come le nuvole
le guardi e credi di poter parlare di loro, di aver catturato la loro essenza ed ecco che sono altro e ancora altro e non le puoi incasellare, descrivere e neppure toccare...
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Vi cuntu un...“Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: — Roba mia, vientene con me!”
Stimolata dal buon, vecchio (ahaha) Bob ho fatto mente locale tra i tanti libri che ho letto nella mia vita, alla ricerca di uno su cui avessi voglia di scrivere una recensione. Ne ho letto davvero molti e troppi bellissimi. Per cui ricorrendo al metodo psicanalitico che prevede lo spegnimento di ogni controllo cosciente e l’affidamento del timone di comando all’amigdala (tecnica nota come “la prima cazzata che ti viene in mente scrivila”) eccomi pronta per una recensione. la mia amigdala... La storia è di quelle che lasciano il segno. I personaggi ti si imprimono nel cuore e a distanza di decenni mi capita di ragionare sulle loro vicissitudini e sofferenze, tutte da loro stessi causate e ottenute con pervicace accanimento. Il nucleo oscuro, l’origine del Male e del dolore di tutta la narrazione è, a mio parere, “la roba” nella sua accezione più brutale: l’accumulo di denaro, terreni, derrate alimentari, titoli e palazzi. E non per vivere meglio e godersi la vita. Non per ottenerne amore e gioia, ma per un distorto senso di riscatto sociale, peraltro mai veramente ottenuto perché chi è nato senza sangue blu, pur divenendo ricco sfondato, non sarà accettato come pari tra i veri “blu vertigo”: i nobili. Il protagonista è infatti di umilissime origini. Uomo forte, intelligente e astuto, nonché gran lavoratore, con queste capacità, dal niente sale i gradini dell’arricchimento in una società che dava molte poche chance ai “tycoons” del tempo. All’inizio della sua avventura umana ha una amante bellissima e di umili natali come lui. Lei lo venera e gli dà due figli maschi ma il nostro eroe, preso dal suo sogno di riscatto, l’abbandonerà. Placherà la coscienza pagando un povero cristo affinchè accetti di sposare la donna e fare da padre ai bambini. Questi ultimi cresceranno contadini e poveri e lui li ignorerà sempre, li rifiuterà portandoli ad odiarlo per come merita. Quando ha accumulato abbastanza “roba” otterrà di sposare una nobile caduta nella miseria più nera. Lei si chiama Bianca ed è innamorata, ricambiata, di un altro aristocratico da cui aspetta un figlio. L’aristocratico è debole e del tutto dipendente economicamente dalla dispotica madre che, non ritenendo l’unione economicamente conveniente, costringe il figlio a lasciarla.
La poverina accetta dunque di sposare l’arricchito in una tristissima cerimonia dove l’unico che sorride, indifferente all’atmosfera e all’evidente sofferenza della futura moglie, è il nostro (si fa per dire) eroe. Nel corso della loro arida vita coniugale, lei lo disprezzerà sempre e proverà ribrezzo ogni qual volta lui vorrà toccarla. Il protagonista crescerà dunque, nel lusso e tra gli agi, la figlia di un altro mentre i suoi stessi figli patiscono la fame. Come in una nemesi, quando la figlia si innamorerà di un giovane dai sentimenti nobili ma dagli introiti modesti preferirà, esercitando tutta la sua protervia di padre padrone, darla in moglie ad un nobile arrogante e dissipatore, che la impalma solo al fine di rimpinguare le vuote casse del casato. I due condurranno, com’è ovvio, una vita di vacui divertimenti, intessuta di tradimenti ed infelicità grandissime. Vedovo e oramai vecchio e malato, il protagonista di questa nera storia di accumulo andrà a vivere nel grande palazzo del genero, e lì verrà tenuto quasi segregato, perché ci si vergogna di presentare in società colui che paga tutti i conti di casa ma non è “loro pari”. Vivrà gli ultimi anni accudito da servi che, annusandolo per loro consimile, lo disprezzano e lo trattano male, deridendolo. Ciliegina sulla rancida torta, ecco che giunto in punto di morte, chiederà di poter abbracciare la figlia. Questa, avvertita del suo ultimo desiderio, si guarderà bene dall’esaudirlo. Morirà dunque solo. Il suo nome era Mastro Don Gesualdo.
P.S.: Considerato che come conclusione a questo pregevole post mi sovvengono frasi come “la miseria non è vergogna ma manco prio”, “i soldi non danno la felicità” e l’ abominevole “anche i ricchi piangono” , mi vedo costretta a licenziare su due piedi quella mentecatta dell’amigdala e a reintegrare, al comando, le mie più alte funzioni intellettive… (si avvisano i naviganti che non saranno tollerati commenti che riportino espressioni del tipo “non vediamo la differenza nella linea di comando”, “alte funzioni intellettive, ahahahah” e “W l’amigdala” o “arridateci l’amigdala!”….Grazie!) una rara immagine dell' amigdala e delle mie più alte funzioni intelletive |
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