GIORNI STRANI

Vita di comunità: mai come ora dobbiamo fare appello a ogni nostra singola cellula. E' giunto il momento di imprimere una violenta accelerazione all'intelligenza della nostra specie, come una frustata di tramontana: l'occhio non sarà occhio e la mano non sarà più mano, negli anni venturi.

Creato da sergioemmeuno il 22/04/2011
 

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Il nome e cognome dei personaggi appartenenti ai racconti e ai tag "frammenti di scrittori in erba" e "il mio romanzo", come pure i fatti narrati, sono frutto della mia fantasia.

 

 

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La qualificazione per Tarna 1

Post n°172 pubblicato il 28 Agosto 2011 da sergioemmeuno
 

 Difficile dire perché ci tenevamo così tanto a fare bella figura. Di sicuro sarebbe stato un grosso smacco non emulare l’impresa delle ragazze; oggigiorno è duro il confronto con loro: a differenza dei tempi passati, il gentil sesso è molto più determinato e smaliziato,  galoppa in spazi aperti e inala aria densa di libertà.

In secondo luogo, sull’intero evento si era venuta a creare tutta un’atmosfera vibrante di eccitazione, attesa, calore: merito di Gabriel e dello Zio con quel  profetizzare un vento nuovo in ogni attività; ma qualche minuscola particella di energia la sentivamo sbirciando lembi di giornali locali all’edicola di Torre dell’Uovo, od osservando di sottecchi, negli ultimi giorni dei fichi, gli occhi e le movenze della comunità del borgo. Globi carichi di frenesia e d’incoraggiamento, seppure silenziosi, faville ardenti di contadini e pastori, di domestiche e bambini birichini. Gente marginale ma solida.

Poi, non meno importanti, vi erano le motivazioni squisitamente personali. La nostra rabbiosa energia, alimentata e tuttora compressa fra le geometrie dell’Officina, bisognosa di esplodere in qualche maniera, per non andare avanti con altre scazzottate puerili o assemblee inquisitorie. A tal proposito, Pat mi aveva confessato che pure loro covavano una certa qual rabbia repressa, con la sola differenza che riuscivano abilmente a dissimularla.

Infine, dopo svariati giorni di chiacchiere, cinguettii, fantasticherie, adunanze, bicchieri conviviali, confessioni e pugnalate alle spalle, alleanze e pippe mentali, si presentava l’occasione per ottenere qualcosa di concreto, qualcosa da raccontare alle generazioni future.

Il campo di terra sembrava più grigio e arido rispetto alle altre due partite. Fra un’ora e mezza, uno dei due l’avrebbe ingoiata quella terra; e ce n’era a sufficienza. E che fine avevano fatto tutti quei castagni che ci frusciavano attorno le volte precedenti?

Negli spogliatoi il trainer ci inculcò le ultime raccomandazioni: giocare raccolti, non strafare e cercare di risparmiarci per gli ultimi venti minuti. Tuttavia la montagna ci pareva insormontabile. Le tribune in cemento erano costituite da una decina di piani.

Entrammo sul terreno di gioco e subito notammo che gli avversari già ci attendevano da un bel pezzo, gagliardi e tonici, avvelenati e con la voglia di strapparci le mutande davanti a tutti. Facevano paura, le cosce e i loro polpacci stragonfi ci irridevano. I fischi e i cori sugli spalti gremiti – non ci rendevamo conto di quanti fossero lassù –  ci giungevano come un monocorde sottofondo di bambagia. Dovevamo mantenere la mente sgombra: i troppi pensieri ci avrebbero, inevitabilmente, intrappolati nell’idea paludosa di una deprimente eliminazione. Aguzzando la vista scorsi un messaggio di incitamento: un lungo striscione di parecchi metri, forse l’unico, che sospingeva le nostre gesta.

 
 
 
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