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Il razzismo del Dna

Post n°1283 pubblicato il 18 Ottobre 2007 da Antalb
 

James Watson ha un sorriso da predatore. Da qualche parte nei suoi cromosomi è nascosta la parola genio. Nel 1962 ha vinto il premio Nobel per la medicina. È lui l’uomo che ha scoperto la struttura del Dna, in qualche modo è riuscito a leggere nella mente di Dio. Quello che ha visto non deve averlo rassicurato. A Londra, mentre presentava il suo ultimo libro, ha detto che i neri sono meno intelligenti dei bianchi. Boom. Stupore e vergogna. Quando l’hanno raccontato alla sua amica Rita Levi Montalcini quasi sveniva: «Davvero Watson ha detto che i neri sono meno intelligenti? Non ci credo, l’avrà detto Storace». Sbagliato. Storace su questi terreni non si muove, rischia la lapidazione. Un genio sì e qualche volta è razzista. Come Watson: «Chiunque abbia avuto a che fare con un impiegato di colore sa che non è vero che tutti gli uomini sono uguali». E ancora: «Tra una decina d’anni saremo in grado di identificare i geni responsabili delle differenze tra le intelligenze».

La verità è che in quest’era in cui l’uomo gioca con i suoi cromosomi, il limite tra scienza e morale si sta facendo molto sottile. E questo è un rischio. Il razzismo c’è sempre stato: i greci consideravano inferiori tutti i barbari, cioè il resto del mondo. Gli ebrei consideravano «gentili» i popoli non baciati da Dio. I conquistadores spagnoli massacravano Aztechi, Inca e Maya lavandosi la coscienza con una scusa metafisica: «Non sono cristiani, non hanno l’anima». Thomas Jefferson, padre della costituzione americana, condivideva il letto con Sally Hemings, bellissima schiava, colta, intelligente e passionale, ma non è mai riuscito a considerare i neri uomini liberi. Hitler ha trafitto con una stella gialla gli ebrei, ha tatuato un numero sui loro polsi e li ha bruciati. Pol Pot ha semplicemente cancellato tutti i cambogiani che sapevano leggere e scrivere. I musulmani non concepiscono gli infedeli, i francesi raccontano da sempre barzellette sull’intelligenza dei belgi.


Il razzismo etnico, religioso, economico fa schifo. Quello scientifico e genetico è ancora più insidioso. Ed è il male oscuro di questa epoca. La scienza è diventata un tabernacolo di verità. È l’assoluto. È la spada che divide il bene dal male. È l’oracolo a cui si affidano le risposte finali, una su tutte: chi siamo. Chi è l’uomo. La scienza, nella coscienza degli umani, ha emarginato filosofi e teologi. È la vittoria dell’uomo come carne, macchina, tecnica, filamento di Dna. È l’uomo che ha rinnegato il cielo. Magari non è un problema, ma forse è arrivato il momento di dire che le risposte etiche non passano attraverso la scienza. C’è un orizzonte che non si può superare.

Watson è un genio, ma le sue teorie non sono legge assoluta. Restano le opinioni di un premio Nobel. L’ultimo, disperato, tentativo di un genetista di affermare che l’intelligenza si legge nel colore della pelle. Watson viene dopo gente come Camper e Lavater che vedevano nella fisiognomica la morale di una persona. Viene dopo Carus che cercò di dimostrare che esiste un popolo «solare», pelle e occhi chiari, e un popolo «notturno», di colore scuro. Viene dopo Gobineau, teorico nazionalista della superiorità della razza tedesca. Viene dopo Galton, che all’inizio del Novecento fondò in Inghilterra il laboratorio di eugenetica nazionale. Lì si studiava un sistema per incrementare la riproduttività degli individui migliori e ridurre i deboli, i malformati, gli inadatti. È la stessa grande paura che viviamo oggi con la selezione degli embrioni. Quella sindrome di Sparta, quella rupe asettica e indolore come un laboratorio da cui buttare tutti gli embrioni «sbagliati».

Watson ha ragione: gli uomini non sono tutti uguali. Sono tutti diversi, ma ognuno per conto proprio. Niente insiemi, professore. Niente categorie. Il bianco e il nero lasciamoli agli scacchi.

 
 
 
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