Creato da liberemanuele il 26/01/2009

Catallaxy

ordine spontaneo vs ingegneria sociale

 

 

Cosa?

Post n°72 pubblicato il 10 Dicembre 2009 da liberemanuele
 

Su Libero-news appare:

"NOBEL OBAMA: PIEGARE IL MONDO VERSO LA GIUSTIZIA" ... Obama non si smentisce. L'articolo poi continua con un citazione del Presidente americano: "Gli strumenti di guerra giocano un ruolo nel preservare la pace".

Mi chiedo come facciano i fanatici di Obama a sostenerlo ancora ...

Non mi stupisce invece che "l'inquilino della casa bianca" - espressione abusata dai giornalisti - abbia comunque l'appoggio degli altri potenti:

"Non posso pensare a nessuna altra persona che abbia fatto così tanto per la causa della pace nel corso dell'ultimo anno come il presidente Obama", ha replicato il premier norvegese. Stoltenberg ha definito "ben meritato e importante" il riconoscimento.

Non so se ridere o piangere.

 
 
 

Comprereste un auto usata da quest'uomo?

Post n°71 pubblicato il 03 Dicembre 2009 da liberemanuele
 

"Un blog del New York Times lo giudica "uno dei discorsi meno efficaci della sua presidenza". Sul Washington Post Tom Shales rispolvera il vecchio detto sarcastico usato per Nixon: comprereste un'auto usata da quest'uomo?"

Faderico Rampini da Estremo Occidente

 

 

 

 
 
 

C'è solo un' unica exit strategy per evitare l'auspicio di Marx.

Post n°68 pubblicato il 14 Novembre 2009 da liberemanuele
 

Ecco il punto della situazione, per ripercorrere le tappe, capirne gli aspetti, fare luce sui termini della crisi economica che stiamo vivendo ben lontani da una solida risoluzione. Una bella rinfrescata per prendere coscienza dei colpevoli e dei pericoli per la nostra libertà e l'identificazione di una via di uscita per evitare ciò che Marx auspicava nel Manifesto del Partito Comunista nel 1848: l'accentramento del credito nelle mani dello Stato.

Banche, governi e fallimento delle economie

Con tutte le misure statali e bancarie l'America ha trasformato la sua economia e sta per cadere in ginocchio nell'inconsapevolezza generale

di Gerardo Coco

Mentre la stampa generalista degli Stati Uniti rassicura sulla ripresa dell'economia, il dibattito fra gli specialisti oscilla tra due opposti scenari: inflazione e deflazione. Per capire le conseguenze che questi fenomeni possono avere sull'economia bisogna avere una concezione chiara del significato del loro termine e della loro genesi. L'inflazione è l'aumento della quantità monetaria in relazione alla quantità dei beni prodotti. Per una lunga tradizione teorica che ha trovato in Milton Friedman il suo più recente e prestigioso interprete, l'inflazione è sempre e dovunque un fenomeno monetario. Se l'offerta di denaro aumenta le persone hanno più denaro da spendere in beni e servizi, ma se l'offerta di questi ultimi non accresce nella stessa misura dell'aumento della quantità di denaro, i prezzi  aumentano e l'unità monetaria si svaluta. L'aumento generale dei prezzi e la perdita del potere d'acquisto sono dunque la conseguenza dell'inflazione. Tuttavia quest'ultima viene definita dai banchieri, dai politici e dalla stampa come aumento generale dei prezzi, cioè in modo tautologico. Questa nozione è fuorviante perché, separando o volendo separare la causa del fenomeno (l'aumento dell'offerta di moneta) dai suoi effetti (l'aumento dei prezzi dei beni) crea la convinzione che l'inflazione sia conseguenza di fenomeni operanti per proprio esclusivo conto come la speculazione, l'irrazionalità del mercato, l'aumento del costo di alcuni prodotti che devono essere contrastati da misure di stabilizzazione e di controllo. Il governatore della Banca Centrale Americana (Fed), Ben Bernanke in un famoso discorso definiva l'inflazione, appunto, come l'evidente inesorabile aumento dell'aumento dei prezzi dei beni e dei servizi. Ma, successivamente, smentiva questa definizione affermando che, per  prevenire una depressione, un governo, in un regime di moneta cartacea, può sempre generare una spesa più elevata e di conseguenza, causare  una esplicita inflazione... perché... il governo dispone di  una tecnologia, chiamata stampa ... per produrre  tutti i dollari di cui ha bisogno praticamente a costo zero. Si può definire l'inflazione con parole più chiare e nello stesso tempo più sfrontate di queste? Bernanke ammetteva che lo Stato ha il potere assoluto e illimitato di contraffare legalmente il denaro.

Per contro, la deflazione è il fenomeno monetario opposto all'inflazione, cioè un processo di contrazione monetaria. Essa è la conseguenza di una precedente orgia inflazionistica e di un eccesso di indebitamento nell'economia. Ma arriva sempre il momento in cui i debiti si devono pagare e gli inevitabili aggiustamenti comportano la liquidazione degli investimenti sbagliati che danno origine, appunto, alla deflazione. Se il processo di aggiustamento dell'economia ritarda, gli effetti della deflazione si trasformano in depressione. La deflazione è la purga "naturale" che l'economia dovrebbe patire dopo un periodo di intossicazione per essere in grado di ripartire da posizioni più sane. La deflazione si traduce in una contrazione della domanda e della spesa provocando una diminuzione del livello generale dei prezzi. Se si lasciasse libero corso a questo processo, esso agirebbe da antidoto alla deflazione permettendo all'economia di risollevarsi. Infatti, la diminuzione temporanea del livello di tutti i prezzi, compresi salari e stipendi, aumentando - al contrario dell'inflazione - il potere d'acquisto del denaro permetterebbe alla diminuita quantità monetaria di sostenere lo stesso livello di spesa della precedente quantità monetaria inflazionata. Tuttavia, come è ben noto, ci sono formidabili ostacoli che si oppongono a questo processo di aggiustamento spontaneo. Non ultimo la fallace definizione della deflazione, intesa come diminuzione generale dei prezzi e dei salari e non, invece, come contrazione monetaria. Infatti, come avviene per l'inflazione, anche nel caso della deflazione, banche centrali e governi confondono la causa con l'effetto. Se è vero che la diminuzione del livello generale dei prezzi è una conseguenza della deflazione cioè di una crisi, è anche vero che essa, di per sé, è indice di produttività e di prosperità economica. La diminuzione dei prezzi è infatti la caratteristica naturale dello sviluppo economico: comportando continui aumenti di produttività, esso crea una maggiore offerta di beni associata a una riduzione di costi e prezzi. Nel XX secolo è stata la diminuzione dei prezzi dei beni, cioè la produttività dell'economia, a permettere a masse crescenti di consumatori di avere accesso a una maggiore quantità di beni e a migliori standard di vita. Tuttavia, banche centrali e governi (identificando la deflazione con la diminuzione dei prezzi e ravvisando in quest'ultima il sintomo di una caduta della domanda e della spesa) la contrastano con politiche monetarie espansive "stabilizzatrici", che hanno come conseguenza il rialzo dei prezzi, e cioè l'inflazione. Questo è il circolo vizioso dell'interventismo che vanifica i benefici dello sviluppo economico trasformandolo in recessione.

La storia economica del XX secolo può essere vista come la storia di due forze contrapposte: l'inflazione monetaria, pianificata dalle banche centrali e dai governi che spinge al rialzo i prezzi distruggendo il potere d'acquisto, e la produttività dell'economia privata che, invece, abbassa costi e prezzi facendo aumentare il potere d'acquisto.

Pertanto ora si possono comprendere tre cose. La prima è che la deflazione non esisterebbe se non ci fosse prima l'inflazione. La seconda è che, con la  fallace definizione dell'inflazione come aumento generale dei prezzi, banchieri e politici cercano di oscurare la sua vera causa: l'aumento artificiale della quantità monetaria, conseguenza del loro interventismo. Ammettere questa definizione sarebbe riconoscere la causa dell'inflazione e dunque essere costretti a rimuoverla. Ma questa decisione comporterebbe una semplice misura: bloccare le politiche monetarie espansive e la spesa pubblica che causano bolle speculative e cicli economici. La terza, meglio approfondita nel prossimo paragrafo, è che l'inflazione è la conseguenza di un processo di contraffazione del denaro.


L'origine dell'inflazione
L'inflazione proviene dall'espansione della base creditizia, che è la componente più importante dell'offerta monetaria, cioè dei mezzi di circolazione: depositi a vista e moneta corrente (banconote e moneta metallica). La tecnica più usata per espandere la base creditizia è rappresentata dalle cosiddette operazioni sul mercato aperto, attraverso cui la Banca Centrale riacquista dalle banche commerciali titoli di Stato già in loro possesso. Lo scopo finale è aumentare la base creditizia per abbassare il tasso di interesse e incentivare gli investimenti. Il controvalore dell'acquisto dei titoli versato sui conti delle banche crea la disponibilità di nuovi depositi a vista sulla cui base le banche possono effettuare nuovi prestiti. Nel momento in cui la banca effettua un nuovo prestito crea nuovo denaro. Ma ogni singolo deposito non dà origine a un solo prestito, ma a un multiplo la cui grandezza dipende dalla frazione di deposito che la banca, per legge, deve trasformare in riserva al fine di far fronte a richieste di immediata liquidità dei depositanti.
Ad esempio, se il deposito è 100 e il rapporto di riserva è pari al 10%, la banca può prestare 90 perché 10 vanno destinati a riserva. Tuttavia poiché i soggetti economici spendono e depositano denaro in continuazione, il prestito originario di 90 dà origine ad un altro deposito e quindi ad un altro prestito di 81 che è 90 meno 10% di riserva. A propria volta, il deposito di 81 dà origine ad un nuovo prestito diminuito della riserva e così via fino ad esaurimento dei riprestati, il cui limite espansivo è 1000 e che si ottiene moltiplicando il deposito originario di 100 per il reciproco del coefficiente di riserva pari 1/0,10. Il ciclo della crescita si completa appunto quando i depositi raggiungono 1000 rimanendo le riserve al 10%, cioè a 100. Un singolo deposito è dunque la base per decuplicare il denaro in circolazione. Ma il denaro complessivamente creato è in realtà molto di più. Infatti, il ciclo di deposti schematizzato nell'esempio va a sommarsi ad un altro identico ciclo, generato in precedenza dall'acquisto da parte della banca centrale del titolo originario di 100 emesso dallo Stato per finanziare la spesa pubblica e che poi è servito per effettuare l'operazione di mercato aperto. Sommando i due cicli di depositi o ripresti, la massa monetaria è aumentata non di 10 ma di 20 volte, cioè il denaro creato è stato di 2000 a fronte di un singolo deposito di 100. Questa metodologia di moltiplicazione del denaro si chiama sistema di riserva frazionaria, perché la crescita dei depositi è un multiplo della loro riserva. Se la banca centrale, invece di espandere, volesse ridurre il denaro in circolazione dovrebbe fare l'operazione opposta, cioè vendere titoli alle banche in cambio di denaro, riducendo così i loro depositi da destinare al prestito. Questa è l'essenza della politica monetaria: espandere e contrarre la massa monetaria e, in corrispondenza, abbassare o alzare rispettivamente il tasso di interesse.

Ma la domanda a questo punto è: con quale denaro la banca centrale ha pagato originariamente allo Stato l'acquisto del suo titolo per permettergli di effettuare la spesa pubblica?
Il denaro proviene forse da risparmio, cioè da potere d'acquisto reale precedentemente creato nel corso di qualche processo produttivo?  No, la Banca lo crea arbitrariamente, iscrivendo simultaneamente nell'attivo del proprio bilancio l'acquisto del titolo e, nel passivo, il credito a favore dello Stato, che così può emettere assegni e spendendo può esercitare un potere d'acquisto extra e fittizio che diluisce tutto il potere d'acquisto preesistente a spese dei soggetti economici privati. Così tutto il denaro che è stato creato è fittizio perché, sostanzialmente, la banca e lo Stato si scambiano pezzi di carta che avranno un tremendo impatto sull'economia: la costruzione "piramidale" dell'inflazione. In generale, quando le banche prestano denaro ai privati o allo Stato, non riprestano denaro già esistente che la gente ha risparmiato facendo sacrifici, come si crede. Esse concedono prestiti creando all'istante i depositi sui loro conti correnti. Quando si usa l'espressione stampare denaro ci si riferisce proprio a questo processo, che oggi con un termine propagandistico ed elegante come quantitative easing e altro non è che un gigantesco schema inflazionistico basato sulla contraffazione legale del denaro. Questa è la conseguenza del monopolio dell'emissione del denaro da parte delle Banche Centrali. Essendo le politiche monetarie e economiche inseparabili, lo Stato e il sistema bancario hanno bisogno l'uno dell'altro per crescere e pertanto la conclamata indipendenza dall'istituto di emissione dal potere politico è una semplice finzione istituzionale.

Il programma inflazionistico americano
Tutto quanto è stato detto può forse aiutare a comprendere la situazione dell'economia americana e a pronosticarne l'evoluzione.

La housing bubble americana del 2008 è stata la conseguenza di un'espansione inflazionistica del credito innescata dalla meccanica sopra descritta (naturalmente con cifre di dodici zeri, essendo ormai il trilione l'unità di misura delle manovre monetarie inflazionistiche). Per evitare lo sviluppo dei casi di insolvenza causati dall'eccessivo indebitamento, la Fed ha imposto una severa stretta del credito, che ha innescato la deflazione, e cioè la contrazione monetaria: con il suo corollario di fallimenti, calo dell'attività produttiva e del volume della spesa dei consumi, riduzione dell'occupazione. Da quel momento si è parlato erroneamente di crisi del credito e si è diffusa la convinzione che ciò di cui l'economia avesse bisogno era soltanto credito. In realtà la crisi era ed è rimasta una crisi del debito. Per contrastare la recessione il governo federale e la Fed hanno adottato misure di salvataggi aziendali e di antirecessione come il Recovery and Reinvestment Act (2009), un pacchetto di spesa di circa 800 miliardi di dollari che, lungi da includere iniziative per aumentare la capacità produttiva dell'economia, è stato destinato alla creazione di nuovo debito: finanziando sanità, assistenza sociale, formazione, energia. Non appena questa spesa sarà amplificata dal meccanismo di riserva frazionaria sopra descritto, essa si tradurrà in pura inflazione, perché un'economia in calo non può assorbire gli effetti inflazionistici di una spesa pubblica in crescita. Alla fine di ogni ciclo di spesa, gli incrementi registrati dal PIL rispecchieranno solo l'espansione monetaria, mentre il loro vero significato economico sarà l'ulteriore contrazione dell'economia privata.

Siccome questo pacchetto non ha prodotto gli esiti sperati di rilancio, il governo si prepara ad approvare altri pacchetti che andranno ad alimentare ancor più il debito pubblico e a creare nuova inflazione.

Per quanto riguarda le misure strettamente monetarie, per evitare il fallimento delle banche la Fed ha scambiato i suoi titoli del Tesoro con i titoli tossici delle banche, riversandoli nell'attivo del proprio bilancio. Il bilancio delle banche è migliorato, ma quello della Banca Centrale è peggiorato. Si osservi che se è solido il bilancio di una banca centrale è solido anche l'intero sistema finanziario così come la sua valuta. Tutta la base monetaria di un paese è infatti inscritta al passivo del bilancio della banca centrale e se l'attivo si deteriora, si deteriora anche il potere d'acquisto della valuta tanto all'interno del Paese come all'esterno, rispetto alle altre valute. Il primo problema della Fed è stato dunque come risanare il proprio bilancio senza privare di liquidità il sistema finanziario. All'insieme di questi tentativi è stato dato il nome di exit strategy. Fra questi tentativi, uno è stato estremamente grave: contravvenendo al suo statuto la Fed ha salvato anche istituzioni finanziarie non bancarie tecnicamente fallite, erogando loro prestiti sempre contro garanzia di titoli tossici, oppure rilevando azioni di aziende insolventi e perseguendo, insomma, una "politica industriale" senza precedenti. Il Giappone, a partire dal 1990, fece lo stesso e condannò la propria economia a una stagnazione permanente.

Poiché la sola politica di acquisti di titoli e partecipazioni non era sufficiente a salvare il sistema bancario, la Fed si è inventata ulteriori programmi di credito, prestando denaro a istituzioni bancarie e non bancarie contro "carta commerciale": praticamente cambiali senza garanzie reali e altri strumenti finanziari che ne hanno ulteriormente peggiorato il bilancio senza peraltro riattivare il mercato del credito. Infatti, la politica di riduzione dei tassi di interesse praticamente a zero non incentiva le banche a offrire credito alla clientela privata. I depositi che le banche detengono presso la Fed, cioè le loro riserve (in sostanza, i prestiti non garantiti), sono ora retribuiti dalla stessa Fed con un interesse superiore a quello che le banche otterrebbero prestando denaro alla clientela e quindi rischiando qualcosa. D'altra parte, tassi bassi non richiamano dall'estero credito sotto forma di capitale, né incentivano, all'interno, la formazione di capitale sotto forma di risparmio necessario a fare ripartire l'economia.

Questa, per sommi capi, è stata la politica della Fed: artifici contabili che farebbero approdare una normale banca in tribunale mentre la massa monetaria degli Stati Uniti è raddoppiata in meno di un anno, un fatto senza precedenti nella storia di questo paese. Intanto l'economia è in declino. Speriamo che gli economisti capiscano, finalmente, che la moltiplicazione del denaro in un'economia non porta automaticamente alla moltiplicazione dei beni, ma alla loro eliminazione. Alcuni commentatori sostengono che l'attuale ritrosia delle banche a erogare il credito creato ex nihilo dalla Fed potrebbe far riprendere la deflazione, la quale obbligherebbe i soggetti economici a svendere i propri attivi per fare cassa, licenziare o fallire, portando l'economia alla depressione. Altri paventano il contrario: la Fed e il governo federale, considerata l'infruttuosità di tutti i tentativi finora compiuti, potrebbero varare altre misure di stimolo stampando e spendendo denaro senza limiti. Nel momento in cui le banche riprendessero a erogare credito si scatenerebbe una iperinflazione. Intanto la "produzione industriale" di dollari da parte della Fed viene comprata dai paesi in cambio di beni reali, come ad esempio fa la Cina, che ripresta questi stessi dollari al governo federale dopo che questi li traveste da titoli. Ma fino a quando le economie potranno funzionare scambiando "carta" con prodotti? Fino a quando un'economia può indebitarsi più di quanto possa produrre?

Conclusione
La ripresa americana è un miraggio mentre sono stati creati tutti i presupposti per una depressione inflazionistica. L'America del dilettante Obama e del Mefistofele dell'inflazione, Ben Bernanke, ha perseguito la politica di John Law, il finanziere scozzese del Settecento che, credendo bastasse stampare moneta fiduciaria (cioè cartacea) per dare una solida base finanziaria ai Paesi, distrusse l'economia francese. Ironia della sorte, la Fed, il salvatore di ultima istanza, è tecnicamente fallita.

Se si verificasse un default, solo il governo federale potrebbe salvarla e cosi si compirebbe quel destino che Marx aveva auspicato nel Manifesto del Partito Comunista del 1848: l'accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo. Così si vedrebbero anche realizzate le dottrine di Oscar R. Lange, Abba Lerner e H.D. Dickinson, gli economisti socialisti che insegnavano economia negli Stati Uniti durante gli anni Trenta del secolo scorso e sostenevano che gli investimenti di capitale dovessero essere determinati da funzionari di Stato piuttosto che dal mercato.

Non è forse quello che sta già accadendo?

Con tutte le misure statali e bancarie l'America ha trasformato la sua economia e sta per cadere in ginocchio nell'inconsapevolezza generale. C'è solo una vera e unica exit strategy da applicare prima che ciò accada. Restituire l'economia al suo legittimo proprietario: il mercato.

 

 
 
 

Una chiaccherata ...

Post n°67 pubblicato il 12 Novembre 2009 da liberemanuele
 

 

"Non c'è modo di evitare il collasso finale di un boom indotto da un'espansione creditizia. La scelta è solo se la crisi debba avvenire prima come risultato dell'abbandono volontario di un'ulteriore espansione del debito o più tardi con la totale catastrofe del sistema monetario coinvolto" 

Ludwing von Mises

Non ci sono grandi novità in questi giorni. Una chiacchierata con un cliente, che per lavoro gira molto, mi ha confermato l'idea che la ripresa dalla crisi sia ancora lontana, che la propaganda berlusconiana sull'uscita dalla crisi sia l'ennesima buffonata del potere nonché un'arma a doppio taglio, giacché molti individui, accecati dalla propaganda, non sì rendono conto della situazione: sperperano risparmio in acquisti di cui potrebbero fare a meno, consumano, condannando così le sorti del capitalismo, e della nostra stessa società, ad un destino non proprio roseo essendo il capitale composto da risparmio. Risparmio che al momento invece sta diminuendo - se non scomparendo. Si comprano auto per sfruttare gli incentivi statali, invece di spendere cinquanta euro per ripararlo, si cambia il frigorifero per sfruttare le detrazioni statali, il tutto magari indebitandosi, alimentando le stesse cause che hanno creato la crisi. Lo Stato dal suo, continua ad iniettare carta straccia nel mercato,  pompa i mercati azionari, incentiva il consumo, ingrossa il debito pubblico, a breve il governo italiano obbligherà le banche ad offrire credito a troppi senza garanzie sufficiente, in America una riforma sanitaria sconsiderata - se passerà l'esame del Congresso - appesantirà il debito pubblico come un' ennesima guerra - nemmeno troppo lontana con l'Iran.  

Lo Stato con la pretesa di governare la crisi, la sta alimentando, le bolle scoppieranno sempre più frequentemente, l'illusoria ricchezza generata dalle politiche di sostegno all'economia, presto verranno smascherate per quel che sono: ricchezza produttiva bruciata per gonfiare settori economici improduttivi - come quella esasperata dell'ecologico - o dissestati cui si nega la possibilità di correggersi. Ma le auto-correzioni proprie del mercato diventeranno sempre più severe e allo stesso tempo necessarie. Gli ingegneri sociali dello stato ovviamente non demorderanno e così avanti.

Ritornando alla chiacchierata, questo mio cliente ha detto qualcosa di molto vero parlando di "economia reale": ancora il 2009 non è stato malissimo, perché sì sfrutta quel che rimane della sbronza fatta negli anni precedenti, ma l'anno prossimo sarà la vera battaglia contro la crisi. Infatti, si dovrà fare i conti con quel poco che rimane dopo un anno di crisi economica e lavorarci!

"Ma comunque bisogna ripartire, perché alternativa non c'è."

Questo è lo spirito che ha fatto grande la nostra civiltà. Non limitarsi a fare dei macro conti e disperare, ma affidarsi alla propria creatività imprenditoriale e tornare a lavorare, a produrre, anche quando sembra impossibileRealizzare quello che prima non c'era e sembrava impossibile, valutare, azzardare risposte e azzeccarci! Solo questo spirito,  disperso in tanti individui non progettabile da una sola super-mente, ma che si alimenta e prospera dalla cooperazione volontaria, ci offrirà la via d'uscita: un miracolo inintenzionale (ordine spontaneo)  frutto di tante "azioni umane" intenzionali (prasseologia).   

"La nostra società dipende, nella sua origine e per la sua preservazione, da quella che con precisione può venir descritto unicamente come l'ordine esteso della cooperazione umana: comunemente conosciuto come capitalismo"

Friedrich von Hayek "The Fatal Conceit"

 
 
 

Nessun passo avanti, qualche passo indietro.

Post n°62 pubblicato il 20 Ottobre 2009 da liberemanuele

 

"... l'ennesima esternazione del ministro Giulio Tremonti, ormai uso a farsi più comunista dei comunisti ..."

Carlo Lottieri

 

L'ennesima conferma che Tremonti è il peggior filosofo morale improvvisato, nonché pessimo ministro dell'economia. Materia l'economia, in cui il nostro ministro si è lasciato completamente prendere da tesi post socialiste. Non solo è il politico italiano che più si spende per la regolamentazione dei mercati finanziari, ma è anche il ministro simbolo della Banca del Mezzogiorno, contrario al libero scambio soprattutto con i paesi emergenti. Colui che più di tutti difende il ruolo dello Stato assistenziale e il suo ruolo nell'economia e lo difende dalle "ideologie ultra liberiste" che, secondo lui, ammorbano il nostro tempo.

Piero Ostellino in un editoriale del CorSera di qualche giorno fa, cercava chi in Italia ostacola i ceti produttivi. Credo che "ceti produttivi" sia riduttivo, direi che in Italia si tende a fare battaglia tutto ciò che sia produttivo. La logica dello Stato, diceva Ronald Reagan, è quella che se una cosa è molto produttiva, bisogna spremerla il più possibile. In Italia non solo la si tassa, ma si cerca di individuare il cavillo o produrre leggi che la impediscano o la mettano sotto l'alone di controllo statale: in via diretta o sotto forma di controllo degli equilibri di potere.

Il mercato del lavoro, semi liberalizzato proprio dal governo Berlusconi, aveva scoperto una nuova vitalità. Le aziende potevano finalmente assumere, senza la preoccupazione che quello firmato, potesse essere un contratto paragonabile ad un matrimonio - con tutti i costi e beghe connesse in caso di divorzio.

E'  stata una grande conquista della Rivoluzione Industriale la mobilità lavorativa, che porta con sé la mobilità sociale. La diminuzione del tasso di disoccupazione dovuto alla liberalizzazione, avrebbe dovuto consigliare a Tremonti che allentare la presa del controllo dei rapporti umani - anche quelli in ambito lavorativo - è  sempre cosa produttiva. Evidentemente il ministro preferisce un posto fisso "a casa", piuttosto che una mobilità che, anche quando da pochi soldi, "garantisce" il proprio sostentamento - mentre essere stabilmente disoccupati, com'è risaputo, non paga a meno che lo Stato non ci metta lo zampino.

Ma il super ministro ha parlato e oggi anche "ilGiornale" si accoda a tessere le lodi di quello che Piercamillo Falasca chiama: " ... un mondo antico ed immobile: dopo il servizio di leva, un bel posticino in banca o in fabbrica, un percorso di carriera fatto soprattutto di avanzamenti di anzianità, il mutuo per l'acquisto della casa, la caccia al radicamento e all'insediamento nei gagli della burocrazia interna, colleghi - a volte amici, a volte avversari, spesso prima l'una e poi l'altra cosa - che reciprocamente si vedono crescere, diventare padri o madri, poi brizzolati e infine anziani. Una vita, un solo destino, legato a quello dell'azienda. Ti può andar bene, ma ti può andare anche male."

Che tristezza ... Ripeto uno slogan di un po' di tempo fa: io non voglio il posto fisso, voglio guadagnare.

- «La cultura del lavoro è ricerca, passione, intrapresa, coraggio, orgoglio. È apertura, confronto col mondo. Il posto fisso è qualcosa che ti arriva dall'alto, quasi un residuo feudale. È lo Stato che distribuisce ai sudditi i suoi favori. È un sistema rigido che ti segue in ogni istante della tua vita».
Dalla culla alla bara." 
Segnalo anche quest'interessante intervista di Mingardi sempre su "ilGiornale"

 
 
 

Notizie.

Post n°61 pubblicato il 16 Ottobre 2009 da liberemanuele
 

 

La smentita è una notizia data due volte

Carlo Stagnaro

La Banca del Mezzogiorno non può diventare un carrozzone.

 

 

 
 
 

Una questione di educazione. 2

Post n°60 pubblicato il 15 Ottobre 2009 da liberemanuele
 

Istruzione non è educazione: educazione è formazione attraverso un complesso ed ampio insieme di esperienze e approfondimenti individuali. Istruzione è invece un protocollo imposto verticalmente, che mira a standardizzare e diffondere il virus dell'omologazione e del conformismo collettivo.

La retorica sulla scuola pubblica italiana, una delle tante e funeste "religioni civili", è un inno alla appiattimento critico dei cittadini. Attraverso i dogmi e la socializzazione forzata della scuola pubblica, si sfornano persone annoiate, che hanno delegato gran parte dei loro doveri - e diritti - ad un'autorità superiore. Prima ai genitori, alla comunità e infine allo Stato - oggi si può aggiungere la Comunità Europea.

Si accreditano alla scuola pubblica conquiste non sue. Come ad esempio la più diffusa alfabetizzazione della popolazione, ma la verità è che questa deriva dall'aumento di capitale, dalla ricchezza creata dal capitalismo e dalle opportunità di raffinamento tecnologico e culturale che ne conseguono.

La scuola pubblica ha sempre avuto un solo obbiettivo di base: l'istruzione del cittadino medio e mediocre. Come dice il batterista dei Beatles Ringo Star "Tutto quello che il governo tocca si trasforma in merda", così anche la cultura e la formazione una volta prese in mano dallo Stato, diventano il mezzo per plasmare il cittadino non-pensante, privo di spirito critico, abituato a bersi tutto ciò che gli viene propinato a scuola.

Per questo che è essenziale l'abitudine ad una assoluta fiducia dell'autorità.

Abituiamo sin da piccoli i ragazzi ad una vita pianificata, fatta di appuntamenti che scandiscono i loro pomeriggi così da espropriarli del loro tempo e della responsabilità ad esso connessa: della proprietà di se stessi. Li abituiamo sin da piccoli ad essere schiavi di qualcosa di indefinito e superiore, un ordine sociale che subordina l'individuo, così che è l'individuo stesso, incapace di gestire il proprio tempo, lieto di affidare ad altri la propria vita: così si legittima e alimenta il potere.

"Le nostre scuole sono ... fabbriche in cui i prodotti grezzi (i fanciulli) devono essere modellati e foggiati ... Ed è compito della scuola costruire i suoi alunni secondo le specifiche stabilite."

Ellwood P. Cubberly "Public School Administretion"  1922

Nelle scuole la noia è un fattore comune e scontatamente considerato come proprio di questo luogo: da una parte " ... i ragazzi ... davano sempre le stesse risposte: dicevano che il lavoro era stupido, che non aveva senso, che lo sapevano già. Dicevano che volevano fare qualcosa di reale ...", dall'altra "chiunque abbia passato del tempo in un' aula insegnanti può garantire che vi si possano trovare scarsa energia, lagnanze e abbattimento. ... Chi non si annoierebbe ad insegnare a dei ragazzi che sono maleducati ed interessati solo ai voti?"Così scrive John Taylor Gatto, ex insegnante dell'anno della città di New York, descrivendo la situazione dell'istruzione in America, che sembra calzare a pennello anche alla nostra.

Sempre Gatto ci elenca tutta una serie di noti americani che non sono passati sotto il compressore dei dodici anni di istruzione obbligatoria: George Washington, Benjamin Franklin, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln, Edison, Carnegie, Rockefeller, Melville, Twain.

Ciò ci fa comprendere quanto sia ingiusta e illegittima la tendenza a posticipare la maturità, non solo allungando il percorso della "scuola dell'obbligo", ma anche introducendo tutte quelle questioni che mirano a desensibilizzare e deresponsabilizzare le persone.

 " ... La maturità è stata bandita da quasi ogni aspetto della nostra vita. Le leggi sul divorzio facile hanno rimosso la necessità di lavorare sulle relazioni; il credito facile ha rimosso la necessità dell'auto controllo fiscale; il divertimento facile ha rimosso la necessità di imparare a divertirsi; le risposte facili hanno rimosso la necessità di fare domande. ..." *

La scuola pubblica rappresenta l'arma più efficace per trasformare la persona in cittadino, ovvero per guidare la metamorfosi in ognuno di noi, da individuo indipendente e incontrollabile, a parte di un collettivo: non bisogna cercare il significato in noi stessi, ma bisogna elevare i nostri scopi: bisogna trascendere l'individuo per alimentare la collettività.

Attraverso un bagaglio storico, etico, civile, possibilmente religioso, condiviso e indiscutibile ci identifichiamo con insiemi collettivistici come la nazionalità, razza, ideologia, fede. Scrive Butler Shaffer: " Identificando così il nostro senso di scopo e significato in queste astrazioni, ci prepariamo ad essere dominati dalle istituzioni ...".

Chiunque mette in discussione il "dogma", viene crocifisso alla gogna collettiva. E' capito non rare volte anche a me:  alle elementari ad esempio ero solito mettere in discussione molte delle regole che mi venivano imposte, soprattutto quelle cui motivazione sembrava  meno importante dell'imposizione stessa. Allora mi accorsi che era inutile difendere le mie ragioni davanti all'indefinito, ad un autorità auto legittimata, che pretendeva "la ragione"  senza spiegare "le ragioni", ma solo facendo valere il proprio potere.

 E' importante invece crescere, sentire l'obbligo e il peso delle proprie scelte, averne il coraggio: è un esercizio di libertà, per vivere senza chiedere il consenso a nessuno, per non essere soggiogati dalle varie istituzioni pubbliche, per dimostrarsi vaccinati alla propaganda delle religioni civili è necessario fare lo sforzo della propria indipendenza.

"La scuola addestra i bambini ad essere impiegati e consumatori; insegnategli ad essere leader e avventurieri. La scuola addestra i bambini ad obbedire riflessivamente; insegnate ai vostri figli a pensare criticamente ed indipendentemente. I ragazzi ben istruiti hanno una bassa soglia della noia; aiutate i vostri a sviluppare una vita interna in modo da non essere mai annoiati. Sollecitate i vostri ragazzi a provare del materiale serio, in storia, letteratura, filosofia, musica, arte, economia, teologia - tutto quello che gli insegnanti sanno benissimo evitare. Sfidate i vostri ragazzi con molta solitudine, così che imparino a godere della loro stessa compagnia, a condurre dialoghi interni. Le persone bene istruite sono condizionate a temere la solitudine, e cercano una costante compagnia con la tv, il computer, il telefonino, e con amicizie poco profonde, presto acquisite e presto abbandonate. I vostri figli dovrebbero avere una vita più significativa e possono averla."*

 

* John Taylor Gatto "Come l'istruzione mutila i nostri ragazzi e perché"

 
 
 

Una questione di educazione. 1

Post n°59 pubblicato il 14 Ottobre 2009 da liberemanuele
 

 

"Il tempo è la forma ineliminabile delle realtà individuali"

Edmund Husserl

Da piccolo mi è sempre stato piuttosto naturale andare contro tutto quello che mi dicevano i grandi, non in modo plateale o vivace, com'è invece solito nei bambini, ma in modo profondo, mettevo in discussione ciò che mi veniva detto in linea di principio, poi magari ubbidivo - non dimentichiamoci che in casa il "monopolio della forza" è dei genitori -, ma ciò non toglieva che io avessi ragione e che di nascosto potevo provarlo, prima a me stesso, poi agli altri.

Così succedeva che prendevo la bicicletta e, senza dire niente a nessuno, mi allontanavo di casa, o che la sera tornavo sempre un pochino più tardi. Ero curioso del mondo, mi affascinava tutto quello che c'era intorno alla mia realtà e cercavo appena potevo di esplorare. Questo perché sin da piccolo, avevo la sensazione, poi la coscienza, della proprietà del mio tempo. Credo che in questo ci sai stato anche l'impulso, volontario o meno, dei miei genitori, anche se quando disubbidivo non si risparmiavano ceffoni. Poche volte mi è capito di annoiarmi, le mie giornate da piccolo erano sempre un' avventura.

Questa educazione credo abbia influito notevolmente nelle mia indole indipendente, individualista, nel rispetto estremo che ho del tempo degli altri e del mio, perché esso è rispetto per la proprietà di uno dei beni più prezioso: la nostra vita.

Mi capita invece di imbattermi in genitori disarmati di fronte a figli sempre più impotenti, incapaci di impiegare il loro tempo, profondamente annoiati e alla ricerca di un brivido da "condividere" su youtube o con i compagni a scuola sul cellulare. Credo che in questi comportamenti ci sia una mancanza di fondo, la mancanza di quel rispetto per se stessi, che può venire solo da un' autentica consapevolezza della bellezza della vita e da quella sensazione superiore che è il senso di proprietà di se stessi. Solo se si è gelosi della propria vita e del proprio tempo si sarà rispettosi anche del nostro prossimo

Credo che bisogna saper stare soli, facendo affidamente sulle sole proprie forze, per apprezzare appieno la vita e per capire che l'essere indipendenti dal nostro prossimo è anche un dovere. Nessuno di noi può reclamare un solo minuto del tempo di un altro come qualcosa di dovuto.

Questa nostra era digitalizzata, ci ha reso molto meno liberi: basta pensare al telefonino, ora chiunque può essere raggiunto sempre e in ogni luogo, il computer, il web, i blog, facebook ... e chi più ne ha, più ne metta. Si è diffusa un' estrema esigenza, soprattutto nei giovani, di condividere tutto, di non lasciare nulla esclusivamente per se stessi.

"La pluralità umana è la paradossale pluralità di esseri unici"

 Hannah Arendt

Una buona educazione non può prescindere dall'assunzione completa della responsabilità verso se stessi e delle proprie azioni, mentre oggi c'è una forte porzione di persone che passano la maggior parte del loro tempo a scaricare le proprie colpe sull'altro: figli che incolpano i genitori dei loro insuccessi, gl'imprenditori che incolpano il governo se il loro business va male, il governo che a sua volta accusa le banche della crisi e della mancata ripresa, dipendenti pubblici e privati che sono tutti intenti a passarsi "palle avvelenate", a scaricare colpe sugli altri e a parlar male del capo.

Questo spreco di tempo passato a distruggersi, è il sintomo malato di una tendenza che è forse parte di noi, ma che individualmente bisogna vincere per ricominciare a vivere e, come ho già scritto mesi fa, "realizzarsi. 

 

 
 
 

Lo Stato non è la risposta ...

Post n°58 pubblicato il 08 Ottobre 2009 da liberemanuele
 

... giusta!

Ho spesso parlato del periodo di crisi che stiamo attraversando, sia perché si respira ovunque, ma soprattutto per focalizzare l'attenzione su questioni che invece spesso vengono messe da parte, adombrate da altre più insignificanti e che fanno comodo ai governi, per giustificare nuovi interventi pubblici nelle nostre vite.
Da noi in Italia, a destra come a sinistra, si è abituati a pensare che "Nello stato socialista ideale, non si abuserà del potere. Le persone preposte alla guida della nazione, non saranno minimante influenzate dagli interessi personali. Uomini intelligenti non piegheranno le istituzioni al servizio dei propri interessi. ... e i fiumi scorreranno in salita.", con le parole di David Friedman. Salvo poi scoprire che, chiunque andrà al potere, puntualmente ne abuserà a suo piacimento, anche al solo scopo di esercitarlo.

Ma nonostante ciò, conserviamo un senso di Stato piuttosto forte: "A tutti piace la giustizia a spese d'altri" dice un detto, tanto vale per lo Stato: l'importante che non sia a spese nostre.

"... Per chi fa parte della sinistra politica, la giustizia si traduce nel chiedere che del denaro sia preso a qualcuno e consegnato ad altri. Quelli della destra politica la usano come pretesto per la costruzione di più prigioni a l'assunzione di più agenti di polizia che scovino più persone per riempirle. Quando la gente mi dice 'voglio giustizia', la mia risposta è avvertirli che moderino la loro insistenza, perché potrebbero ottenerla!"

Butler Shaffer (trod.lVdGongoro "Che cos'è la giustizia?")

La grande crisi economica degli anni '30 portò ad una generale sfiducia per la libertà e accrebbe il bisogno di Stato, di sicurezza, di personalità forti: Stalin, Hitler, Mussolini ... Franklin Delano Roosevelt. Anche oggi si avverte quello stesso bisogno di sicurezza, che fa la fortuna di ambiziosi statisti, le nuove "persone forti", anche se poi il potere è ovattato dalle istituzioni democratiche, che però non riescono ad arginare sufficientemente il pericolo per la nostra libertà.

- Berlusconi

Oggi Berlusconi, tra le sue beghe personali, propone uno scudo fiscale che, da una parte puzza di bruciato perché è una violenta invasione di campo sulla sorte dei capitali privati, dall'altra è l'ennesima prova dell'incertezza del diritto nel nostro paese. Come scrive Carlo Stagnaro dalle colonne de IlSecoloXiX: " ... Ma se il prezzo è cancellare reati gravi come il falso in bilancio, bisogna chiedersi se non sia troppo salato. Da un lato perché il lassismo che ne traspare è terrificante. Dall'altro perché l'applicazione a singhiozzo delle norme, che già sono di per sé confuse e interpretate nei modi più diversi, rende il nostro paese ancor meno comprensibile e affidabile di quanto non sia. Bisogna essere matti per investire qui. ...".

La tragedia di Messina invece di ricordarci quanto l'incuria e la burocrazia, tipiche della proprietà pubblica, sia rovinosa per la popolazione, non fa altro che amplificare le voci che vogliono uno Stato più presente, uno Stato più forte. "Lo Stato non lascerà soli i messinesi" dice Berlusconi: la colpa è stata dell'egoismo, della speculazione edilizia e delle costruzioni abusive. Il "Grande Fratello" non ci lascerà soli e ci indicherà la strada giusta.
 Invece è proprio il contrario di quanto dovremmo augurarci. Anche solo la maggior cura che caratterizza la proprietà privata dovrebbe spingerci a credere che essa sia la soluzione, e se si va avanti col ragionamento ci si convince sempre più. Infatti nonostante già due anni fa ci furono i primi segnali evidenti della insicurezza di quel territorio, burocrazia, lassismo politico, un certo costume a scaricarsi le responsabilità addosso l'un l'altro, la possibilità per i costruttori di nascondersi dietro fogli di carta come i piani regolatori, hanno fatto attendere alla popolazione che il disastro accadesse. E ora è troppo tardi.

- G20

Qualcosa è cambiato. Il G8 è stato superato, al suo posto il G20. Ma la sostanza è più o meno la stessa sul piano della proposta: passata ormai la tesi per cui è stato un eccesso di economia a causare la crisi (come se la tendenza ad indebitarsi fosse comportamento "economico", come se investire nell'inutile lo fosse, come se lo stampare carta straccia e immetterla nel mercato - causando quanto detto prima - per finanziare guerre fosse "economia" e non "politica"), si passa alla fase successiva: lo Stato risolve la crisi. Un super stato, un governo mondiale come quello simpatizzato da Tremonti, può e deve avanzare risposte comuni. Chi ha un minimo di logica ed è armato dei basilari dell'economia austriaca, comprende al volo come ciò sia impossibile: chi ha causato la crisi, non può avanzare la presunzione di risolverla. Ma tant'è che il potere politico può tutto e non ha una morale cui far fronte, così anche la più palese delle falsità può essere data a bere al popolo ignorante.
Nuove regole per la finanza, lotta ai paradisi fiscali e tetto per i bonus dei manager: ecco i punti condivisi da tutti e di grande presa sul pubblico.
Ma il vero problema per noi è, come scrive Mingardi su IlRiformista, che: " ... usciamo da una crisi causata almeno in parte dalla troppa moneta, con ancora più moneta".

- Obama

Doveva essere il presidente "forte", un verio rischio per la libertà della sua nazione, poi si è dimostrato meno risoluto del previsto. La riforma sanitaria non è passata, in economia promuove un interventismo degno di Roosevelt, sul clima segue la politica del predecessore e sulla politica estera ne imita i difetti.

Anzi, ultimamente ogni volta che Obama appare in tv, ci si sente sempre più vicino ad una nuova guerra.

Diceva Bush in un dibattito politico quando ancora non era al governo: "Se siamo una nazione arrogante, ci avranno in antipatia. Se siamo una nazione umile, ma forte, ci daranno il benvenuto. ... [Dovremo essere] orgogliosi di credere nei nostri valori, ma umili nel trattare le nazioni che stanno studiando la loro linea di azione" . Quanta "saggezza" per un uomo che una volta al governo, disattese quanto detto in campagna elettorale in modo da far percepire l'America sempre più come una forza imperiale.

La politica estera americana è stata fondata proprio su quella "saggezza", che si può sintetizzare nella parole di Thomas Jefferson "pace, commercio e onesta amicizia con tutte le nazioni, nessun vincolo d'alleanze".

Strano constatare come anche Obama, che deve il suo successo elettorale in gran parte per aver promesso il rientro delle truppe, nella pratica si stia rivelando un presidente piuttosto interventista.

"Stiamo tentando di consentire a una repubblica federale di eseguire un lavoro imperiale, senza affrontare onestamente il fatto che le nostre istituzioni tradizionali sono ideate in modo specifico per impedire la centralizzazione del potere [...] Qualche volta e in qualche occasione, tuttavia, questo conflitto fondamentale tra le nostre istituzioni e la nostra politica dovrà essere risolto."

Felix Morley "American Republic or Roman Empire" - 1957

 

 

 
 
 

Spegniamo "lo schermo". Basta con la televisione di Stato.

Post n°56 pubblicato il 30 Settembre 2009 da liberemanuele
 

Le polemiche su "Anno Zero" non mi hanno molto appassionato, guardo poco la televisione e, quando la guardo, evito accuratamente gli approfondimenti politici come "Porta a Porta" o, appunto, "Anno Zero". Poi però sul sito del Corrierone, vedo tutta una serie di dichiarazioni disperate, con la Gabanelli di Report che lamenta: "Ho tante cause. E non riesco ad avere una polizza" e la poco serena Dandini che si sente intimidita dalle pressioni "alte" della Rai.

Approfitto allora per avanzare una proposta: spegniamo lo schermo "orwelliano" , come lo ha definito Carlo Lottieri sulle colonne de "IlGiornale":"... poiché incarna le pretese di uno Stato che vuole rettamente educarci, informarci, divertirci. ...", e privatizziamo la Rai.

Il pluralismo non lo si "garantisce" dall'alto, come si cerca di fare con la Rai, ma dal basso, con il mercato - ovvero con i gusti vari delle persone che costituiscono la domanda e la risposta di soggetti televisivi privati che andranno a formare l'offerta.

Basta con i privilegi di casa Rai pagati con i soldi estorti al contribuente - perché non bastano i denari del canone, che è di fatto una tassa sul possesso del televisore, e della pubblicità. Non esistono motivi validi all'esistenza di una televisione di Stato: ognuno può dire ciò che vuole, vedere e sentire ciò che più lo aggrada, ma io non devo essere costretto a pagare queste sue esigenze! Tanto più quando le mie non vengono per nulla soddisfatte.

In più mi fa rabbrividire il fatto che uno strumento come la televisione sia in mano allo Stato, che giustifica questo suo controllo (parziale, ma nemmeno più di tanto dato che a livello nazionale i soggetti rilevanti sono due, forse tre) con la scusa della televisione di "servizio" ... Ma quale servizio?! "Porta a Porta" è un servizio per caso?! XFactor lo è? Che differenza c'è tra un telegiornale Rai e un altro Mediaset?! Non mi sembra nemmeno che in Rai si sfruttino risorse per sperimentare cose nuove o mettere alla prova giovani promesse - ma anche questo non giustificherebbe né quel tipo di canone, né il prendere finanziamenti statali.

"Servizio pubblico" una televisione?! Cacchiate, l'unico servizio che fa la Rai è ai suoi veri proprietari, i politici, per i quali costituisce una mangiatoia, uno strumento di controllo e di propaganda. Una specie degli schermi di 1984 ...

Perché privatizzare? Perché a differenza delle istituzioni pubbliche, che mirano a "rieducare" o a dare la "giusta informazione", le "... istituzioni della proprietà privata costituiscono l'ingranaggio della libertà, rendendo possibile, in un mondo interdipendente e complesso, che ognuno raggiunga il proprio scopo come desidera. ..."

David Friedman "L'ingranaggio della libertà"

 

 

 
 
 

Si torna in ufficio ... allora parliamo di lavoro.

Post n°54 pubblicato il 21 Settembre 2009 da liberemanuele
 

Durante le ferie mi è capitato, in una discussione, di parlare di lavoro, di riflettere perciò perché c'è tanta scarsità di opportunità, nonostante ci sia così tanto bisogno di buoni lavoratori. Infatti la disoccupazione, soprattutto in questo periodo è un fenomeno ampissimo, sia qui che in tutto l'occidente. Eppure c'è grande scarsità di servizi e lavoratori. Le piccole medie imprese, sono praticamente impossibilitate ad assumere quando ne hanno bisogno, con non pochi problemi quando arrivano ordini importati, e sono costrette a tenere bloccate, nei periodi di crisi, persone che farebbero fortuna  in altri settori.

Sono convinto che il lavoro dovrebbe essere una cosa più semplice, in particolare nella nostra epoca dove determinati diritti sono ormai cosa diffusa - anche se a volte con colpevole superficialità. Sempre durante le ferie, mi sono letto un libretto, "Mercati sotto assedio" di Richard Epstein,  in questo - che per la verità non mi ha colpito molto, probabilmente per la lettura un po' distratta che gli ho dedicato - ho trovato un capitolo molto chiaro che parlava proprio di mercato del lavoro.  

"... Il primo punto da osservare è che le possibili debolezze di una posizione fortemente libertaria in tema di tassazione, infrastrutture, beni collettivi e cose simili non hanno un gran peso quando si parla di mercato del lavoro. Infatti, siamo davanti ad accordi bilaterali privati che anno ben poco a che vedere con la fornitura di beni collettivi. ..." *

  Ovvio che ai fanatici della nostra Costituzione, dove la Repubblica si basa sul "lavoro" ( "lavoro" che puzza di forzatura, di post schiavismo, dove "sinistra" - indovina un po' chi ha voluto l'articolo in riferimento ... - vuol dire intermediario necessario alla salvaguardia "dal" lavoro e si sancisce l'eterna lotta tra padrone e dipendente), non piacerà la citazione. Ma nella realtà il lavoro non è un bene collettivo. Il lavoro ci sfama ognuno individualmente, ma se alcuni di noi decidono di non lavorare, non vi è alcun disservizio per gli altri - mentre se viene a mancare una strada la disfunzione c'è, eccome. E dato che è cosa individuale, nessuno meglio dell'individuo può pensare e salvaguardare il suo personale interesse.

L'eccesso di regolamentazione ha portato alle distorsioni di cui tutti soffriamo. Di fatto c'è grossa carenza di alcune figure professionali, dai notai ai tassisti, dagli idraulici agli architetti. In più il mercato del lavoro manca di dinamismo. Non sempre ci è facile provare a migliorare la nostra posizione di lavoro, anzi è proprio dura se consideriamo la burocrazia con la quale bisogna fare i conti noi e i nostri datori.

Questa burocrazia crea quell'eccessivo formalismo che alimenta l'antagonismo tra le parti - che è poi la risorsa che fa la fortuna di sindacati e politica.

Un rapporto tra due parti uguali (i contraenti), a cosa porterebbe invece? All'impossibilità di chi offre lavoro di peggiorare le condizioni lavorative, dato che aumenterebbe il rischio di perdere una professionalità a lui utile (il lavoro che faccio non vale quanto guadagno, mi licenzio). Ma anche il lavoratore per parte sua, dovrebbe impegnarsi perché il suo operato valesse lo stipendio contrattato (non valgo quanto guadagno, mi licenziano).

Nonostante ciò, il licenziamento sarebbe "comunque" sconveniente per un'azienda: una ragione è" ... data dai costi davvero consistenti dati dal dover reclutare e formare una persona sostitutiva che si possa rivelare, oppure no, migliore del lavoratore licenziato. La seconda ragione è che i licenziamenti ingiusti potrebbero indurre gli altri lavoratori ad andarsene anche se le cose andassero bene, il che aggraverebbe il problema del reclutamento e del mantenimento dei propri dipendenti". *

Un rapporto informale avvantaggia tutti. La fiducia reciproca, impossibile quando c'è un' eccessiva regolamentazione che impone determinati comportamenti, porta a vantaggi concreti per entrambi. Un abbassamento dei costi di controllo sul lavoro, un rapporto personale e professionale migliore e, non ultima, una convenienza economica consistente per entrambi. L'abbattimento di tanti paletti onerosi ed inutili, aumenterebbe considerevolmente i margini di guadagno e porterebbe ad un maggior arricchimento delle parti.

L'ordine spontaneo garantisce auto-correzioni molto efficienti, questo renderebbe più facile per tutti non solo lavorare, ma realizzarsi e guadagnare.

" ... non è plausibile pensare che tutti i lavoratori non siano in grado di capire quali sono i propri interessi ed entrino in transazioni che li lasciano in condizioni peggiori di quelle precedenti, o che non riflettano il valore della loro produzione per l'azienda. Qui, come in molti altri settori, il libero accesso al mercato fornisce la difesa più potente e più solida ..." *

 

* Richard A. Epstein "Mercati sotto assedio - Cartelli, politiche e benessere sociale" IBLLibri

 

Qui c'è un bel pezzo di Serena Siloni apparso nel "chicago-blog" 

 
 
 

Lor signori i keynesiani.

Post n°53 pubblicato il 18 Settembre 2009 da liberemanuele
 

 

Come a voler prendere troppo sul serio questo blog, andiamo ad aprire una nuova stagione. Quella vecchia, conclusa con una crisi che si faceva sempre più severa e i soliti mestieranti del "comunicato di stato" - e abbiamo capito come mai i giornali poi siano un po' tutti uguali, essendo  quasi totalmente al libro paga dello stato - che ci dicevano che oramai eravamo usciti.

Per inaugurare questa nuova stagione, parliamo di un personaggio chiave, uno dei protagonisti intellettuali che tutt'ora viene frequentemente citato per giustificare i più funesti interventi statali. Da destra a sinistra, all'unisono, sono tutti d'accordo nell'essere keynesiani.

Keynes.

John Maynard Keynes è l'intellettuale per cui la scienza economica è soprattutto un esercizio di stile, egli apparteneva, come ricorda il fan Guido Rossi, all'esclusivo gruppo degli intellettuali colti: il bello scrivere e il fascino emanato hanno la meglio sulla teoria. Un uomo pratico, un discreto osservatore, ma dalla vita piena.

Come lo ha definito Alberto Mingardi: decoubertiano, fieramente asistematico, più letterato che pensatore, indifferente al demone della contraddizione.

Dal libretto "Possibilità economiche per i nostri nipoti" si evince che il mondo sognato da Keynes è un' utopia basata sull'antipatia per il mercato e il capitalismo in generale. Liberi dalle preoccupazioni economiche, dal lavoro: a un certo punto della storia egli immagina un mondo dove non ci sia più nulla da fare se non contemplare.

"... l'uomo si troverà ad affrontare il problema più serio e meno transitorio - come sfruttare la libertà dalle pressioni economiche, come occupare il tempo che la tecnica e gli interessi compositi gli avranno regalato, come vivere in modo saggio, piacevole e salutare ..."

John Maynard Keynes

 Ma come precisa Mingardi: "Il ragionamento di Keynes non va confuso con quella che ormai pare a tutti un' ovvietà. Il sistema capitalista non solo produce innovazioni e ricchezza, ma diffonde le une e l'altra. L'operaio di oggi conduce una vita che per comodità, per certi versi, supera quella dei signori rinascimentali. ... Quelli che in altre epoche erano lussi (dall'abbondanza di acqua potabile, a un'alimentazione variegata e bilanciata) sono accessibili da chiunque. ... Ma non sono scomparsi i bisogni, né la necessità di pagare i conti. Al contrario, i bisogni sono cambiati, si sono evoluti: e come sono diversi da individuo ad individuo, così mutano di epoca in epoca. Il superfluo di ieri è l'indispensabile di oggi."

 In sostanza, se nello scienziato sociale la propria visione delle cose è elemento determinante per lo studio, quella di Keynes è contraddistinta dall'antipatia per la vita tipicamente borghese, fatta di una quotidianità difficile e gioiosa che caratterizza la cosiddetta "corsa capitalista", e la simpatia per uno stile di vita aristocratico, dove ozio e compiacimento per la fortuna ereditata - e non creata - la fanno da padroni.

"Ma quella corsa, mossa dal desiderio di guadagnare, di accumulare, di trovare nel denaro gratificazione dei propri meriti, per alcuni non è una condanna, ma il senso della vita. Non si può dire, a priori, che faccia abbia per tutti la felicità. Nella dichiarazione d'indipendenza americana, c'è saggiamente la ricerca della felicità, che ognuno persegue a suo modo. Se la felicità, per Keynes, è la liberazione dalla lotta per soddisfare i bisogni, allora siamo tutti felici davvero nel lungo periodo. Nel senso, da morti."

Alberto Mingardi da IlRiformista 26/3/2009

 Economia keynesiana.

 "Teoria Generale dell'Occupazione Interesse e Moneta" del 1936 è il trattato che più ha influenzato il corso dell'economia mondiale diffondendo il virus della sfiducia verso il mercato a favore della politica.

"... l'investimento è volatile, incostante ed irrazionale. Il mondo dell'economia è governato da un' incontrollabile e disobbediente psicologia". La soluzione? Per Keynes bisogna mettere tutto in mano al governo per eliminare l'influenza di pessimismi ed ottimismi.

"... il punto di vista rigoroso di chi suggerisce un alto tasso di interesse per raffreddare l'inflazione non ha nessun fondamento, ma è indice di confusione mentale ... il rimedio al boom non è un più alto tasso di interesse, ma uno più basso, perché ciò renderebbe il boom perenne. Il rimedio al boom non è il tentativo di eliminarlo per tenerci in uno stato di semi-crisi, ma di abolire le crisi e mantenerci permanentemente in uno stato di quasi boom ..."

John Maynard Keynes da "Teoria Generale ..."

 In pratica Keynes vuole un tasso d'interresse a zero, così ci sarà una quantità di capitale maggiore che conseguirà ad un occupazione più piena e una domanda maggiore: il calo dei consumi provocherebbe la depressione.

In quest'ottica il vero nemico economico è proprio colui che si comporta più razionalmente: il risparmiatore. La soluzione è nello Stato: "Costruzione di piramidi, terremoti (!), perfino guerre (!!) possono servire ad aumentare la ricchezza se la formazione dei nostri uomini di stato, plasmatisi sui principi degli economisti classici non impedisse di fare qualcosa di meglio".

 Rilanciare la domanda direbbe Berlusconi. Ma questo rilancio non farebbe altro che peggiorare le cose: rilanciare il "consumo" vuol dire togliere soldi dall' "investimento". L'investimento è figlio del risparmio: il consumo è sperpero di risparmio. L'economia keynesiana si basa invece su un'assurdità per la quale il consumo stimola l'investimento. Perché si è arrivati a dire tale scemenza? Perché Keynes e i suoi seguaci non hanno la minima attenzione per il potere d'acquisto. Per loro, per avere moneta, basta farla stampare dal governo. Il potere d'acquisto ci ricorda invece che per consumare bisogna prima aver prodotto. Il consumo deve essere preceduto dalla produzione che però è possibile solo se ci astiene dal consumo e si risparmia.

Se per esempio siamo di fronte ad una crisi e il governo reagisce con un "pacchetto di stimoli ", esso rappresenterà puro consumo di risparmio che impoverirà così la struttura produttiva. Se la Banca Centrale avrà la splendida idea di ridurre i tassi d'interesse espandendo il credito, creerà un potere d'acquisto illusorio che contribuirà al consumo di capitale.

Hayek nei suoi scritti ha fin troppo bene spiegato che la mancanza di conoscenza, rende impossibile una qualsiasi manovra correttiva in economia. Ogni tentativo di risollevare l'economia, produrrà un effetto negativo incalcolabile da qualsiasi sistema, per quanto sofisticato, di calcolo economico. La conoscenza è dispersa ed è questa la ragione della fortuna della libera economia di mercato. Tanto più quando la teoria keynesiana, " ... - che orgogliosamente si auto-proclama come moderna, anche se profondamente radicata nel pensiero medioevale e mercantilista - [che] si è offerta al mondo come la panacea per le nostre difficoltà economiche. ... ² , con le parole di Rothbard, non tiene minimamente in considerazione il processo produttivo.

" ... Posto che è la domanda dei consumatori a guidare l'economia e una sua diminuzione o aumento possono determinare variazioni degli investimenti rispettivamente negative o positive, l'economia keynesiana assume forma di flusso circolare, che si insinua negli odierni corsi e manuali di economia. In questo modello, la produzione di prodotti finiti aumenta o diminuisce istantaneamente attraverso le variazioni della spesa aggregata. Ciò sottende l'idea che la produzione di un paese sia istantanea e non esiga tempo, vale a dire che non esistano quelle tappe intermedie, che rappresentano la parte più importante della struttura produttiva e che precedono la realizzazione dei beni finali. Il processo produttivo per Keynes è un fantasma. ..."

Gerardo Coco da "Keynes, economista contro la realtà"

 Per quanto seducente possa essere per i fautori dello statalismo - chi per ideologia, chi per convenienza - la teoria keynesiana è pura illusione: illusione che si possa creare ricchezza dal nulla; che senza fatica possiamo prosperare tutti e che il conto, se ritardiamo, alla fine non dovrà pagarlo nessuno. O forse anche Keynes sapeva che alla fine, nel lungo periodo, qualcuno questo conto lo dovrà pur pagare.

Ma cosa importa?

 "Il lungo termine è una guida fallace per gli affari correnti: nel lungo termine siamo tutti morti."

John Maynard Keynes

 

    Chicago-Blog, con Oscar Giannino, poi ci ricorda che ...

 
 
 

"Io amo il mio paese, è lo Stato che mi spaventa".

Post n°52 pubblicato il 16 Settembre 2009 da liberemanuele
 

La frase sopra riportata, è quella della T-Shirt che sabato scorso, durante la manifestazione a Washington contro la riforma sanitaria di Obama, andava per la maggiore. Una grande manifestazione, tanto più importante perché in America spostarsi costa e i conti non li pagava il sindacato di turno.

La bellezza di questo corteo sta nel suo essere stato priva di guida o leader. Una rara manifestazione "contro le tasse": perché la buone intenzioni di Obama andranno sulle spalle del contribuente americano, che sarà costretto - nel caso passasse - a pagare le spese di un' altra "guerra in Iraq". E' stato proprio Obama a dirlo, questa riforma costerà "meno" della guerra in Iraq o del conflitto afgano: certo, meno, ma paragonabile.

Ma non è solo una questioni di conti, a rischio è messa la libertà di scelta in tema di sanità, che se per noi italiani - o europei - è poco importante, dato che abbiamo completamente delegato allo stato questa scelta, in America tale scelta è sinonimo di qualità della sanità.


Una delle bandiere più in voga in questo tipo di manifestazioni è la Gadsden Flag il cui motto è "Don't treade on me", questo perché il popolo americano è ostile alle intromissioni del governo sulla propria vita. Basta guardare gli altri tentativi di riforma sanitaria come quella di Clinton, milioni di americani (non i super ricchi, che anzi sanno che le interferenze statali talvolta possono tornare loro comode per i propri affari), come oggi controObama, la contestarono.

"... però costerà. Anzi, costerà molto. E di nuove tasse molti cittadini di Obama non vogliono sentir parlare: grazie abbiamo già dato. E di nuove intromissioni pubbliche non soltanto i repubblicani, ma altresì non pochi democratici, sono stufi."

                                                                                      Marco Bertoncini da "Italia Oggi" 15/9/2009

Ovviamente gli italici commenti sono stati favorevoli ad Obama, e non solo nella stampa. Finalmente un po' di dirigismo pubblico a mettere a posto questi americani; finalmente un po' di più di sicurezza garantita dallo stato anche nel paese che fece dell' iniziativa umana spontanea la sua bandiera. Questa ha fallito: cioè andava benissimo, poi lo stato ha esteso sempre più i suoi poteri e competenze, appesantendo la spesa pubblica e entrando in concorrenza con i servizi che prima venivano dati volontariamente o a condizioni accessibili a tutti. Ha scritto nuove regole di un gioco in cui entrato a far parte, costruito una burocrazia, e tale fornitura servizi è diventata impossibile ai più, tanto che alla fine solo lo stato può permettersi certi "lussi" umanitari.

Ora che si è visto che le intromissioni statali sono state funeste, al contrario di quanto sarebbe logico - ovvero il ritorno a quel tipo di sanità privata, basata sul volontariato e sul buon senso umano - , si vuole far riscrivere tutte le regole in materia allo stato.

Leggendo l'articolo apparso sul New York Times, a firma di Barak Obama, sulla riforma sanitaria si notano tutta una serie di obbiettivi, con cui sembrano tutti d'accordo - poi però milioni di persone manifestano -, che si raggiungerebbero con un' altra serie di costrizioni alle società assicuratrici e non ultimi ai contribuenti che pagheranno il conto.

Perché la questione fondamentale è proprio questa: la lotta tra "costrizione" da parte di alcuni e "volontarietà" di tutti: più sfiducia c'è per la seconda e più potere avrà la prima e quindi, in questo caso, Obama, istaurando così, riforma dopo riforma, il temuto Big Government.

 
 
 

Autostrada svizzera.

Post n°51 pubblicato il 12 Settembre 2009 da liberemanuele
 

 

Il "giretto" è terminato. La conclusione è che tutto quello che si dice sulla Svizzera è vero, a parte che è cara, questo no - per lo meno paragonata a molte città italiane. Per la verità un caffè nel centro di Lugano può costare più di un 1,50 €, ma se ci arrangia un po' è molto vivibile.

La cosa che mi ha più colpito è la cura che si percepisce una volta varcata la soglia della dogana. Da subito si avverte qualcosa di diverso. La qualità delle strade, dei luoghi pubblici come i negozi, i bagni e i bar, la ricercatezza delle costruzioni, la buona manutenzione delle cose, la vivacità d'iniziativa che c'è e  la gentilezza. I negozianti, per lo meno nella mia esperienza, sono disponibili, rispettosi, anche quando alla fine non si acquista.

La città di Lugano è davvero splendida: piccoli negozietti stile centro storico, si alternano a modernissimi ipermercati a più piani. Visitando uno di questi, che sfoggiava una bellissima facciata di vetro e metallo proprio in mezzo al centro città, ho notato che per vestiti, di marca o no, il prezzo (una volta calcolato il cambio in euro) non era tanto diverso che dai negozi di Perugia, anzi, in più ho apprezzato un' ampissima scelta. Peccato che i miei anticorpi contro lo shopping siano davvero troppo forti, altrimenti avrei rifatto il guarda roba nuovo per quest'inverno!!

Insomma, mi sono proprio innamorato di questa città, viva, curata, dove le file di auto (unico neo: le file nelle strada di Lugano sono impressionanti, sia di mattina che nel pomeriggio) si fanno con pazienza, calma, senza fare i furbi - l'unica auto che ha suonato il clacson era una Focus con targa italiana. 

Tutte le strade a Lugano e nei paesini limitrofi sono perfette, le autostrade anche meglio e, non vedendo caselli o indicazioni, pensavo  addirittura gratuite, fino a quando il buon Z3ruel mi ha spiegato che invece si devono pagare!! Quindi, oltre al solito timore dei vari tutor autostradali, macchinette nascoste da poliziotti birichini e semafori "Grande Fratello" - che non si capisce bene quando scattino la foto una volta accesa la luce arancione - ora ho anche le autostrade Svizzere tra le "cartoline turistiche succhia soldi" che mi potrebbero arrivare.

A parte questo, posso dire che la Svizzera è davvero un "paradiso" ... e non solo fiscale.  

 

 

 
 
 

Si parte per il "giretto" di fine estate.

Post n°50 pubblicato il 08 Settembre 2009 da liberemanuele
 

Finalmente anch'io faccio le mie vacanze estive!

Como, passo per una visita a  Lugano e finisco con il Lago Maggiore!

... e si torna venerdì!

 

 
 
 

"A WAR THAT ITALY FORGOT - Long live Insulo de la Rozoj!"

Post n°49 pubblicato il 02 Settembre 2009 da liberemanuele

Sul sito del Corriere qualche giorno fa è apparso un articolo che aveva come oggetto una storia molto singolare, se non straordinaria, cui già c'è un gruppo su facebook. Ieri, visitando il sito del "Movimento Libertario", ho visto il filmato che ho riportato qui sopra, e mi sono deciso a dedicargli un post.

Protagonista della vicenda Giorgio Rosa, ingegnere bolognese, figlio di un ufficiale dell'esercito Regio.

"Sono un liberale, un indipendente che non crede nelle religioni e nei partiti. Quindi anche oggi l'Italia non è il posto giusto per me."

Giorgio Rosa

 Modi e parole da gran borghese, un signore che ha realizzato, seppur per poco tempo, il sogno anarchico di ogni anima indipendente: "costruire qualcosa che fosse libero da lacci e lacciuoli ... ".

"Insulo de la Rozoj", ovvero tradotto in italiano "L'Isola delle Rose" - perché come stato indipendente aveva anche una lingua ufficiale, l'esperanto - nasce il primo maggio 1968 con atto unilaterale. Stampa anche dei suoi francobolli.

Ma l'Italia, con insolita prontezza, risponde all'affronto e soffoca il sogno di autentica libertà che durava da meno di un anno.

Così, mentre il 13 febbraio 1969 la Marina militare mina l'isola, che poco tempo dopo verrà inabissata da una tempesta, le piazze d'Italia sono piene di ragazzi che urlano per la "fantasia al potere", manifestano e si uccidono per ideali. Sono gli anni di piombo e la politica sopporta - se non strumentalizza - una generazione che sbraita il nulla e poco altro, piuttosto che rispettare la creazione di un' anima anarchica ma pacifica, che non vuole né potere, né nulla che non sia già suo di diritto.

Ma diciamolo, a noi italiani la libertà fa paura: qualcosa che esce dagli schemi, senza offendere il diritto di nessun altro, è inconcepibile e così gli facciamo la guerra: "l'unica che l'Italia sia stata capace di vincere" come dice l'ingegnere.

Ma c'è una sorpresa: su Google map una bandiera rossa in mezzo al mare sta a ricordare il sogno iniziato nella primavera del 1968.

 

 

 
 
 

La scelta fatale.

Post n°48 pubblicato il 01 Settembre 2009 da liberemanuele
 

L'estate, che un po' per tutti sta finendo, è stata particolare.

 Nonostante la crisi, pochi sembrano essersi preoccupati, il messaggio è stato "va tutto bene, aspettate le riforme dei vostri governi e andate in vacanza. Qualcun altro ci penserà per voi".

Intanto i licenziamenti continuano, le attività chiudono,  si proclama l'uscita dalla crisi ma contemporaneamente si preannuncia un autunno nero.

Ho sofferto abbastanza questo caldo agosto, vuoi perché per tre quarti sono stato in ufficio a fare i conti con scadenze e clienti, vuoi la stanchezza, e così mi sono - complici le frequenti uscite serali (in cui, a differenza degli anni scorsi, grazie al liberalissimo governo Berlusconi,  ho dovuto alternare alla amatissima bionda fresca, antiestetiche bottigliette d'acqua) - dedicato poco sia al blog che alla letture.

La sera scambiando quattro chiacchiere con persone molto diverse tra loro, ho trovato conferma a molte delle riflessioni fatte nei mesi scorsi.

"... Appaiono nuove generazione adeguate - o com'è ormai di moda dire "condizionate" -  a nuovi incrementi del potere dello Stato e che tendono a considerare normale il processo di accumulazione continua di potere [...] E nel loro essere incorreggibili sicofanti diventano, come dice Plutarco, una sorta di ipocondriaci che non osano mangiare o fare un bagno senza consultare il loro medico ..."

Albert Jay Nock

Troppi. Veramente troppi credono che il proprio destino sia nelle mani dei governanti e che quest'ultimi, più poteri abbiano e meglio sia. C'è una buona parte di persone che metterebbe volentieri nelle mani del despota di turno il proprio destino, pur di stare tranquillo per un domani "sicuro" (anche se in catene).

Si abdica volentieri alle responsabilità verso se stessi quando la situazione non è buona e così, a colpi di autorità, si crede di potersi risollevare.

C'è una diffusa ignoranza, la stessa ignoranza che dà luogo a una "superficialità fatale". La superficialità per cui la moralità delle azioni umane non è indispensabile, per cui dato che tutti fan così è anacronistico e reazionario affermare dei valori obsoleti per quest'epoca o semplicemente troppo scomodi per far fronte alle necessità del momento. 

Ma se si smette di credere a quei valori, nella necessità dei "mezzi economici", quindi all'azione volontaria, al lavoro per trasformare le risorse in beni, il bisogno umano di socialità, l'indispensabile cura della proprietà privata, e si preferisce invece l'azione riformatrice dei "mezzi politici", siamo meno lontano di quanto sembri da un mondo fatto di saccheggio, odio reciproco e lotta per il potere coercitivo.

Perché se l'unico modo di far sopravvivere la propria attività è mantenere rapporti con il pubblico per aggiudicarsi appalti, agire fuori mercato e arricchirsi quindi alle spalle di chi non può scegliere, vuol dire che abbiamo scelto la prevaricazione del nostro prossimo al reciproco vantaggio.

 Stesso discorso vale per chi difende il proprio posto di lavoro con l'arma dell'autorità statale.

Chiunque voglia far vedere "chi comanda" e non si accontenti più del rapporto volontario, ha fatto una scelta precisa.

Il "mezzo politico" però è un' arma a doppio taglio: se tutti facessimo questa scelta il mondo diventerebbe a breve "un' orgia di sopraffazione".

Per fortuna poi leggo editoriali come quello di Piero Ostellino sul CorSera della settimana scorsa, e mi ricordo che ci sono pure "... piccoli e medi imprenditori, ora nei guai, fuori dal circuito delle complicità pubbliche e private; commercianti al dettaglio; professionisti isolati; lavoratori del settore privato; precari; giovani. Se la cavano come possono - contro gli eccessi di regolamentazione, la burocrazia, i privilegi politici, l'eccessiva pressione fiscale, la carenza di infrastrutture, la filiera di complicità - affrontando le incognite e le durezze della vita, e del mercato, con coraggio e spirito innovativo. Sono la risorsa che fa dell'Italia ancora una società 'aperta' e competitiva" .

E io posso vantarmi di farne parte.   

 

 

 
 
 

"Perché l'aiuto ai paesi poveri, a ben guardare è un imbroglio"

Post n°46 pubblicato il 15 Luglio 2009 da liberemanuele
 

 

 

" ... E' solo la rappresentazione di una generosità a spese altrui - i contribuenti - che si converte immediatamente in un solido supporto a regimi disastrosi".

Carlo Lottieri, da ilTempo del 9 luglio 2009

L'estate è arrivata e si sente anche qui. Solo in ufficio non è cambiato nulla, grazie al aria condizionata nemmeno di temperatura - quasi .

Ma le notizie e le novità non sono andate in vacanza: ieri lo sciopero dei blog (contro non so bene quale decreto Alfano), nuove regole sul codice stradale (e qui c'è da dire, anche in senso positivo, ma devo documentarmi meglio) e la conclusione del G8.

Pensare ad otto uomini che decidono sul destino di miliardi di persone non mi ispira nulla di buono; quando sento parlare di regole per l'economia proposte dai capi di stato (che come dice il buon Ron Paul, per la regola del "chi paga chi", saremmo noi a dover regolare loro, non il contrario), rientro (forzato?) dei capitali dai paradisi fiscali (e sul paradosso evocato da questi termini, già mi sono espresso), nuovi protocolli per il clima (che fanno sorridere dato che le vere potenze mondiali, ed emergenti, non firmeranno questi protocolli, che rallenteranno solo la nostra crescita - saturando ancora di più la burocrazia per le imprese - e  impediranno la nascita di attività economiche nei paesi del terzo mondo) e - appunto - aiuti all'Africa.

Proprio di questi vorrei parlare e vorrei farlo con l'aiuto di un economista "dissidente", Peter Bauer.

Come disse Lord Desai, Peter Bauer era uno convinto che "la forza trainante dell'interesse personale nel perseguimento del benessere, avesse un'applicazione universale". "Universale" appunto. Nonostante le differenze di credo e di istituzioni, l'atteggiamento umano è fondamentalmente economico.

Partendo da qui, lancia la sua critica al mondo della scienza economica - in pieno stile "Scuola Austriaca" - reo  di essersi ormai viziato di modelli economici sofisticati "in cui l'astrazione e l'aggregazione implicate li rendono irrilevanti [...], diventano travisamenti che deviano l'attenzione degli elementi essenziali e oscurano le questioni più importanti".

Quali sono queste questioni "più" importanti?

Semplice: i principi fondamentali dell'economia. In un ampio studio, fatto direttamente in loco - Asia ed Africa - nel 1957, Bauer rilevò:

"Ora, sono convinto dell'ampia applicabilità ai paesi sottosviluppati dei metodi e dell'approccio base delle scienze economiche. [...] Penso in modo particolare agli elementi dell'analisi della domanda e dell'offerta e alle sue conclusioni più elementari, alla tendenza delle persone di ricercare attività e occupazioni che producano il più alto guadagno netto, all'interno delle opportunità che si aprono loro".

Altro punto fondamentale - per questa mia riflessione - sono le "... opportunità che si aprono loro".

Come ben dice Mingardi, ne "ilRiformista" dell'11 luglio, gli africani non hanno bisogno di regali, ma solo di un po' di aiuto in termini che non siano monetari. Tempo fa, ho scritto un post a favore di un'iniziativa importante "free-trade, peace and prosperity" : non c'è momento migliore di ribadire il concetto.

A fronte di ministri europei e americani - in particolar modo dell'agricoltura - che urlano a favore del  protezionismo contro le merci che provengono dai paesi emergenti - atteggiamento che chiamerei "tremontismo", data la passione che il nostro ministro dell'economia ha, nel propagandare "tesi" abominevoli che vanno proprio contro la nascita di iniziative economiche spontanee nei paesi sottosviluppati -, l'unica cosa realmente umanitaria che possiamo fare è aprire i nostri mercati ai prodotti (in paricolare agricoli) dell'Africa - dato che poi la nostra agricoltura è un settore in gran parte parassitario.

"Per uscire dalla povertà, c'è solo una possibilità: crescere, ovvero creare ricchezza. Creare, non ricevere.[...]E i Paesi africani hanno bisogno anche di cose che noi non possiamo dargli: di attrarre investimenti esteri, dandosi regole certe e conoscibili agli imprenditori; di incentivare l'afflusso di forza lavoro ed energie vive nel privato, e non nel pubblico; di sviluppare l'attitudine imprenditoriale diffusa, un'autentica vocazione alla crescita".

Alberto Mingardi da "ilRiformista" 11/7/2009

Ma la prima cosa da fare è smettere con la marea di aiuti umanitari che mandiamo - per garantirci un posto in paradiso, non altro - giù. E' un imperativo se vogliamo veramente che l'Africa si rialzi. I nostri aiuti -dai vestiti agli alimentari - rendono vano qualsiasi principio di attività economica - la produzione, anche se poco, costa, mentre la donazione no -, i nostri soldi vanno ad ingrassare i despota locali che ovviamente non permetteranno alcuna riforma e anzi cercheranno di ingessare la situazione finché possibile.

Come chiedeva ai grandi della terra l'economista keniota James Shikwati :

"Per l'amor di Dio, per favore fermate gli aiuti".

 

 

 
 
 

Appello della cultura.

Post n°45 pubblicato il 10 Luglio 2009 da liberemanuele
 

Bene. Credo che Bastiat  questi giorni ne abbia abbastanza di essere messo in ballo, ma non è colpa mia se quella sua definizione di Stato calza a pennello al mio paese - per la verità anche agli altri.

Dopo aver letto dal Corrierone Web l'appello del "mondo del teatro"al governo, all'insegna del solito "bene comune" - strumento efficacissimo di parassitismo -, vorrei proporre alcuni pezzi per accendere un po' di sdegno anche in voi.

"In qualità di rappresentanti delle istituzioni culturali private e pubbliche del nostro paese, vi rivolgiamo un appello perché, attraverso nuove regole di sostegno, il nostro settore possa tornare ad agire da vero contributore della ripresa dello sviluppo della nostra Nazione ... "
Ci siamo. I parassiti dello spettacolo, privato e pubblico, che si sentono aristocrazia in uno Stato predatore come il nostro, dove viene tassata anche l'aria respirata, reclamano il diritto a vivere sulle spalle della "Nazione".

Loro.

Loro che schifano anche l'inno cantato al mondiale, che per sessant'anni hanno condannato chiunque reclamasse amor patrio; loro che ancora, dopo decenni passati, si scandalizzavano di fronte all'uso della parola "Nazione", oggi non disdegnano di riscaldare il cuore delle istituzioni per chiedere la carità.

 Sempre *Frédéric Bastiat, ponendosi la domanda "Lo Stato deve sovvenzionare le arti?", si chiedeva: "... Il diritto del legislatore va fino ad intaccare il salario dell'artigiano per costituire un supplemento di profitti all'artista? Lamartine [Alphonse-Marie-Louis Prade de Lamartine 1760-1869] diceva: "Se eliminate la sovvenzione a un teatro, dove vi fermerete su questa strada? E non sarete logicamente trascinati ad eliminare le vostre università, i vostri musei, i vostri istituti, le vostre biblioteche?". Si potrebbe rispondere: " Se volete sovvenzionare tutto ciò che è buono e utile, dove vi fermerete su questa strada? Non sarete trascinati logicamente a costituire una lista civile per l'agricoltura, l'industria, il commercio, la beneficenza, l'istruzione?" Poi è sicuro che le sovvenzioni favoriscono il progresso dell'arte? E' una questione lontana dall'essere risolta, mentre vediamo coi nostri occhi che i teatri che prosperano sono quelli che vivono di vita propria...".

Ma ritorniamo ai nostri artisti. C'è un pezzo che mi ha incuriosito: "... In questi giorni il cinema, lo spettacolo dal vivo, la lirica, la danza stanno attraversando momenti di apprensione in attesa delle decisioni del Governo sulla dimensione dei tagli di spesa ... ". Spesa!? Ma non erano una ricchezza?!

Non basta. Ecco la ciliegina sulla torta: un connubio tra olismo filosofico e elitarismo di maniera: "... Crediamo che la cultura e la creatività, ancora una volta, possono essere elementi fondamentali per ricostruire un disegno generale di sviluppo del Paese, sia per risollevare l'economia che per riaffermare e sviluppare i caratteri della nostra identità culturale. ..."

Poi si arriva al dunque: " ... diversamente da quanto previsto per altri settori della produzione nazionale e locale, altrettanto vitali per questo nostro paese, per la cultura e per lo spettacolo che ne è parte integrante, il Governo non ha proposto nessun tipo di sostegno ..." .

Ecco il punto: perché in un momento di "magna magna, tanto c'è la crisi" generale, anche loro vogliono unirsi alla mangiatoia, anche loro vogliono la loro parte nel parassitario aiuto statale. In più loro sono la parte migliore della Nazione, hanno preciso diritto di oziar.. o pardon, esprimere la loro arte, a spese di noi altri poveri ignoranti, che ai loro spettacoli non andiamo ... ma perché non capiamo, mica altro. Della serie, come direbbe il Marchese Del Grillo, "Io so' io e voi non siete un cazzo".

Parlano di stimolo, lor signori della cultura, magari si sono letti Keynes e gli piaciuto. Il popolo mollaccione va spennato ben bene, e il furto ridistribuito tra le élite di corte, in cui loro primeggiano per grazia della superiorità "morale" che gli è propria.
 In fondo loro sanno cos'è bene per noi, chi meglio di loro può farsi interprete della "volontà generale"? Lo stimolo deve passare anche per la cultura.

 "Io sono tra quelli, lo riconosco, che pensano che la scelta, l'impulso, debbano partire dal basso, non dall'alto: dai cittadini, non dal legislatore; e la dottrina contraria mi sembra condurre alla distruzione della libertà della dignità umane."

*Frédéric Bastiat

L'idea qualcuno si sarà fatto a questo punto, è che io vedo l'arte come una cosa inutile. Innanzi tutto sono un appassionato delle opere teatrali, amo la commedia di Eduardo De Filippo, sono un collezionista di cd jazz, per hobby faccio il musicista, compro diversi dvd all'anno e vado spessissimo al cinema. Per la verità non sono una grande amante dell'arte visiva: quadri, monumenti storici e quant'altro; ma non per questo mi si può accusare di aridità culturale!

Il problema non è questo, ma è che semplicemente l'arte deve vivere di se stessa, mettersi in gioco e accettare che il mercato sia giudice. Solo così potremo assistere ad una vera rinascita della cultura e dell'interesse verso di essa. Maggiore dinamismo, attenzione ai gusti del pubblico, maggiore opportunità di entrare nel mondo dello spettacolo, più facilità nell'individuazione dei talenti: il mercato libero, ovvero senza che nessuno sia obbligato a mantenere qualcun altro a forza, genera ricchezza e accresce.

"... Lungi da noi l'assurdità di pensare di distruggere la religione, l'istruzione, la proprietà, il lavoro e le arti, quando chiediamo che lo Stato protegga il libero sviluppo di tutti questi campi d'attività umana, senza prezzolarli a spese l'uno dell'altro; noi crediamo al contrario che tutte queste forze vive della società si svilupperebbero armoniosamente sotto l'influenza della libertà,  e che nessuna di esse diventerebbe, come vediamo oggi, fonte di problemi, di abusi, di tirannie e di disordine.

I nostri avversari credono che un'attività che non è né prezzolata né regolamentata, sia un'attività distrutta. Noi crediamo l'opposto. La loro fede è nella legge, non nell'umanità. La nostra e nell'umanità, non nella legge."

*Frédéric Bastiat

Per finire in bellezza, l'ultimo pezzo dell'appello per la cultura: "[Il Governo] ... dovrebbe garantire a tutta la popolazione non solo il diritto al lavoro, ma la libera fruizione dei 'beni primari' (che tutti gli esseri raziocinanti vorrebbero fruirne) [bene! Cornuti e bastonati: non solo dobbiamo finanziare con le tasse i loro "spettacoli", ma siamo anche dei "diversamente razionali" - imbecilli - perché non andiamo a vederli!] considerati tali dalla nostra Costituzione, che sono l'essenza del consesso civile e che vanno trasmessi a chi viene dopo di noi."

Una volta di più si conferma la massima sullo Stato, cui mi riferivo all'inizio, del protagonista di questo post, Frédéric Bastiat: lo Stato è davvero il mezzo per riuscire a vivere sulle spalle degli altri ...

*"Ciò che si vede, e ciò che non si vede" 1850 - Frédéric Bastiat 

 

 
 
 

Quotidiani di Stato.

Post n°44 pubblicato il 07 Luglio 2009 da liberemanuele
 

Avevo cominciato a ragioneria a comprare il giornale, prendevo Libero di Vittorio Feltri, mi sembrava un giornale "giusto": per me era una bandiera di indipendenza e mi inorgogliva mentre passavo tra le facce sdegnate dei miei amici più sinistroidi.

Per dirla tutta per me è stato un modo per ammazzare il tempo. A sedici anni ho avuto un brutto incidente in moto, e sono dovuto star per un po' a riposo, allora date le mie carenze generali a scuola, avevo deciso di darmi da fare. Come prima cosa ho cominciato a leggere ... e non è stato proprio facile! Ero l'ultimo della classe, sono sempre riuscito ad essere promosso, anche a scapito di altri che andavano meglio di me: ma mentre loro tracollavano, io al momento giusto sapevo cosa fare. Volontario a interrogazioni in maniera ossessiva negli ultimi due mesi (strategico, dato che così alla fine si dicono più o meno sempre le stesse cose); perfettamente presente nell'ultimo periodo - dopo anche settimane intere di "salina" nella periodo invernale -; chiacchierate, per la verità anche disinteressate, con i professori.

Cominciare a leggere per passione non è stata una passeggiata, allora per alleggerire l'impresa e al contempo incentivarmi, ho cominciato a comprare il famigerato quotidiano. All'inizio è stato demoralizzante: farmi vedere leggere le grandi pagine scure del giornale con l'aiuto del dizionario è stato imbarazzante nel primo periodo. Poi, una volta preso il via, devo dire che è stato utile per un sacco di cose. Scrivere meglio - posso assicurare che anche se negli ultimi anni la mia scrittura può considerarsi dignitosa, prima era davvero un disastro, senza considerare un dizionario personale misero -, conoscere un po' di storia, avere delle opinioni più o meno personali su una gamma di argomenti da far invidia a tutti i miei coetanei. Il passo successivo è stato leggere Montanelli, da lì arrivo fino ad oggi, ma questa è tutta un'altra storia.

Riprendiamo il filo. Tutto questo per dire che con il quotidiano ho sempre avuto un ottimo rapporto, ne ho passati due o tre e fino a un anno e mezzo fa, lo compravo tutti i giorni. Da Libero, a il Giornale, da ilFoglio a ilRiformista, passando talvolta per l'immancabile CorSera. A dire la verità ilRiformista qualche volta ancora lo bazzico, non fosse altro che per leggere l'editoriale del liberista - Alberto Mingardi.

Detto ciò, a un certo punto ho deciso di non comprare più cartaccia d'informazione. Perché? Primo, perché anch'io - come molti altri, ho notato - ho visto la puntata di Report che trattava di finanziamenti pubblici ai giornali, secondo perché la qualità dell'informazione, sempre su questi, non regge la concorrenza del web! Ormai tutti i giornali sono fine a se stessi: le polemiche che imbastiscono sono spesso contro altri quotidiani e, oltre agli scoop da cronaca rosa, non forniscono spunti utili per alcuna riflessione.

Ora, spero nessuno insinuerà che si trova davanti il solito spettatore di raitre che si beve tutto quello che dice mamma rai comunista e che ha abboccato al succoso amo della televisione pubblica d'inchiesta. Non è così. Ma non si possono negare i meriti di questa trasmissione - seppur solo utili a scopi propagandistici -, come nella puntata prima citata.

Mentre pranzavo, in tv ho sentito un qualche garante, di cui non ricordo ruolo e nome, che raccomandava ai giornali di sconfiggere il Web sulla qualità!!!

Sono scoppiato a ridere.

Il quotidiano è diventato qualcosa di volgare, losco, dedito alla logica del malaffare di stato e schiavizzato al potere (altro che cane da guardia!). Succhiano milioni dalle tasche dei contribuenti, che inebetiti vanno anche in edicola a pagare l'euro quotidiano all'editore truffatore.  Le stesse professioni che girano intorno ai giornali sono le solite corporazioni all'italiana: chiuse, dedite all'autoconservazione - come se ci fosse qualcosa da conservare ... -, ripiegate su se stesse, auto celebrative  e schiave del potere.

Non per niente dal potere vengono "stipendiate".

"Il grido di Liberty è: 'abbasso l'autorità', e la sua battaglia principale è contro lo stato; lo stato che corrompe i bambini, lo stato che ingabbia la legge; lo stato che soffoca il pensiero, lo stato che monopolizza la terra, lo stato che limita il credito e lo scambio, lo stato che dà al capitale ozioso il potere di espandersi, e che attraverso l'interesse, la rendita, il profitto e le tasse deruba il lavoro industrioso dei suoi prodotti".  

Benjamin R. Tucker

 

Grazie all'amica to_revive, integro il post con una lettera molto ineressante, scritta da Oscar Giannino, a Report:

Colleghi di Report, e in primis Milena Gabanelli che della trasmissione di Rai3 da anni è conduttrice e animatrice, ho chiesto io di rispondere al vostro servizio di domenica sera, dedicato alla stampa italiana sostenuta dal finanziamento pubblico. Per tre buone ragioni. La prima è che a differenza di molti che altrove se ne riempiono la bocca sono liberista e antistatalista di fatto e non di nome, dunque l'accusa lanciata nella vostra trasmissione a Libero a me brucia in massimo grado. La seconda è che sono abituato a parlare carte alla mano, e a rispettare i colleghi che la pensano anche molto diversamente da me - e non me ne importa nulla per che cosa votino o non votino - se hanno carte in mano. La terza è che tanto mi sono incazzato al servizio che avete mandato in onda, che la prima cosa che ho fatto mentre ancora veniva trasmesso è stato di appendermi al telefono col direttore generale dell'azienda, per avere conferma di come stavano le cose. E, ieri mattina, riprese le carte in mano penso proprio che sia stato giusto e sacrosanto, procedere per una volta a un passo verso il quale abitualmente non ho alcuna fiducia, quando si tratta di polemiche giornalistiche: citarvi in giudizio per danni. Nel puntare il dito accusatore contro i denari pubblici alla stampa, avete ragione. Per quanto mi riguarda, la legge va abrogata. Per farla abrogare, bisogna indurre i cittadini a sapere come stanno le cose. Dei 447 milioni e 38 mila euro che fanno parte delle previsioni assestate 2007 delle provvidenze all'editoria, però, voi avete citato solo en passant il fatto che 23 milioni e mezzo vanno al Corriere della sera-Gazzetta, oltre 19 milioni al Sole 24 ore di Confindustria, oltre 16 a Espresso Repubblica, oltre 10 all'Avvenire e 30 alla Mondadori. E via continuando, per consistenza di grandi gruppi editoriali. L'avete detto interpolando a un certo punto e di corsa passaggi diversi di un lungo servizio, il cui montaggio era invece intenzionalmente rivolto a descrivere Libero, come il giornale italiano principe dei ladri. Come il più disinvolto a beccarsi i suoi 5 milioni e 450mila euro di contributi barando su conti, fatture e vendite. Siete padroni, padronissimi di considerare Libero carta igienica, cari colleghi di Report e carissima Gabanelli. Ma c'è un particolare decisivo. Le accuse che avete lanciato sono false. E lo sono carte alla mano, perché me le sono fatte ridare tutte dall'amministrazione. E so perfettamente che, scrivendo oggi, mi espongo a venire in Tribunale per accusarvi. Non sarà un piacere, vi garantisco, ma se necessario non mi tirerò indietro. Per esempio, avete sbertucciato Vittorio Feltri sostenendo che diceva balle, nell'intervista che vi ha reso e che avete artatamente interpolato. Ma quando mai, avete detto, Libero vende a Ferrovie dello Stato le copie al giorno regolarmente fatturate come vi diceva Feltri. Bernardo Iovene ha replicato che avete le prove che ogni giorno le copie sono almeno 670, dunque più di 20mila al mese circa. Ebbene avete mentito per la gola. Perché le fatture qui parlano chiaro: il mese del 2006 in cui Libero ha venduto più copie a Fs è stato novembre scorso, e le copie sono state 4.626. In tutti gli altri mesi dell'anno le cifre del venduto a Fs stanno tra le 1500 e le 1.700. Al mese, dunque una cinquantina di copie al giorno, non 14 volte tanto come da voi affermato. In più, avete mentito sul fatto che la fondazione Onlus che gestisce la testata di Libero abbia la stessa partita Iva di una società a fini di lucro dell'editore Angelucci, e la cosa vi era stata del resto correttamente risegnalata anche dopo l'intervista che avete realizzato al direttore generale della nostra editrice. Intervista interpolata anch'essa, naturalmente. Avete preferito mandare in onda la parte in cui il nostro Di Giore non ricordava a memoria la partita Iva, ma avete chiuso gli occhi sulla sua successiva e-mail, in cui vi informava che aveva controllato e le cose non stavano come da voi affermato. Ancora, avete presentato un'entrata del Policlinico Umberto I di Roma come un centro smistamento di migliaia di copie di Libero date gratis ai passanti, per non far comprare altri giornali e mandare in malora il limitrofo edicolante. Quando, con tutto il rispetto, qui a Libero il successo della crescita di copie vendute - il più eclatante nella storia recente del giornalismo italiano, dovreste saperlo, i dati sono ufficiali - dipende esclusivamente proprio dal venduto in edicola, non dagli abbonamenti né dal venduto commerciale che per tutte le altre testate riguarda sino al 40 o al 70% della propria diffusione certificata. Anche nel caso del Policlinico romano, vi era stato detto che le copie sono vendute ad acquirenti e non regalate: ma voi ve ne siete fregati, avete tirato dritto per la vostra strada. Il cui obiettivo rispondeva in tutto e per tutto - lo vedremo in giudizio, per il momento è opinione mia a dare di Libero l'immagine che vi siete ben sognati di appioppare ad altre testate che si abbeverano alla greppia pubblica per multipli della cifra relativa al nostro contributo, e che si diffondono con ben altra disinvoltura commerciale rispetto alle magrissime poche copie da noi vendute fuori dalle edicole. A dirvela tutta, prima della realizzazione del vostro servizio mi era capitato anche di parlarne con i manager della nostra azienda. Proprio perché mi brucia - il contributo pubblico - li avevo invitati a ricevervi carte alla mano, facendovi leggere nel caso in cui non lo sapeste - quante centinaia di milioni vanno ai giornaloni confindustriali, quelli che parlano di nuovo partito della borghesia concorrenziale - e mostrandovi le fatture che attestano inequivocabilmente quanto Libero sia lontano dalle decine - anzi centinaia di migliaia - di copie di finto venduto che gravano sulle loro distribuzioni certificate. Quello era il mio consiglio, perché ritenevo che non avessimo nulla da nascondere, naturalmente. Ma anche perché tantissime volte, negli anni, mi è sembrato che svolgeste un servizio d'informazione prezioso. Ora devo invece toccare con mano che invece, nel nostro caso, avete deciso di ignorare le carte e le risposte. Quante altre volte lo avete fatto? Devo arrendermi all'evidenza che avete montato un servizio in cui i commenti e le immagini successive erano artatamente e abilmente volte a ridicolizzare i fatti che vi erano stati esposti. Avete mostrato Feltri irato, quando vi chiedeva di esibire evidenze diverse, e poi lo avete irriso parlando di centinaia e centinaia di copie gratis diffuse sui treni, esibendo come prova un fattualissimo «lo sanno tutti, anche i controllori». Io dei controllori non so, leggo qui le fatture. E concludo che evidentemente il fatto di starvi sulle scatole vi ha indotto a metterci alla berlina. Voi, pagati tutti coi soldi solo dello Stato, prendere per i fondelli tanto selvaggiamente uno dei pochissimi quotidiani che ancora assume giornalisti grazie alle copie che vende giorno dopo giorno dopo esser partito per l'ennesima volta da zero, come Feltri. C'è di peggio, che la delusione che provo per voi. È la constatazione che nel nostro mestiere il dissenso sulle tesi porta a mentire, deridere e infamare. Che tristezza. 

Questo a dimostrazione che Report, nonostante i meriti, è pur sempre al soldo del potere.

 
 
 

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