È ubiqua, per esempio, l'affermazione che la scuola italiana sia "all'ottavo posto nel confronto internazionale", dimenticando di precisare che questo risultato si riferisce solo al confronto delle capacità di lettura degli alunni effettuate dall'indagine PIRLS 2006, che comprendeva un insieme di soli 40 paesi, fra i quali mancano, ad esempio, alcuni paesi avanzati come la Svizzera, la Finlandia, il Giappone, e così via.
I nuovi dati mostrano che i risultati degli alunni italiani in matematica vanno dal mediocre delle elementari al disastroso delle medie. Nelle scienze i nostri alunni delle elementari dimostrano conoscenze buone ed in fase di miglioramento. I risultati degli alunni di terza media invece riportano risultati mediocri anche in questo settore. Sarà interessante fra quattro anni conoscere se il miglioramento osservato per le scuole elementari sarà persistente e se si tradurrà in migliori conoscenze alla conclusione delle scuole medie.

 
 
 

DIALOGO O RINUNCIA?Regna l'indecisionismo della prima Repubblica!

Post n°40 pubblicato il 15 Dicembre 2008 da amministratore_blog

Ma c'è stata davvero una svolta, e di quale portata?
Vediamo. La decisione più rilevante è stata senz'altro quella di rinviare la riforma del secondo ciclo all'anno scolastico 2010-2011. Segue la conferma che il maestro non sarà unico, salvo che in circostanze particolari (se i genitori optano per la formula delle 24 ore e se il maestro insegna anche inglese e  religione), ma prevalente, con formule di 27 e 30 ore. Il tempo pieno con 40 ore avrà due maestri. Sarà mantenuto il rapporto di un docente ogni due alunni disabili. Ci sarà un tavolo di confronto per il personale precario. Sarà congelato per un anno l'incremento del numero massimo di alunni per classe.

Alcune di queste decisioni erano nell'aria, perché servivano per ripristinare le condizioni minime di dialogo con i sindacati, e sono state favorite dalla linea di mediazione sostenuta dalla presidente della commissione Cultura della Camera, Valentina Aprea (che non ha portato però al voto favorevole dell'opposizione). Ma qual è il bilancio dell'operazione in termini di vantaggi e rischi, di costi e benefici politici?

Cominciamo dai vantaggi/benefici. Il governo su un piano più generale, e il ministro Gelmini in particolare, escono dallo situazione di scontro frontale e di incomunicabilità con larga parte del mondo della scuola. E pagano, tutto sommato, un prezzo relativamente modesto, considerata l'entità delle misure varate per decreto legge sul maestro unico.

Il maggior rischio, o costo politico, che corre il governo è quello di dare l'impressione di non essere in grado di portare fino in fondo la sua azione perché colpito anch'esso dalla sindrome dell'indecisionismo attendista, come la definisce il pur filogovernativo direttore del Giornale, cioè da quella tendenza a mediare, rinviare e alla fine spesso vanificare ogni decisione importante se suscita troppi contrasti e lede troppi interessi. Una sindrome caratteristica della prima Repubblica, ma che rischia di riprodursi anche nella seconda.

 
 
 

Filosofia ed ignoranza...Il brutto lavoro di Marcello Pera...

Post n°39 pubblicato il 12 Dicembre 2008 da amministratore_blog

L’ultima fatica del Senatore Marcello Pera (d’ora in poi M.P.) riguarda, ancora una volta viene da dire, la questione assai dibattuta del ruolo che la religione, nello specifico quella cristiana e cattolica, dovrebbe avere nella sfera pubblica per motivare e sostenere l’esistenza di uno spazio pubblico, politico, nel quale i cittadini possano unanimemente riconoscersi. Secondo M.P. il cristianesimo potrebbe assolvere a una precisa funzione di generazione dei valori morali non solo nello spazio ridotto delle singole nazioni, ma addirittura nell’intera Europa.

La tesi di Pera può essere sintetizzata come segue. Diagnosi: L’Europa, e tutti i singoli stati nazione che appartengono all’Unione Europa, vivono una scristianizzazione che induce a) una perdita di valori morali nei singoli e nelle collettività politiche; b) lascia gli stati dell’Unione Europea privi di un collante capace di dare un’anima alla già raggiunta unificazione monetaria e burocratica. Terapia: bisognerebbe riconoscere che il liberalismo, già parzialmente assurto a ideologia di fondo dell’Unione Europea, è intimamente legato al Cristianesimo, sia dal punto di visto storico sia dal punto di vista teorico. Senza questo riconoscimento previo, l’Europa è destinata a rimanere senza radici, perché priva dell’afflato vivificatrice del Cristianesimo, e lo stesso liberalismo sarebbe condannato ad un triste solipsimo edonistico, divenendo la copertura ideologica al consumismo e al capitalismo “senza regole”.

PARS DESTRUENS

Lo spettro delle possibili obiezioni a questa tesi è assai ampio, ne prenderò in esame solo alcune.

Obiezione empirica. Sostenere che il Liberalismo, privato della sua radice religiosa, è destinato a scomparire è empiricamente falso. Poniamo pure che il liberalismo sia effettivamente preda di una scristianizzazione in atto, o anche pienamente compiuta: forse che esso è scomparso come ideologia politica o economica? Io direi di no, almeno a giudicare dalle pubblicazioni accademiche sul liberalismo politico o dalle discussioni, accademiche e non solo, in merito a come meglio interpretare e implementare quei principi di libertà economica che si esercitano nei mercati. Dunque, il liberalismo come ideologia politica o filosofica, e come prescrizione di politica economica, continua ad esistere, seppure i suoi presupposti cristiani siano, secondo M.P., caduti in oblio. Secondo questa prima obiezione, dunque, il Senatore farebbe bene a circoscrivere con più precisione i termini della discussione, precisando che ciò che lui discute non sono il liberalismo e il cristianesimo in quanto tali, ma la sua personale descrizione di cosa cristianesimo e liberalismo dovrebbero essere, da soli o in combinazione. Quanto appena detto è banale, del resto tutti quando parlano, parlano di quanto interessa loro; però in questa luce, le parole di M.P. perdono l’ineluttabilità della diagnosi irreversibile e si presentano nella luce più fioca di una auspicio idiosincratico.

Obiezione anti-storicistica. Con ironia si dice che i filosofi corrano rischi professionali di particolare natura: certo, si salvano dal cadere da ponteggi non in sicurezza, ma corrono il rischio di confondere ciò che pensano con ciò che accade. Mettiamo in sicurezza M.P. Assumiamo ancora una volta la bontà della sua tesi storico-filosofica, ovvero che vi sia una filiazione diretta tra il Cristianesimo e il Liberalismo, e che dunque l’ultimo non sia che un fenomeno interamente derivato dal primo, secondo linee di sviluppo culturale, ideologico e addirittura teologiche, perfettamente trasparenti e accessibili a tutti gli studiosi di storia della filosofia politica. In realtà, tale consenso interpretativo è assente tra gli studiosi che si occupano di tali questioni, ma assumiamo pure che tale consenso esista.

Ebbene, come potremmo ricavare, da questo fatto, l’obbligo per il liberalismo (in realtà qui l’obbligo sarebbe tipicamente ascrivibile a quanti si professano liberali, mi si passi comunque quest’uso metonimico dei termini) di stare entro la tradizione culturale cristiana, che secondo M.P, avrebbe generato il liberalismo medesimo? In punto di fatto, se è vera la diagnosi di M.P., non sussiste una costrizione de facto per i liberali a stare dentro quella tradizione, perché appunto il liberalismo (si) sarebbe già scristianizzato. Dunque la sua più che una diagnosi è ancora una volta una partecipata invocazione a che le sue personali preferenze, un liberalismo religioso, si realizzino per il maggior numero di persone. Inoltre, è assai ironico che colui che non manca di ricordare, giustamente con orgoglio, i suoi legami intellettuali con il filosofo Karl Popper, si produca poi in forme di storicismo così scoperte: è stato proprio Popper a criticare le miserie dello storicismo.

Ma dove starebbe lo storicismo di M.P.? Esso risiederebbe nell’idea, che lui dovrebbe giudicare erronea, di poter stabilire nella Storia gradi di sviluppo prevedibili a partire da una ricostruzione filosofica del passato, e di poter ricavare da tali ricostruzioni filosoficamente generali principi di condotta per il futuro. Poniamo dunque che la sua ricostruzione storica e filosofica sia corretta, in che senso potremmo dire che è la rilettura di certi filosofi o teologi, o il semplice di studio del momento generativo di un’ideologia, a poter essere sufficiente per giustificare l’accettazione di quanto sostenuto da certi autori o l’accettazione in toto della base dottrinaria da cui si presume sia derivato il liberalismo? Se anche fosse vero che il liberalismo è derivato dal Cristianesimo, potremmo comunque, al giorno d’oggi, reputare che quel legame debba andare superato. Mi pare che qui M.P. ricada ancora in un rischio professionale tipico della pratica filosofica: presentare i propri argomenti ricavando l’autorevolezza di questi a partire dallo svolgimento storico-filosofico di idee che guarda caso mettono capo proprio alle tesi che interessano l’autore. In genere, tali stratagemmi argomentativi sono sempre sospetti, perché si rischia di forzare i classici del pensiero a sposare tesi che forse quelli non avrebbero sottoscritto; in questi casi è fondamentale dunque che l’attribuzione di certe tesi ad autori defunti, come John Locke ed Immanuel Kant, avvenga nella più stretta adesione alle parole di questi, in maniera filologicamente rispettosa ed argomentata. Se non lo si fa, ci si espone all’obiezione che segue.

Obiezione contro l’autorità (presunta). Usare frasi singole di autori giudicati “importanti”, al fine di sostenere tesi estranee agli autori discussi - senza neppure una discussione filologica dei testi e del tipo di coerenza che essi presuppongono rispetto a quanto sostenuto dall’autore complessivamente - è nulla più che un argomento ad auctoritatem. Infatti, la professione di fede di alcuni filosofi poteva forse essere strumentale a garantirsi protezione politica o a conformarsi a prescrizioni di fede della comunità di appartenenza; in quei casi esse perderebbero molto dell’alone nobile che possiedono a prima vista. Se fra 150 anni, l’ipotetica adesione al Cristianesimo di un mio lontano discendente, nel frattempo iscrittosi a Forza Italia, fosse giustificata sulla base dell’argomento che un celebre filosofo liberale di Forza Italia era anche cristiano, chi potrebbe ricavare da tale rivelazione un argomento decisivo perché un liberale debba essere necessariamente cristiano? Se noi non possiamo accertare, se non a prezzo di un poderoso lavoro filologico, le vere intenzioni retrostanti alcune frasi sul Cristianesimo pronunciate, per esempio da Kant, possiamo più ragionevolmente tralasciare gli aspetti del suo pensiero più direttamente collegati con le sue vicende personali di fede ed enfatizzare aspetti più promettenti della sua concezione morale, al punto da elaborare una concezione dell’autonomia morale molto più radicale di quanto inizialmente pensato da Kant. Un lavoro filosofico ambizioso come quello di M.P avrebbe dovuto fare almeno una delle due cose: o argomentare filologicamente a favore delle sue riletture dei classici del liberalismo o mostrare come argomentativamente esse possano essere conciliate con la ricezione e interpretazione condivisa di quegli autori. Mancando entrambe, l’uso di frasi fuori contesto può costituire l’elegante intestazione epigrafica del libro o dei capitoli, ma non una convincente argomentazione a favore delle tesi dell’autore.

L’obiezione instrumentum regni. Raramente tesi tanto ardite, ai nostri giorni, sono affermate con tanta baldanza. La baldanza risiede nel collegare in maniera esplicita la costruzione di una nuova sovranità politica, l’Unione Europea, con l’adozione di un apparato ideologico-religioso. Una simile proposta rende minacciosa la costruzione politica che su quelle fondamenta vorrebbe erigersi e impoverisce il cristianesimo, e il cattolicesimo, del loro afflato universale, collegandoli in maniera speciale a una porzione esigua del mondo, l’Europa. Il progetto politico diviene minaccioso perché potenzialmente esclusivo ed escludente di chi non si riconosca nella concezione liofilizzata di Europa di M.P.; la religione è degradata, a mio parere, perché si associa in maniera troppo scoperta ad un progetto politico, divenendo appunto instrumentum regni. Anche a questo proposito, è singolare l'entusiasmo con il quale le gerarchie vaticane plaudono ad un simile progetto: come possono tollerare che la loro fede diventi mezzo di giustificazione di un processo politico su cui non hanno un controllo diretto? Non temono di poter essere essi stessi utilizzati per fini che non sono religiosi ma politici?

PARS COSTRUENS

Nella parte precedente ho dato a intendere che alcune tesi di M.P. potessero essere accolte, seppure con beneficio d’inventario, al fine di mostrare che anche se vere esse non avrebbero potuto sottrarsi comunque a critiche esterne ad esse. Adesso intendo svolgere un’argomentazione più costruttivamente slegata dalle parole del senatore.

Una riflessione su cosa sia il liberalismo e come sia più coerente intenderlo, alla luce dei suoi presupposti teorici e della sua genesi storica, è cosa assai complessa, ma si può cercare di semplificare tale coacervo di questioni riducendolo ai suoi elementi primi, siano essi storici o teorici. A voler trovare uno sfondo teorico accettabile e informato di cosa sia il liberalismo, si può iniziare da qui, se invece si desidera una riflessione meno filosofica e più “politica” si può guardare qui. Ovviamente esistono molte forme di liberalismo: andando in ordine sparso, vi sono versioni repubblicane; deliberativiste; versioni market friendly; proposte interessate alla neutralità della sfera pubblica, ecc. Tutte però sono interessate ad argomentare a favore della libertà individuale, seppure con mezzi che possono apparire opposti (e.g. espansione o contrazione della spesa sociale). In linea di massima si può dire che il fine normativo e politico-morale al quale il liberalismo tende è la realizzazione della libertà dell’individuo.

Questo obbiettivo si realizza in una molteplicità di ambiti: nella limitazione dei poteri dello stato sia dal punto di vista politico, con la divisione dei poteri fra organi separati dello stato, sia dal punto di vista economico, con la generale promozione delle libertà di intrapesa economica; sia dal punto di vista morale con l’ascrizione agli individui di una specifica condizione di dignità. Le basi filosofiche dell’ideologia liberale sono le più varie, anche se si riconoscono degli elementi costitutivi orginari che sono: il giusnaturalismo, che dovrebbe fondare l’eguale dignità riconosciuta in capo agli individui; il contrattualismo, che pone dei vincoli di legittimazione alla fondazione e all’esercizio del potere; e il principio della libertà economica, inizialmente associata a movimenti come quelli dei fisiocrati, dai quali peraltro proviene il motto celebre del laissez-faire. Per quanto la definizione che ho proposto sopra sia assolutamente minimalista, essa coglie l’aspetto decisivo di cosa significhi essere liberale, ovvero la protezione e l’espansione della libertà degli individui. Credo che questa mossa sia necessaria per trovare un punto di appoggio che permetta di abbandonare le secche del dottrinarismo testuale che ci impelagherebbero in oscure discussioni su quale autore abbia meglio espresso il liberalismo o lo abbia incarnato in maniera più compiuta. Andiamo dunque alle implicazioni che derivano dalla mia assunzione normativa che sarà minimale, ma è nondimeno assai esigente. Quale che sia la parabola storica che si preferisce per spiegare la genesi del liberalismo, quali che siano gli autori che si privilegiano, lo sfondo assiologico dell’individualismo è chiaro e prevede che alla libertà dell’individuo spetti una priorità di diritto su pretese contrarie da chiunque avanzate e a qualunque titolo: politico, morale o economico.

Se la mia idea minimale di liberalismo è dunque condivisibile non si vede come il liberalismo potrebbe sposare una sola religione, connotata con i tratti comunitari di una tradizione estesa addirittura a tutta l’Europa, assunta inoltre come mezzo per consolidare consenso intorno ad un progetto politico europeista. Si consideri inoltre che i contenuti di quella religione siano alienati ad un potere, quello ecclesiale della Chiesa Cattolica, che presenta tutti i tratti di illimitatezza di funzioni e potere contro i quali il liberalismo si è sempre opposto. L’idea di M.P., del cristianesimo come religione civile di una comunità politica, sarebbe già di suo in contrasto con l’ideale dell’autonomia morale individuale, che subirebbe una amputazione delle sue facoltà di giudizio religioso, allo scopo di conferire stabilità a una costruzione politica. Questa ascrizione teorica è intollerabile, sotto qualunque punto di vista, perché renderebbe le coscienze degli uomini un mezzo per la realizzazione di finalità politiche eteronome.

Tale idea appare ancora più scriteriata se poi il contenuto di quella religione civile non solo è inteso in senso collettivistico e storicistico (che deve valere per tutti in quanto comunità storicamente determinata da quanto accaduto in passato) ma la precisazione dei suoi contenuti è demandata all’autorità che invoca per sé stessa un potere spirituale infallibile e non soggetto ad alcun controllo! Come può tutto ciò definirsi in linea con le idee cardine del liberalismo di preservare la libertà individuale e di limitare il potere dello stato e di ogni entità autocratica?

PS: il libro di M.P. che ho discusso sopra è stato presentato in diversi articoli di giornali, ma fra i tanti mi preme segnalare questo. Più volte si è ironizzato sui giornalisti del Corriere, per quello che dicono, per quello che tacciono e per come fanno entrambe le cose. Anche questo articolo, sebbene non discuta questioni economiche, si espone alle stesse critiche. La giornalista non esprime nessun pensiero autonomo sul libro che, in teoria starebbe recensendo, ma si limita a intercalare la sua prosa, invero assai poco utile, alle frasi virgolettate di M.P., che dunque si gestisce in tutta autonomia una sorta di spazio pubblicitario. Fin qui dunque saremmo ancora nel campo delle omissioni della giornalista. Il peggio però viene quando la signora Calabrò si lancia in simili affermazioni:

"...Si potrebbe dire che le «equazioni laiche» di Pera — ordinario di Filosofia della scienza a Pisa, studioso di Karl Popper, già coautore insieme all'allora cardinale Ratzinger del bestseller Senza radici — a livello della «ragion pratica» o della phronesis aristotelica, fanno il paio con quello che sul piano della metafisica è il teorema di Gödel, che dimostra matematicamente la necessità dell'esistenza di Dio."

Intanto, cosa c'entrano la phronesis aristotelica e la ragion pratica di Kant con le affermazioni di M.P.? E poi, da quando, un teorema matematico dovrebbe dirimere una questione relativa all'esistenza di Dio? Infine, di quale teorema sta parlando, visto che il matematico boemo ne ha dimostrato diversi, di teoremi?

Ecco, è proprio scorrendo queste righe che si percepisce la profondissima crisi della cultura umanistica italiana: essa si caratterizza ancora per quest'uso intimidatorio delle parole e degli autori classici, buttati tutti in un unico calderone (Aristotele, Kant e Godel), allo scopo poi, neppure nascosto, di giustificare progetti politici e ideologici di tipo clericale.

 
 
 

Notizie dalla scuola......Modulo o maestro unico?

Post n°38 pubblicato il 09 Dicembre 2008 da amministratore_blog

Ho iniziato la mia carriera d'insegnante di scuola elementare come insegnante "prevalente". Le prime sperimentazioni di tempo prolungato prevedevano la prevalenza di un docente sulla classe a 24 ore con il completamento di un altro insegnante. Non c'era la lingua inglese e non ricordo la presenza dell'insegnante specialista di religione. L'esperienza mi piacque molto, ma l'anno successivo mi ritrovai a far supplenza come insegnante unica. Entrata in ruolo cercai di insegnare nelle scuole dove si attuava il tempo prolungato e così iniziai le ie varie esperienze di team.

Dopo quasi venticinque anni d'insegnamento, penso che il modulo sia valido quando:

  • È formato al massimo da 4 insegnanti (5 con sostegno)
  • Non ci sono insegnanti a scavalco (o part time rigido)
  • È stabile
  • È ben coordinato
  • C'è condivisione di stili educativi
  • Rispetta i criteri di chiarezza e trasparenza
  • La suddivisione dei compiti  e dei carchi di lavoro è equilibrata
  • La responsabilità educativa dei due gruppi classi è suddivisa equamente

Se non sussistono questa condizioni è molto meglio l'insegnante prevalente affiancato dagli specialisti. E' l'insegnante che sa di essere responsabile della gestione educativo - didattica del gruppo, mantiene costantemente i rapporti con i genitori, coordina il team  (le ore di programmazione sono essenziali, due sono troppo poche vista la necessita di dover continuamente documentare quanto fatto) e stabilisce con gli alunni, cosa importantissima, un rapporto relazionale affettivo essenziale per la formazione.

Può essere che l'insegnante prevalente (anche secondo me l'insegnante unico non può più esistere) possa diventare deleterio, se non all'altezza del suo compito...ma, scusate, vi fareste operare da un chirurgo incompetente? E perché dovremmo lasciare, invece, la formazione dei nostri figli a persone che non sanno e, quindi, non dovrebbero esercitare il loro mestiere?

Il modulo permette le ore di contemporaneità. Una manna dal cielo, viste le problematiche dei gruppi classe della società moderna. Ma, spesso, vengono utilizzate per la sorveglianza durante il servizio mensa, ne rimangono poche e non in tutte le classi, e creano così una guerra tra poveri (a volte sono anche mal utilizzate, è secondo voi plausibile programmare le verifiche di classe durante le ore di contemporaneità?)

Allora qui potrebbe entrare la questione dell'insegnante di sostegno. Una delle tante contraddizioni del nostro sistema scolastico: l'insegnante di sostegno è assegnata se sono presenti solo alunni certificati, ma l'insegnante di sostegno è sostegno alla classe, non all'alunno. Se un genitore, anche in presenza di una patologia, non vuole certificare il proprio alunno (non è un bollino blu di qualità) la classe non avrà il sostegno, anche se l'insegnante di classe dovrà fare da sostegno al bambino  e al gruppo. Non è raro oggi,trovare nelle classi casi di alunni in grave situazione di disagio, senza la presenza di patologie certificabili, alunni che destabilizzano le dinamiche del gruppo, se i problemi sono comportamentali, alunni con disturbi specifici di apprendimento che necessitano di strumenti compensativi per l''apprendimento, alunni stranieri che senza un aiuto  (che non possono avere  in famiglia, come gli altri compagni) faticano ad imparare la nostra lingua, soprattutto a livello di studio.

Perché non assegnare un insegnante di sostegno, indipendentemente dalla presenza di certificazioni, ogni 5 classi o 100 alunni anziché utilizzare le contemporaneità?  Si potrebbero evitare anche le classi ponte per gli alunni stranieri. A volte negli Istituti Comprensivi (validissimi) abbiamo situazioni di sostegno con orario più che ideale in un ordine, mentre nell'altro si è all'osso, non sarebbe auspicabile un organico funzionale in verticale degli insegnanti con questa specializzazione?

E per la mensa perché non utilizzare i precari?

Altro punto dolente: la formazione. La formazione dei docenti andrebbe resa obbligatoria, incentivata e verificata la ricaduta sull'insegnamento. Quando fare formazione? Effettivamente durante l'attività d'insegnamento è difficoltoso trovare le energie per aggiornarsi, ma siamo anche l'unica categoria, credo, che non lavora anche quando non è in ferie,vedi periodo tra la fine della scuola e il 30 giugno, i Dirigenti Scolastici dovrebbero poter organizzare la formazione obbligatoria in quel periodo.

Un'ultima cosa: i costi dell'auto aggiornamento e dei sussidi didattici. Bisognerebbe pensare ad un bonus ad ogni inizio di anno scolastico, direttamente nello stipendio.

 
 
 

Questione meridionale? Basta soldi Statali, ora le giovani imprese ed il libero mercato!

Post n°35 pubblicato il 05 Dicembre 2008 da amministratore_blog

Il presidente Napolitano, in questi giorni in visita a Napoli, ha esortato la politica ad una maggiore «attenzione al problema del Mezzogiorno e al rapporto tra Mezzogiorno e sviluppo nazionale» (tutte le virgolette riferiscono alle parole del presidente, così come riportate dalla stampa di ieri e l'altro ieri). Esortazioni alla politica da parte di alte cariche istituzionali sono quasi per necessità esercizi di retorica, appelli ai buoni sentimenti. Questa non fa eccezione. Ma vale la pena di discuterla in qualche dettaglio, per l'idea implicita della Questione Meridionale che ne traspare.
Innanzitutto, il presidente teme gli effetti della congiuntura sul Sud, i «fenomeni di recessione [...] che incombono sui già precari equilibri economici e sociali [...] nelle regioni meridionali». È difficile vedere in queste parole altro che la riproposizione della politica dell’emergenza. Nessuno dei «precari equilibri» nelle regioni meridionali ha in realtà a che fare con la crisi. Il problema dell’economia del Sud, la Questione Merdionale, è questione strutturale. Una effettiva convergenza tra le regioni italiane in termini di prodotto interno lordo pro-capite si è avuta solo fino agli anni 60. La crescita del Pil per lavoratore dal 1980 al 2000 al Sud è stata dell’ordine del 40-45% mentre è stata del 240% in Irlanda, partendo da livelli comparabili (da un paper di M. Maffezzoli per il Sud e dati Penn World Table per l'Irlanda). Davanti a dati di questo tipo, ogni preoccupazione congiunturale scompare nella sua irrilevanza.
Il secondo elemento degno di nota nelle considerazioni del presidente Napolitano riguarda la spesa pubblica. Lamentare i tagli al fondo per le aree sottoutilizzate (10 miliardi per il periodo 2007-2013 al Sud), richiedere che il federalismo fiscale debba comunque «garantire i necessari trasferimenti da Nord a Sud», propone logiche di spesa non condizionate ai risultati. Emergenza dopo emergenza, trasferimenti incondizionati dopo trasferimenti incondizionati, l’economia del Sud è ormai dipendente da quella del Nord. In solo nove regioni in Italia i trasferimenti fiscali sono positivi (i tributi raccolti sono superiori alla spesa pubblica - dati Ministero delle Finanze, 2005) [ho corretto un errore, grazie Marco e Alberto]: Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana, Veneto, Friuli Venezia Giulia. Il trasferimento fiscale pro-capite di un cittadino lombardo è di oltre 5.200 Euro; quello di un piemontese di 2.300 Euro (dati da LiberoMercato).
Questa situazione si ripete dal dopoguerra. A mancare non è affatto «attenzione verso il Sud»; piuttosto mancano i risultati di tanta attenzione. La spesa per trasferimenti al Sud è un investimento per il paese. Senza un ritorno, in termini di crescita del Sud, l’investimento è fallimentare. Bisogna avere il coraggio di condizionare quindi l’investimento al ritorno, di rompere la dipendenza economica del Sud dai trasferimenti, anche a costo di una difficile transizione.
Ma perché i trasferimenti di oltre 50 anni non hanno avuto effetto? La risposta è nel ruolo del settore pubblico e della grande impresa (finanziata dal settore pubblico) nello sviluppo economico. La crescita non si ha distribuendo spesa pubblica, costruendo cattedrali nel deserto, sussidiando imprese pubbliche e private improduttive, sostenendo salari indipendenti dalla produttività. La crescita si ha attraverso attività imprenditoriali produttive e profittevoli, cui siano garantite istituzioni e amministrazioni pubbliche efficienti, bassi livelli impositivi, e flessibilità nel mercato del lavoro. Il caso dell’Irlanda è a questo proposito sintomatico. 
Purtroppo anche nella parte più costruttiva del discorso del presidente, laddove si richiede una «autocritica e un'autoriflessione», a ben vedere ci si rivolge agli amministratori della cosa pubblica piuttosto che non alla società civile. È indubbio che una amministrazione pubblica più efficiente sia importante per il Sud. La spesa pro-capite per la scuola e per la sanità è simile al Nord come al Sud, ma gli studenti del Sud fanno peggio nei test Pisa e la qualità delle cure mediche al Sud è inferiore (come evidenziato dalla elevata migrazione verso la sanità del Nord; grazie ad Alberto Lusiani per il riferimento ai dati.). È indubbio anche che la classe politica dirigente al Sud sia responsabile di inefficienza e talvolta di corruzione. Ma la classe politica è espressione della società civile. Quando una economia è dipendente da trasferimenti fiscali, la società civile tenderà ad esprimere una classe politica in grado di massimizzare tali trasferimenti, anche a costo di enormi inefficienze. In questo contesto, richiedere una «autocritica e un'autoriflessione» alla politica è un inutile appello ai buoni sentimenti. 
E il cerchio dell’analisi si chiude. Il Sud ha bisogno di crescita e di efficienza. La ricetta offerta è ancora una volta il ricorso alla spesa pubblica incondizionata, motivata dall’emergenza. La stessa ricetta utilizzata dal dopoguerra in poi. Ma la spesa pubblica incondizionata induce dipendenza economica, distrugge la crescita, e favorisce lo sviluppo di una classe politica inefficiente. È davvero questo il meglio che possiamo offrire al Sud del paese?

A Cura di Alberto Bisin, by www.NoisefromAmerika.org

 
 
 

LA CRITICA DEL GIORNO....Libero mercato in Libero Stato!

Post n°34 pubblicato il 04 Dicembre 2008 da amministratore_blog

Il Decreto anti crisi varato dal Governo prevede sostegni alle sole banche con azioni quotate in borsa. Perchè solo a loro? Sono forse la maggioranza, per numero o per risparmi raccolti? Sono forse, più delle altre, in difficoltà economiche a causa di eventi esterni o altri fattori a loro non imputabili? Hanno forse un minore accesso, rispetto alle altre banche, ai mercati dei capitali? Difficile trovare una ratio convincente.

Il sostegno statale limitato alle sole banche quotate è disfunzionale al perseguimento degli obiettivi di politica economica individuati dal Legislatore, distorsivo della libera concorrenza nel settore bancario ed iniquo laddove privilegia proprio quelle banche orientate alla generazione di extra profitti anziché alla sana e prudente gestione.

 
 
 

Posto di lavoro a vita e garantito? Autocritica e solizioni.

Post n°33 pubblicato il 03 Dicembre 2008 da amministratore_blog
 

PREMESSA:
In questi pochi mesi, sul nostro Blog spesso si sono cercate soluzioni alternative, terze vie che a qualcuno potrebbero sembrar nuove o eretiche. Qualcuno potrebbe dire "le nostre origini vengono dal' MSI (Movimento Sociale Italiano), era sociale? Siamo SOCIALI, e questo potrebbe anche andare bene, anche se di acqua sotto i ponti ne è passata. Così sotto grande spinta "sociale" partono i manifesti: "Contro il precariato", "no alla liberalizzazione" e farfuglie di ogni genere, che spesso si fa fatica a capire se il manifesto sia il tuo o quello della CGIL.
Spesso invece si tende a cavalcare argomenti sul precariato che infervorano la gente, spesso ignara della politica del lavoro in Europa o d'oltre Oceano.
Ma come al solito noi di Azione Giovani siamo "razza a parte", unico movimento giovanile che a mio parere sarà capace di divenire mediatore tra i giovani e la politica di palazzo, che mai abbiamo amato ma, con la quale spesso, tocca confrontarsi.
Così in un guizzo di avventuriera navigazione informatica che ti scopro? Andiamo a vedere un pò...

ALCUNE RIFLESSIONI:
"Come si vive in Inghilterra o negli Stati Uniti dove chiunque può arrivare in ufficio o in fabbrica la mattina, essere convocato dal capo del personale e perdere il lavoro, senza troppe spiegazioni, in un processo certamente traumatico, ma vissuto con serenità da entrambe le parti?
La flessibilità del lavoro è regola non solo in Inghilterra e negli Stati Uniti, ma in tutte le economie che sono cresciute a ritmi sostenuti negli ultimi anni, in Australia, in Canada, in Irlanda, in Brasile e naturalmente nelle nuove tigri asiatiche Cina ed India."

LAVORO LIBERALIZZATO "VERAMENTE"
"È opinione condivisa che un mercato del lavoro liberalizzato giovi all'economia del paese che lo adotta. Nei paesi nei quali le aziende possono ridurre il personale modulandolo secondo le loro esigenze, c'è più concorrenza, più crescita e, paradossalmente, più occupazione. Ed è ovvio che sia così: quando le aziende sono più competitive, crescono ed assumono senza il timore che il personale in più si tramuti in zavorra che ti tira sotto nei momenti difficili.
E' solo da noi, in Italia ed in pochi altri paesi dell'Europa Continentale, che imprenditori e capi azienda passano il tempo a lambiccarsi il cervello su come "non assumere" vedendo in ogni neo assunto un'inscindibile obbligazione quarantennale risultato di questo sistema è un basso tasso di occupazione complessiva - meno del 60% in Italia a fronte di quasi l'80% dell'Inghilterra o degli Stati Uniti. Il nostro tasso di occupazione femminile poi è un record in negativo. E i giovani? Disoccupati o precari veri sottopagati, ovvio risultato di uno sistema concepito per proteggere chi il lavoro a tempo indeterminato l'ha già."

E CHI PERDE IL LAVORO?
"In oltre, chi il lavoro lo perde fatica a trovarne un altro. Più della metà dei disoccupati italiani lo sono da più di un anno. Negli Stati Uniti, il tempo medio di disoccupazione è di appena un mese."

IN SOLDONI? COME SI SUL DIRE?
"Sono convinto che se in Italia il mercato del lavoro venisse liberalizzato e le imprese potessero ridurre il personale utilizzando adeguati ammortizzatori sociali, si creerebbero centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro ed il nostro tasso di occupazione salirebbe rapidamente per raggiungere quello dei paesi più evoluti."

MA SI RICORDI CHE SIAMO IN ITALIA!
"Bisogna innanzitutto chiarire che là dove il sistema consente di ridurre il personale non vuole affatto dire che le aziende licenzino a raffica. Al contrario. Un'azienda che opera in un mercato liberalizzato e quindi competitivo ha tutto l'interesse a tenersi stretti i dipendenti che ha formato, sui quali ha investito, che hanno acquisito esperienze, competenze e conoscenze all'interno ed all'esterno dell'organizzazione.
Per la stragrande maggioranza dei lavoratori dei paesi che hanno liberalizzato il mercato del lavoro, la flessibilità si traduce in un rapporto lavorativo lungo, lunghissimo, spesso a vita. Nelle grandi multinazionali americane o inglesi, le icone dell'industria mondiale, come la GE, l'IBM, la Microsoft, la Shell o la Vodafone, la grande maggioranza dei lavoratori passa nella stessa azienda tutta la vita lavorativa pur potendo, teoricamente, perdere il lavoro ogni giorno."

MA ALLORA QUANDO UN LAVORATORE VIENE LICENZIATO?
FINORA LA VITA DI QUESTO FANTOMATICO DIPENDENTE E' TUTTA ROSE E FIORI. FACCIAMOLO TRIBOLARE UN PO'!
"Gli unici momenti nei quali un datore di lavoro ha l'interesse a licenziare sono o quando l'azienda è in crisi o quando il lavoratore non risponde alle esigenze aziendali."

VERAMENTE? SPESSO A CAUSA DELLA NOSTRA POLITICA DEL LAVORO, FANNO PRIMA A FALLIRE LE AZIENDE CHE AD ESSERE LICENZIATI I DIPENDENTI, PER NON PARLARE POI DELLA PRODUTTIVITA'! SFIDO CHIUNQUE A LICENZIARE UN DIPENDENTE CHE MAL LAVORA, ALLORA ANDIAMO A VEDERE PROPRIO QUESTO SECONDO CASO. 
"Nel secondo caso, quando il lavoratore non risponde alle esigenze aziendali, il tutelarlo a tutti i costi, oltre a minare la competitività dell'impresa, stravolge l'equilibrio del rapporto di lavoro. Per il lavoratore indesiderato presentarsi in ufficio o in fabbrica ogni giorno, svolgendo per lunghe ore un'attività non più apprezzata in nome della sicurezza del posto del lavoro è frustrante, poco dignitoso e può davvero rovinare la vita. Nei paesi che hanno liberalizzato il lavoro le opportunità sono molte e a portata di mano ed è per questo che, negli Stati Uniti o in Inghilterra, i disoccupati restano tali per poche settimane.
Per chi lavora in un'azienda che non è obbligata a tenerlo alle sue dipendenze, la continuità del rapporto di lavoro è di per sé un apprezzamento delle sue capacità. Sarà motivato ad affrontare il lavoro ed anche i rapporti con capi e colleghi saranno vissuti con la consapevolezza di chi può avere altre opportunità. Il rapporto di lavoro in un mercato flessibile è un po' come il matrimonio in un paese che permette il divorzio: se continua, vuol dire che i coniugi sono felici o almeno non troppo infelici di stare insieme.

QUINDI SE C'E' MOLTA RICHIESTA, ANCHE IL DATORE DI LAVORO NON E' POI COSI' TRANQUILLO, PUO' ESSERE COLPITO DALLE MIGLIORI CONDIZIONI CHE I SUOI CONCORRENTI POSSONO OFFRIRE AI SUOI LAVORATORI PIU' PRODUTTIVI.
"Certo! Nel mondo della flessibilità nemmeno il datore di lavoro può stare tranquillo: anche lui deve competere sul mercato per trattenere i dipendenti, soprattutto i migliori, e lo farà motivandoli a restare, pagandoli meglio, investendo nella loro formazione e assicurando loro migliori condizioni di lavoro.
Questo mondo del lavoro virtuoso, fatto di lavoratori impegnati a dare il meglio di sé, liberi di scegliere tra le opportunità che si presentano loro, e di datori di lavoro impegnati a motivare e premiare i propri dipendenti nel timore di perderli sembra un sogno irrealistico ed irraggiungibile per il nostro paese."

SPENDIAMO LE ULTIME RIGHE PER DARE UNO SGUARDO AD UNA FUTURA (SPERIAMO) ITALIA...
"Un mercato del lavoro flessibile, introdotto in Italia, sarebbe uno strumento decisivo per il recupero della competitività delle nostre imprese e della nostra economia. Un mercato del lavoro flessibile è poi il prerequisito essenziale per la liberalizzazione del mercato dei servizi del nostro paese. Fa sorridere, soprattutto per chi ha lavorato nel mondo anglosassone, ascoltare plotoni di politici nostrani discettare di liberalizzazioni, citando le esperienze inglesi su questo terreno, senza nemmeno prendere in considerazione la liberalizzazione del mercato del lavoro.
Fare tutto questo permetterebbe anche di abbandonare la cultura del "posto garantito" imperante in gran parte del nostro paese, per passare alla cultura della dignità del lavoro, della professionalità, dell’eccellenza in tutto quello che si fa. L’impegno, il merito, la ricerca dell’eccellenza sono principi che la nostra scuola deve insegnare fin dalla prima elementare.

UN BUON AUSPICIO....
Sono convinto, ed attingo di nuovo alle mie esperienze, che se riusciremo a toglierci di dosso la cultura del "posto" sicuro, degli aumenti uguali per tutti e della tutela ad ogni costo di chi non si impegna, il nostro formidabile paese, ricco di talenti e di intelligenze come nessun altro, riprenderà a correre e a riconquistare posizioni di preminenza nell’economia globale.

 
 
 

IL DOSSIER DI TuttoscuolA "Altri criteri di confronto"

Post n°29 pubblicato il 19 Novembre 2008 da amministratore_blog

Il 22 ottobre il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il ministro della pubblica istruzione Mariastella Gelmini hanno presentato un dossier intitolato "Tutte le bugie della sinistra", con lo specifico intento di "rispondere con dati e cifre al mare di falsità della sinistra". Poche ore dopo il Partito democratico ha replicato con un controdossier, punto su punto, intitolato "Tutte le bugie del premier sulla scuola". Ciò che colpisce è che entrambi i dossier contengono imprecisioni, forzature e anche veri e propri errori. Il "dossier verità" di Tuttoscuola evidenzia incongruenze e approssimazioni e riporta tutti i dati per un confronto corretto.

D’altro canto il dibattito in corso sulla scuola, fortemente condizionato dalle esigenze di semplificazione della comunicazione mediatica, fa sempre più un uso disinvolto dei dati, spesso piegati a sostenere i ragionamenti della parte politica che li espone, e la cui precisione è subordinata all’efficacia dell’argomentazione. Capita così di sentire scambiare miliardi con milioni (di euro).....

....."Continua leggendo tutto il Dossier(formato PDF)" 

 

 
 
 

NESSUNA PENA, NESSUNA SOLIDARIETA'

Post n°27 pubblicato il 30 Ottobre 2008 da amministratore_blog

Ieri a Roma, come da copione si è svolta la manifestazione degli Studenti, o quasi.
A questa manifestazione ha aderito anche il Blocco Studentesco, sperando probabilmente di accaparrarsi qualche voto e consenso tra le masse studentesche, attingendo al bacino di ignoranza della sinistra che da giorni manifesta contro una riforma ed un Decreto Legge che non conosce.
Ma la gioia e l'allegria della beata ed ignorante folla, viene ad un tratto travolta da una furia violenta, di due gruppi quello dello della sinistra e quello del Blocco Studentesco. Probabilmente qualcuno si aspetterebbe della comprensione, della solidarietà al Blocco Studentesco, poichè di destra, e bene chi attende ciò rimarrà deluso. L'unica parola che uscirà dalla nostra bocca sarà "CONDANNA".
Pretendiamo che questi gruppi violenti e ignoranti, pronti a sfruttare le masse a loro uso e consumo vengano condannati per gli scontri di ieri, questi idioti, perchè di questo si tratta, hanno devastato una piazza e leso la libertà degli studenti di manifestare pacificamente, anche se per motivazioni che noi personalmente non condividiamo, che questi violenti, zoticoni vadano nell'unico posto che merita la loro presenza: il carcere.
Gli Italiani sono stufi di questi teatrini che dagli Stadi alle piazze devastano le nostre città....

 
 
 

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1) Mobilità del lavoro
2) Politica dell'affitto
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