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L'altra campana

Itinerario spirituale di un pagano

 

 

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SVEGLIARSI POETA - 10

Post n°2053 pubblicato il 18 Dicembre 2015 da anonimo.sabino
 

 

Giunse il 1976, l’anno del timido strappo del PCI da Mosca e del “Compromesso storico”.

 

La unilateralità di quella mano tesa ai democristiani, snobbata dai cattolici non comunisti, sapeva moralmente di un chiedere perdono a Dio, politicamente di una proposta di armistizio in cambio della legittimazione a partecipare. Per me quel compromesso era la sigla “fine” sull’esperienza comunista, un fallire senza dichiarare il fallimento, anziché misurarci con i nostri errori e incamminarci seriamente per una nostra via democratica, continuando a proporci così come alternativa ai regimi di mafia.

 

Ma può esistere un’alternativa al regime di mafia in organizzazioni politiche che lo riproducono nelle interne consorterie? Vedevo come il comunismo reale avesse fallito il suo obiettivo nell’URSS e come in Italia, per il fatto stesso che non ne parlasse, il nostro P.C.I. si stesse allontanando, esso sì, dalla causa per la quale era nato. Ripeteva la parabola di tutti i partiti, che nascono a sinistra e muoiono a destra. La parabola già percorsa dal PSI: giunto al governo senza una chiara definizione dei programmi di rinnovamento, si era ridotto a contendere alla Democrazia Cristiana le poltrone ministeriali e manageriali, i posti di lavoro come fonte di consensi elettorali, le posizioni personali di potere o di privilegio.

 

Durissimo, il severo Lo Savio, assai prima dei quattro giudici di Mani Pulite, commentava così l’esperienza del centro-sinistra:

 

“Avevamo sperato che i socialisti portassero almeno una ventata di aria pulita. Invece sono arrivati con la fame di chi ha digiunato assai”.

 

Comunista più fedele di me, più fedele nella politica come nell’amore, Antonietta conservava la fede politica come un patrimonio familiare. Per molti anni fu per me la dimostrazione che la base del partito era comunque sana, in grado quindi di stimolare una diversa evoluzione di quella crisi d’identità del comunista italiano. Un comunista che vedeva bene come lo strappo acritico da Mosca fosse il prezzo da pagare per avere il benestare dello Zio Sam. Così, almeno, vivevo io quel trapasso.

 

“Io penso che in crisi ci sia Fabio, non il comunista”, diceva lei.

 

“Non vedi che nelle manifestazioni ci si vergogna ormai di cantare la strofa di Bandiera rossa contenente la parola rivoluzione? Pensa che qualche compagno si mostra insofferente del mio uso della parola padroni”.

 

“Beh, il sistema di mercato l’abbiamo accettato. Quindi l’imprenditore ci vuole… E noi siamo un partito riformista. O no?”

 

 
 
 
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