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Il suo nome era Oddi, ma tutti la chiamavano “La” Oddi per un vezzo tutto nordico di dare un articolo ai nomi propri. Era piccola, cicciosa e calda e usava un rossetto rosa shocking su due labbruzzi asciutti, sempre quello. Ne doveva avere una scorta infinita perché in cinque anni non le ho mai visto un altro colore. Doveva avere anche i capelli sebbene un po’ perché erano dello stesso colore del viso pallido e un po’ perché li portava tirati in un’avara crocchia dietro la nuca io me li ricordo come rade strisce di un beige spento che le rigavano la testa. Entrava in aula con quel sorriso tutto rosa e ci stringeva al petto odoroso e morbido e a noi bimbetti di 7-8 anni ci scoppiava il cuore per l’orgoglio. Un giorno La Oddi si ammalò ed entrò in classe con piglio garibaldino una supplente giovane e nervosa con il viso duro e gli occhi di rettile. Li ricordo bene quegli occhi verdi, grandi, ostili che restavano immobili nei miei senza un battito di ciglia annichilendo la mia volontà di imparare e di crescere. Mi chiamò una mattina davanti alla cattedra, non di lato, ma proprio davanti così che quel pulpito posto sopra una pedana mi appariva come un muro invalicabile, un monumento alla differenza: io piccola e indifesa da una parte e lei immensa e accusatrice nel suo scranno, dall’altra. Di cosa mi accusava? Di aver scritto “Repubblica” con due “b” che secondo lei era un errore dialettale e mi rimproverava sporgendosi al di sopra della cattedra con il collo che le si allungava e si allungava mentre spingeva avanti il viso cattivo e gli occhi da ramarro si sporgevano dalle orbite fino ad arrivare a pochi centimetri dal mio viso terrorizzato. Oltretutto parlava un italiano misterioso, forse del sud, incomprensibile alle mie orecchie di romana di periferia e così le mie colpe scolastiche si addizionavano a quelle familiari nell’inconscio alieno, ma già gonfio, che mi avrebbe tormentato per tutta la vita. Ci ho impiegato anni per capire che “Repubblica” si scrive davvero con due “b”, ma persino adesso ogni volta che scrivo quella parola mi si insinua nell’animo il dubbio che la mia identità romana prevarichi l’italiano e si piazzi prepotente sulla penna e sul foglio. Tutto ciò per dire che l’idea di insegnare il dialetto nelle scuole, seppure gradevole, sarebbe tutto sommato un’idea del piffero (con due “f”) e ingenererebbe nei ragazzi una gran confusione, come avviene già per i figli degli emigranti all’estero … hai voglia poi a spiegare che tera e guera è giusto di qua e sbagliato di là e che il passato remoto di andare è “andai” e non “andiedi”. Un collega olandese era venuto a Roma ad imparare l’italiano e per pagarsi gli studi lavorava di notte ai mercati generali e mi raccontava di quando due scaricatori litigarono perché uno gli diceva “famo” e l’altro lo rimproverava insistendo che in italiano era corretto dire “facemo” e non “famo”. Ecco, và a insegnà il dialetto!
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