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Rosa dei Costanti

Arte e Cultura dell'Isola che non c'è

 

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Premio letterario

Post n°5 pubblicato il 27 Luglio 2009 da rosadeicostanti

In una minuscola piazza di un ameno borgo antico arrivo mezz’ora prima dell’evento. Se non fosse per le sedie disposte a semicerchio, un lungo tavolo illuminato e un cameramen dinoccolato in attesa di fare il proprio lavoro di ripresa, sembrerebbe un luogo fatato: poche persone si intrattengono in un angolo della piazza che ha forma di trapezio irregolare lievemente acclive lungo la direttrice est-ovest..

Sul lato nord un magnifico palazzo settecentesco.

Sulla facciata una grande lapide commemorativa:

 “In questa casa il 17 novembre 1733

nacque

Ottimo Sacerdote

Professore primario di medicina pratica

Protomedico

Autore delle dottissime opere

 (segue un lungo elenco)

Morì in C*** lì 20 gennaio 1819”

 Al primo piano le finestre aperte su stanze illuminate mostrano antichi affreschi, lampadari dalle mille gocce di cristallo, quadri alle pareti.

Sul lato a sud della piazza un antico opificio e un lungo muro che lascia intravedere un giardino con alberi da frutta e specie ornamentali. Un tempo, palazzo e opificio erano il nucleo di un quartiere chiamato “Lambicco” da alambicco, perché lì si distillavano le vinacce per la produzione di alcool.

Arriva l’ora, si comincia e un giovane scrittore che lavora nell’editoria inizia ad introdurre il discorso sul premio letterario.

E’ bravo e sa di cosa sta parlando: distingue con precisione il libro stampato dal libro pubblicato.

Il suo pensiero coincide con quello di un editore di qualità.

Parla della necessità di diffondere la cultura del libro, la cultura della lettura, di stimolare i ragazzi a leggere.

All’improvviso un gatto rosso tigrato attraversa la piazza correndo terrorizzato: è un attimo, quella povera bestia, che ha visto invaso, per una sera, il proprio territorio, strappa un sorriso di compassione.

Si riprende il discorso sulla rivalutazione della lingua, citando il “De vulgari eloquentia” di Dante.

Un noto professore spiega che non si diventa lettori subito ma nel corso di una vita. Ripasso in un lampo la mia…

(A tre anni imparo a leggere e a scrivere con il Maestro Manzi, a cinque avevo già finito di leggere tutta la raccolta di Fiabe in quattordici volumi che mi avevano regalato (ogni volume è almeno di 200 pagine), a dieci avevo già letto un migliaio di volumi che avevo a portata di mano in casa e decido di comprarmi dei libri da sola. Alcuni libri li ho letti più volte, due, tre, in alcuni casi anche venti volte.

Vi lascio immaginare come è finita…)

Mi rendo conto che le statistiche sugli italiani che leggono sono falsati da quelli come me. Dicono che in Italia gli italiani leggono in media 1,5 libri l’anno: io li leggo in una settimana… e mi dispiace che per colpa mia una cinquantina di italiani che non leggono affatto risultino invece leggere quell’insignificante numero di libri.

Citano Seneca che scrive a Lucilio “Ti lagni che hai costì scarsezza di libri: ma ciò che importa non è averne molti ma averli buoni. Una lettura molto attenta giova, una lettura varia diletta. Chi vuole arrivare dove si è proposto, percorre una sola via, e non divaghi per molte vie: questo non è andare ma andare errando”.

Mi guardo dentro, mi interrogo e mi chiedo: ho sbagliato tutto?

Non leggo senza discriminare: pochissimi romanzi (a volte un autore mi regala un suo libro autografato e per delicatezza lo leggo), molti saggi (mai nessuno che me ne regalasse uno!) e qualche libro di poesia (di quelle classiche, antiche, tradizionali, in rima altrimenti per me non è poesia).

Poi rifletto: Seneca nella sua IV Lettera  ammonisce l’amico a tenersi lontano dalle dialettiche sottigliezze di certi filosofi e lo invita a leggere i suoi libri per trarne un duraturo profitto spirituale. Quindi, in effetti, c’era un certo interesse personale in quello che scriveva…

L’illustre relatore parla di “suggestione della lettura” e di “forza della scrittura”, peccato che non citi il “potere della parola”.

Il mundus imaginalis che crea il lettore dentro di sé è poca cosa rispetto a quello che si crea “fuori” quando si legge a voce alta: non ci si deve dimenticare che il suono delle parole è creatore ab origine.

Viene posta una domanda provocatoria: “La letteratura serve ancora a qualche cosa?” Al premio hanno partecipato 47 autori (il numero mi fa riflettere perché 47 = morto che parla). Molti sono autori di durata perché non sono alla prima esperienza. Uno è già famoso e se ne fa il nome (penso: “Vincerà lui”).

Si discute sul fatto che il lettore oggi ha bisogno di narrativa ma nasce la domanda: di sentirsi raccontare che cosa? (penso: appunto! Perché mi devo far raccontare la vita da qualcun altro?).

Si fa una critica feroce della narrativa contemporanea: molti racconti sono ripetitivi. Ma anche così il racconto ha una sua funzione educativa per abituare il lettore a leggere testi via via più sostanziosi. Nell’Ottocento e nel Novecento si voleva raccontata la realtà. Oggi di cosa si può parlare? A che serve parlare di qualcosa?

Il critico afferma che occorrono nuclei “forti” che non sono facili da individuare e che uno scrittore, oggi, in Europa è in grado si soffermarsi solo su alcuni punti (penso: ma dopo aver sostenuto, in filosofia come in sociologia, il “pensiero debole” che si aspetta costui? Dopo la distruzione delle ideologie non è rimasto più neanche il “pensiero”! Gli uomini sono stati trasformati o in bestie o in automi programmati e gli scrittori, spesso, soprattutto quelli che scrivono baggianate, hanno un loro target preciso ed esteso).

Continua affermando che una grande letteratura è fatta di molte opere di buon livello e da qualche capolavoro (penso: questa l’ho già sentita, è una frase fatta, scontata).

Ritiene che al romanzo contemporaneo si chieda di adattarsi ai tempi (penso: certo, oggi chi leggerebbe Liala come mia madre e mia nonna?). Cambiando i tempi si è chiesto al romanzo di tutto. Il romanzo è un genere letterario duttile che risponde sempre alle esigenze del lettore (penso: se si analizzano i romanzi dall’Ottocento ad oggi abbiamo il quadro evolutivo della società attuale).

Conclude che oggi necessitiamo di scrittori “outsider”, definendoli dei guastafeste che rompono la monotonia dell’attualità polemica della realtà, della routine domestica (sic!).

Il mio pensiero corre veloce ai Troll: non quelli delle favole e dei racconti terrificanti ma quelli presenti su Internet.

Penso: di questi nuovi osannati dissacratori della narrativa ne farei volentieri a meno. Non è una mia esigenza.

All’affermazione condivisibile che l’editoria contemporanea è drogata e non apprezza la qualità, segue una lunga lista di tematiche “out” (praticamente tutte le possibili) e si definisce “in” solo l’esplorazione del mondo e del possibile, come se non fossero tali tutte le tematiche criticate (penso: non si dovrebbe parlare di temi, fritti e rifritti, ma di qualità del linguaggio, di purezza della lingua, di esperimenti linguistici che portino la lingua volgare di cui parlava Dante a Lingua viva e moderna, di esplorazioni semantiche possibili che non stravolgano il significato delle parole così come si fa da qualche tempo a questa parte).

Improvvisamente un brivido percorre la mia schiena: l’amante dei dissacratori dà “out” le “frattaglie ermetiche” e “in” “l’espressionismo del noir metropolitano”.

ODDIO! Non ho più che pensare…

Ci ha detto cosa e come raccontare se non c’è uno Sciascia o un Pasolini, usando i linguaggi della modernità e non mi commuove certo il “ruggito dell’iperbole” di vittoriniana memoria da lui citato.

Certo, un genere come il romanzo è “difficile”.

L’unica relatrice cita un fantomatico articolo de La Repubblica del 30 giugno 2009 relativo alle modalità di selezione dei premi letterari (penso: come mai non cita l’articolo di Umberto Eco di quel giorno in cui si parla della “verità” nei romanzi e nella storia?)

Viene fuori la volontà di riformulare il meccanismo dei premi letterari (vince sempre il più noto, che si appoggia alla casa editrice più potente, quello che ha maggiori “conoscenze”) e mi domando cosa abbia fatto la giuria odierna per “innovare” il criticato sistema di selezione (tanto ho già capito chi vincerà il premio…).

Poi capisco: il premio è una operazione cultuale ed economica. Si intende intercettare i lettori giovani a tutti i costi. Si lamentano che “il giovane” legge poco e scrive peggio (avrei detto male, ma si può correggere l’italiano di così illustri relatori?) e, finalmente, viene lanciata una buona idea: portare gli scrittori a contatto con i giovani (mi guardo intorno e constato che l’età media dei presenti è di circa sessant’anni), organizzando un circuito di lettura nelle scuole (penso: speriamo sia interattivo).

Si arriva alla conclusione: i premiati sono un giovane trentenne esponente dei centri sociali che ha dissacrato la città nel “suo” italiano (terzo classificato), una quasi sessantenne dal nome altisonante che fa parlare i suoi personaggi cinquecenteschi con il bell’italiano della classe dei “Gattopardi” (secondo classificato), un noto scrittore ultrasessantenne che legge malissimo la peggiore pagina del proprio libro come se non l’avesse scritta lui.

Qualcuno conclude la serata con una citazione che riporto per intero perché in essa mi ci specchio: “… i libri sono stati i miei uccelli e i miei nidi, i miei animali domestici, la mia stalla e la mia campagna; la libreria era il mondo chiuso in uno specchio; di uno specchio aveva la profondità infinita, la varietà, l’imprevedibilità. Nei libri ho incontrato l’universo: assimilato, classificato, etichettato, pensato, temibile anche; e io confuso l’ordine delle mie esperienze libresche con il corso casuale degli avvenimenti reali.”

(Jean-Paul Sartre, Le parole)

 
 
 
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