Lo stile Bergoglio è unico. E ha impattato fin dall'inizio del suo papato con la comunicazione esterna della chiesa cattolica. In un mondo genuflesso ai piedi del papa “venuto dalle periferie”, non su tante riviste laiche e di sinistra si può trovare oggi uno scritto che non fa sconti a nessuno. Demistificando l'immagine di uno stregone moderno abilissimo nel giocare con i media, anche quelli new.
La nuova era della comunicazione vaticana è iniziata il 13 marzo 2013, con poche semplici parole: «Fratelli e sorelle... buonasera». L'argentino Jorge Mario Bergoglio si presentò così al mondo dei fedeli cattolici, dopo aver scelto il nome di Francesco, lui gesuita, cosa che mai nessun papa aveva fatto prima.
L'11 febbraio, Benedetto XVI aveva improvvisamente abdicato, piegato sotto il peso degli scandali planetari provocati dagli intrighi interni alla Curia romana e dalla malagestione della finanza vaticana e di decine di migliaia di casi di pedofilia. Scandali che gli erano arrivati fino in casa avendo lambito anche il fratello, mons. Georg Ratzinger, direttore del coro delle piccole voci bianche della cattedrale di Ratisbona. La Chiesa ereditata da papa Francesco scricchiolava da tutte le parti. Durante gli otto anni del pontificato di Benedetto XVI, decine di migliaia di fedeli nel mondo occidentale le avevano voltato le spalle indignati e disgustati. Iniziando a devolvere le loro offerte, a intestare i loro testamenti e così via ai rappresentanti di altre Chiese giudicate più credibili, affidabili e coerenti con la dottrina cristiana. Il caso più significativo è rappresentato dall'Irlanda. In sette anni, dal 2005 al 2012, i cittadini di fede cattolica sono diminuiti considerevolmente, passando dal 69 al 47 per cento della popolazione. Nonostante le scuse pubbliche pronunciate nel 2010 da papa Benedetto XVI tramite la famosa Lettera pastorale agli irlandesi, la credibilità e la reputazione della Chiesa di Roma era ormai profondamente intaccata. E non solo agli occhi degli irlandesi che peraltro erano scioccati dalle conclusioni di due inchieste governative su oltre 30mila abusi accertati nelle parrocchie, negli oratori, nelle scuole lungo tutto l'arco del secondo Novecento.
Questo era in estrema sintesi lo scenario in cui Bergoglio cominciò a muovere i primi passi da pontefice. E come se nulla fosse, nonostante i Vatileaks, tra le sue prime dichiarazioni affermò di voler proseguire l'opera del suo predecessore nella battaglia contro il “male”. Questa idea di continuità non gli impedì di guadagnarsi in poco tempo l'appellativo di “rivoluzionario”. Ottenendo specie in Italia un'apertura di credito incondizionata anche da ambienti politici e del mondo dell'informazione tendenti a sinistra o quanto meno non dichiaratamente conservatori.
Ne consegue, quotidianamente, una esaltazione del personaggio Bergoglio che non tiene conto dell'inapplicabilità di una visione laica, che parta cioè dal rispetto dei diritti inalienabili della persona, a un'organizzazione come quella della Chiesa cattolica che per sua natura e cultura si oppone a questi stessi princìpi. Ci si chiede infatti come si può definire “rivoluzionario” un capo eletto da una ristretta casta di soli uomini e che detiene al tempo stesso il potere legislativo, esecutivo e giudiziario come un qualsiasi dittatore o un monarca del '700.
La pretesa che ogni ecclesiastico ha, dal pontefice in giù fino all'ultimo dei sacerdoti, di mostrarsi come guida morale della società si scontra con questo, oltre che con la storia poco edificante della religione che rappresenta. Una storia millenaria di intolleranze verso le altre religioni e di inaudite violenze psicofisiche soprattutto contro le donne e i bambini. Ma ai politici e ai giornalisti italiani è bastato sentir dire «fratelli e sorelle... buonasera» per annullare tutto. Come è potuto accadere? Oppure, al contrario, è vero che stiamo assistendo a una “rivoluzione”? Proveremo a orientarci e a rispondere a queste domande, indagando il pontificato di Bergoglio attraverso alcuni aspetti tipici del suo linguaggio e di quello delle sue gerarchie.
Ma la chiesa interviene a tutto campo
«Prima di qualsiasi analisi sulla comunicazione vaticana, bisogna aver chiari i principi che riguardano la natura dell'emittente» osserva Tommaso Dell'Era, filosofo della politica presso l'Università della Tuscia di Viterbo. «Alcuni, ricorrenti in qualsiasi tipo di messaggio, definiscono la natura della Santa Sede. Sia nella comunicazione di tipo burocratico-amministrativo, sia negli interventi di membri delle gerarchie o del pontefice che a sua volta può parlare come capo di Stato, leader spirituale o vescovo di Roma, rivolgendosi quindi di volta in volta a pubblici differenti, un punto rimane fermo ed è la pretesa del possesso della verità».
Questo è un elemento fondamentale che si ritrova in tutti i discorsi di carattere spirituale, religioso e spesso anche di carattere politico. Per intenderci, basti pensare all'ingerenza della Conferenza episcopale italiana nelle questioni di inizio e fine vita e agli innumerevoli interventi dei suoi rappresentanti contro l'aborto e il testamento biologico, oppure a sostegno del concetto antiscientifico secondo cui l'embrione sarebbe persona umana.
«A differenza di altre confessioni cristiane e di altre religioni monoteiste - prosegue Dell'Era - la Chiesa interviene a tutto campo per due motivi: primo, perché pretende di possedere il deposito della rivelazione, quindi della verità che dio ha dato agli uomini, e di avere il dovere di conservarlo. Dietro c'è anche la convinzione di avere il compito di evangelizzare. Che nella confessione cattolica è declinato in maniera molto più sistematica di altre religioni e altri tipi di confessioni. Secondo, perché la Chiesa cattolica, oltre a quella religiosa-spirituale e istituzionale, ha una sua dimensione politica specifica, cioè lo Stato Città del Vaticano, che si qualifica come ierocrazia (sistema politico basato sul potere della classe sacerdotale, ndr). Non è infatti irrilevante l'ambiguità di una struttura in cui il papa è allo stesso tempo leader religioso di circa un miliardo di persone, e capo di Stato di qualche centinaio di cittadini. Questo ci aiuta a capire perché la Santa Sede o anche il papa, in occasioni di carattere spirituale, come l'angelus della domenica o in alcune omelie a Santa Marta, interviene su questioni generali oppure più specifiche, per esempio di carattere politico che con la spiritualità hanno poco a che fare».
Un altro elemento essenziale è il principio gerarchico. «Compare ed emerge in varie forme. Ed è sempre presente nei messaggi che vengono inviati ai fedeli mediante l'invito a sottomettersi, a sottoporre cioè la propria vita morale alle regole stabilite dalla gerarchia cattolica». Ovviamente non si tratta di un messaggio esplicito e così diretto. «Il caso classico consiste nel ricorso a metafore che sono sicuramente di natura evangelica. Per cui i sacerdoti e in particolare i vescovi e le gerarchie, vengono equiparati ai pastori e i fedeli al gregge. L'esempio massimo è la figura del papa che è pastore della Chiesa universale».
Un ulteriore principio che ritroviamo a tutti i livelli è il culto della personalità del papa. «Il pontefice - sottolinea Dell'Era - è considerato il rappresentante di dio in terra, il vicario di Cristo in terra, e a lui ci si rivolge con una serie di epiteti tra cui Sua Santità. In questo modo lo si dichiara santo ancora prima della morte. Ponendolo su un livello irraggiungibile per qualunque persona normale. E da questo punto di vista Bergoglio ha attuato una strategia personale».
Vale a dire? «Avvicinandosi alla gente sin da subito ha compiuto alcuni gesti finalizzati a rendere la sua figura più accessibile» “Fratelli e sorelle... buonasera”, appunto. Sarebbe questa la rivoluzione? «Assolutamente no. Basta guardare oltre l'immagine superficiale di papa Francesco che si fa un selfie con qualche seguace per scoprire che non ha rinunciato nella maniera più assoluta né alle sue prerogative di potere né alla sacralizzazione della sua funzione e della sua persona. A partire dal giorno della sua elezione la propaganda che si scatena ogni volta che appare in pubblico è identica a quella che si è occupata dei suoi predecessori. Essendo finalizzata a creare un'immagine apologetica e una figura che contiene in sé un'eccezionalità anche quando il papa è una persona “normale”. Lo dico tra virgolette perché normale il papa, visto il potere che detiene, non lo è mai. Si tratta di un'eccezionalità che viene riferita alla dimensione soprannaturale». Il pontefice argentino punta molto più dei suoi predecessori sull'aspetto pastorale. Da un lato appare quindi meno preoccupato del rispetto delle regole e dei dogmi e dall'altro più attento alla cura che la Chiesa deve avere nei confronti delle persone.
La dimensione comunitaria
«Sempre però partendo dalla prospettiva di pastore-pecore, quindi di chi possiede la verità ed è in contatto con dio. Lui è un sacerdote e gestisce il sacro, cosa che i comuni fedeli non possono fare, nonostante il ruolo dei laici nella Chiesa cattolica». Insomma, da questo punto di vista sono lontani i tempi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. «Il cambiamento di marcia è evidente. Con Bergoglio - spiega Dell'Era - non si tratta più solo di presentare dei principi e di insistere sulla dottrina della fede come ha fatto per decenni Ratzinger quando era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede agli ordini di Woytjla. E nemmeno di combattere il comunismo e di riaffermare la posizione cattolica nei confronti della sessualità.
La strategia di papa Francesco, senza rinunciare a quei principi che con Ratzinger e Woytjla erano sempre in primo piano insieme ad alcune novità fondamentali nella comunicazione del papa polacco, consiste nell'andare incontro ai fedeli cercando di sottolineare l'aspetto della dimensione comunitaria, e di evidenziare le risposte che la Chiesa può dare ai problemi concreti e reali delle persone». Questa strategia fa il paio con le azioni di propaganda che servono a spostare l'attenzione dai problemi reali della Chiesa. «Ad esempio, il sinodo avrebbe dovuto parlare principalmente degli abusi del clero, vera questione al centro della crisi, e invece si è insistito molto, tra gli altri e a livello di comunicazione, sul tema dei divorziati-risposati. Sui giornali quasi non si è parlato d'altro. Si sposta l'attenzione su questi temi più “vicini” alle persone (e meno pericolosi per l'istituzione) anche a costo di perdere qualcosa dal punto di vista dottrinale per guadagnare fedeli». In questo contesto si inserisce la creazione da parte di papa Francesco della Segreteria per la comunicazione avvenuta con motu proprio del 27 giugno 2015.
Istituita all'interno del quadro normativo della Pastor bonus che era la legge fondamentale di riforma della curia romana emanata da Giovanni Paolo II - a ulteriore riprova che finora c'è poco di rivoluzionario nella prassi di Bergoglio - la Segreteria rappresenta il nodo di tutto ciò che all'interno della Santa Sede e del Vaticano riguarda la comunicazione. «Ha una funzione di coordinamento dei diversi strumenti di comunicazione (dall'Osservatore romano, alla Radio Vaticana, ai social media, nda) e la sua creazione è dettata dalla necessità di controllare al meglio e di uniformare l'informazione, la comunicazione e i messaggi istituzionali. L'obiettivo è evitare contraddizioni, confusioni, ambiguità e così via e restituire un'immagine il più possibile positiva dell'istituzione, definita come santa nel Credo. Tra le figure apicali della Segreteria Bergoglio ha introdotto dei laici e delle donne. Siamo lontani dall'assistere a una rivoluzione copernicana ma è comunque un interessante elemento di novità da segnalare».
Tutti gli devono obbedienza, perché...
Tutto questo ovviamente non risolve i problemi strutturali della Chiesa, tanto meno quelli della Curia romana. Pertanto capita che la propaganda messa in atto dalla Santa sede possa servire anche a preservare la figura del papa dalle critiche, sia all'interno che all'esterno della Chiesa. «Il pontefice va sempre difeso e la sua aurea d'intoccabilità o infallibilità sempre tutelata» spiega Dell'Era. «La comunicazione vaticana lo fa in una maniera spesso non esplicita ma lo si riconosce dal gioco delle parti che va in scena quando la situazione è a rischio. Sono i casi in cui il pontefice sfrutta la sua prerogativa di potere assoluto per scaricare sui suoi immediati sottoposti la responsabilità di una serie di azioni che spesso dipendono da sue decisioni o dal suo ruolo». Un esempio ci viene fornito dalla comunicazione relativa agli abusi sui minori.
«A Francesco è stato attribuito sin dai primi giorni del suo pontificato il ruolo di personaggio che comunque cerca di cambiare la Chiesa. Quindi se qualcosa non funziona è perché c'è chi all'interno dell'istituzione e anche del suo entourage vuole bloccare e sabotare la sua azione riparatrice». È questa la tesi che va per la maggiore sui media italiani. «Una tesi che “dimentica” che le direttive spettano in primis a Bergoglio. Certo lui non governa tutto il mondo della Chiesa in prima persona, tuttavia è primo responsabile di quel che accade o non accade. Non è neanche questo personaggio indifeso e ingenuo attorno a cui si svolge tutta una serie di macchinazioni da parte di cospiratori malvagi». Molti sono collaboratori scelti da lui, a cominciare dal super ministro dell'economia, il cardinale Pell, nei guai in Australia per la pedofilia. Ad altri, come mons. Vallejo Balda nel caso Vatileaks II, dopo averli condannati per aver tradito la sua fiducia ha concesso la grazia.
Dopo l'analisi della natura della Santa Sede passiamo a osservare le specificità della struttura.
«La Santa Sede - ribadisce Dell'Era - è una monarchia assoluta governata da una casta maschile celibe di circa 200 cardinali. Il papa detiene il potere assoluto nella Chiesa cattolica e nella dimensione politica riassume i tre poteri nella sua persona esercitati generalmente tramite delega (legislativo, esecutivo e giudiziario).
Tutti gli devono obbedienza attraverso le vie gerarchiche. Il pontefice è colui che insieme a quella casta decide le regole morali a cui si devono attenere loro stessi, il clero e soprattutto l'enorme numero di fedeli nel mondo. La prima conseguenza di una struttura organizzata in questo modo è la mancanza di trasparenza che nell'informazione e nell'attività giudiziaria della Santa Sede raggiunge i livelli più elevati. Perché a monte c'è l'idea che il papa, cioè la Chiesa cattolica, non deve giustificarsi con nessuno di ciò che fa e dice. Delle proprie azioni e decisioni il pontefice risponde solo a Dio e a se stesso al di là della coerenza con le cosiddette sacre scritture, la tradizione e il magistero della Chiesa su cui bisognerebbe dire molto altro». Di nuovo usiamo come esempio la Lettera pastorale di Benedetto XVI ai cattolici dell'Irlanda (19 marzo 2010).
Il segreto e l'assenza di trasparenza
Annunciata a dicembre del 2009, questa Lettera doveva servire a “riparare” mezzo secolo di violenze rilevate da due inchieste governative - denominate Rapporto Ryan e Rapporto Murphy - concluse tra maggio e novembre dello stesso anno. In particolare, il cosiddetto Rapporto Ryan aveva esaminato gli abusi avvenuti in tutta l'Irlanda nelle istituzioni gestite dalla Chiesa cattolica (scuole, seminari e così via), mentre il Rapporto Murphy si era occupato delle violenze all'interno della diocesi di Dublino. In totale, si tratta di cinque volumi e oltre 2.500 pagine che documentano le azioni criminali di più di mille sacerdoti compiute nei confronti di circa 30.000 bambini per oltre 50 anni dal 1945 in poi. Giova ricordare che stiamo parlando di un Paese la cui popolazione sfiora oggi i 4,5 mln di abitanti.
La commissione guidata dal giudice Yvonne Murphy scrive nel Rapporto che, quando gli abusi sono venuti alla luce, la Chiesa ha dichiarato di non averli affrontati con la giusta determinazione perché «non aveva ancora compreso l'entità del problema». Una giustificazione ritenuta infondata dalla Murphy. Alle autorità ecclesiastiche interessava soprattutto «mantenere il segreto, evitare gli scandali, proteggere la reputazione della Chiesa e conservare intatto il suo patrimonio. Tutte le altre considerazioni, compreso il benessere fisico e psicologico dei ragazzi e la giustizia per le vittime, erano subordinate a queste priorità».
A ulteriore prova di quanto affermato fino a ora c'è una lettera “strettamente confidenziale” datata 31 gennaio 1997, venuta alla luce nel 2011 nell'ambito di una nuova indagine governativa su fatti di pedofilia accaduti nella diocesi irlandese di Cloyne tra il 1996 e il 2009. Nella missiva il nunzio apostolico a Dublino, cioè l'ambasciatore della Santa Sede cardinale Luciano Storero, avvertiva i vescovi irlandesi che il Vaticano ha «forti riserve» sulla segnalazione obbligatoria alla polizia dei casi di abusi sessuali commessi da esponenti del clero. E ancora, il 20 luglio 2011, addirittura il premier irlandese, Enda Kenny, affermò in un drammatico discorso in Parlamento davanti alla Camera Bassa, dopo la conclusione dell'indagine governativa: «Il rapporto della commissione Cloyne ha evidenziato il tentativo della Santa Sede di bloccare un'inchiesta in uno Stato sovrano, non più tardi di tre anni fa, non trent'anni fa». Per poi aggiungere: «Il Rapporto Cloyne fa emergere la disfunzione, la disconnessione e l'élitarismo che dominano la cultura del Vaticano.
Lo stupro e la tortura di bambini sono stati minimizzati per sostenere, invece, il primato delle istituzioni, il suo potere e la sua reputazione». Quanto descritto fin qui è accaduto durante il pontificato di Benedetto XVI. Con papa Francesco nulla è cambiato.
«Il segreto e l'assenza di trasparenza - sottolinea Dell'Era - sono presenti anche in questioni che non rientrano in quella particolare categoria di situazioni che normalmente i governi definiscono segreti di Stato». Un caso tipico è il segreto pontificio che vincola l'istruttoria, i processi penali agli ecclesiastici accusati di abusi e le relative sentenze emanate dalla Congregazione per la dottrina della fede.
Ma la segretezza della Santa Sede - che porta con sé l'idea di superiorità della legge divina su quella terrena che è ben radicata nella mentalità cattolica non solo a livello istituzionale - è stata toccata con mano fin anche dalle Nazioni Unite. Precisamente nel 2014, quando gli ambasciatori di papa Francesco presso le Nazioni Unite hanno opposto un netto rifiuto a due diversi Comitati Onu (per i Diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, e Contro la tortura) che chiedevano la lista con i nomi dei circa 900 sacerdoti pedofili ridotti allo stato laicale nel decennio precedente dopo essere stati condannati dalla Congregazione per la dottrina della fede, ed espulsi dalla Chiesa.
La Rai, genuflessa e complice
E qui arriviamo ad un altro fattore chiave: la tutela del clero.
«Nonostante quello che vuol far credere Bergoglio, anche la “sua” Chiesa è attraversata, intrisa, imbevuta di clericalismo. Il primo referente della comunicazione vaticana è il clero e l'obiettivo è quello di sostenerne l'immagine e il buon nome». Di qui passiamo a un altro elemento cardine che è la mentalità clericale. «Purtroppo - osserva Dell'Era - questa mentalità è penetrata profondamente anche nella comunicazione di tipo laico in Italia. Come ricordano gli studiosi, dato che per quattro secoli in età moderna e contemporanea i papi sono stati quasi tutti italiani, il nostro Paese è divenuto una terra “privilegiata” di destinazione del messaggio e di formazione della coscienza collettiva. Oggi abbiamo i principali quotidiani che quando scrivono del papa usano l'epiteto “sua santità” o analoghi, accettando acriticamente la dimensione clericale che è insita in questa terminologia».
In Italia quasi non esiste informazione sulle cose di Chiesa indipendente dalla Chiesa stessa. Tutte le notizie principali (politica, economia, finanza e scandali) che passano attraverso media e stampa generalisti sono infatti veicolate dai “vaticanisti”, giornalisti cioè accreditati e formati presso la Sala Stampa vaticana. Nonostante le chiese vuote e dismesse, il calo inesorabile dei battesimi e dei matrimoni concordatari, l'aumento dei divorzi e delle convivenze, gli esoneri crescenti dall'ora di insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica, la pesante ingerenza della Santa sede e della Conferenza episcopale nella vita socio-politica rimane costante. E qualunque cosa dica (o abbia fatto in passato nel suo Paese) papa Francesco ci viene proposto in maniera acritica e senza alcun contraddittorio. Complice la politica genuflessa ma complice anche la Rai, in primis, che svilisce il ruolo di servizio pubblico di uno Stato laico ingolfando di fiction su papi e preti e di papi e preti i suoi programmi di intrattenimento e informazione. E complici i media generalisti che tranne rari casi (il Corsera ad esempio, riguardo l'affaire Ior) raccontano in maniera del tutto parziale, cioè solo dal punto di vista della Chiesa, le situazioni di criticità che riguardano tutto ciò che accade all'interno e in “prossimità” delle mura leonine. E poi ci sono i giubilei e le beatificazioni. Veri e propri strumenti di auto promozione a spese del contribuente italiano che oramai vengono utilizzati con scadenze sempre più ravvicinate.
«Non va dimenticato che oltretevere la mentalità clericale trova una delle sue massime espressioni nella confusione tra peccato e reato riguardo la vicenda degli abusi sui minori», osserva Dell'Era in conclusione. E anche qui il giornalismo italiano si lascia raramente sfuggire l'occasione di dimostrare quanto ne sia intriso. L'ultimo in ordine di tempo è Emiliano Fittipaldi con il suo libro “Lussuria” uscito di recente per Feltrinelli e considerato un atto d'accusa verso l'inefficacia della battaglia di Bergoglio contro la pedofilia clericale. Il concetto di “abuso” è il nodo centrale di questo fenomeno. Prima che una violenza efferata contro una persona «l'atto sessuale di un chierico con un minore» è ritenuto un'offesa a Dio. Se accade nell'ambito della confessione, è un'offesa al Sacramento.
Nonostante tante chiacchiere, la pedofilia è...
L'abuso in sostanza è un “atto impuro” (VI Comandamento), cioè un peccato. Seppur annoverato tra i delitti più gravi, secondo la visione degli appartenenti al clero si tratta di un crimine contro la morale. “Abuso morale” lo ha definito Benedetto XVI nel 2013 e di recente anche papa Francesco nella premessa all'autobiografia di una vittima di sacerdote pedofilo.
Una visione con cui il libro-inchiesta di Fittipaldi sembra essere in sintonia inducendo sin dal titolo a confondere peccato e reato in un pericoloso equivoco, osserva Cecilia M. Calamani, direttrice del magazine online Cronache Laiche: «Se da una parte le accuse alla Chiesa del giornalista sono durissime e senza possibilità di replica (basti pensare ai curricula di insabbiatori di abusi dei tre più fidi uomini di Bergoglio, i cardinali Pell, Maradiaga ed Errázuriz, o alle accuse, sempre rivolte a papa Francesco, di tradire nei fatti la tolleranza zero che declama a parole), dall'altra quel filo ambiguo che si evince dal titolo permane in tutto il libro, a suggerire una confusione tra peccato e reato che può trarre in inganno, in alcuni tratti, il lettore meno accorto. Il problema, sembra banale rimarcarlo, non è morale ma penale. Eppure nel testo varie ambiguità inquinano il messaggio e ribaltano la prospettiva criminale nella quale si colloca dando l'idea che la pedofilia sia un problema interno alla Chiesa perché insito nel tradimento dei suoi valori.
Torniamo, cioè, all'infrazione del VI comandamento, che pericolosamente accomuna pedofili, omosessuali e preti che nonostante il voto di castità non vogliono rinunciare ai piaceri della carne». Passaggi come «condannato a più di quattro anni da un pm italiano che ha individuato più di un centinaio di peccati capitali» o «gli investigatori stanno indagando su una sessantina di possibili atti di lussuria» o ancora definire «preti lussuriosi» pedofili o frequentatori di saune gay o ricattatori a sfondo sessuale, nota Calamani, «sono licenze che confondono il lettore portandolo a inserire nella stessa categoria etica stupratori di bambini, libertini o comuni delinquenti. Ma soprattutto, rendono labile quel confine, ben netto invece, tra codice penale e regole religiose». La Chiesa ha la sua ideologia e non è né un'istituzione laica né, come abbiamo visto, un'istituzione che fa della trasparenza dell'informazione uno dei suoi capisaldi, ma chi ne è fuori e lavora con le parole dovrebbe più di altri usare un linguaggio coerente con la realtà nella sua interezza.
E la realtà dice senza appello che la pedofilia non è un'offesa alla castità, non è un delitto contro la morale, non è il Male. Non è lussuria. L'abuso non è un rapporto sessuale tra due persone che si lasciano andare ma è pura violenza agita da un adulto nei confronti di un bambino “scelto” lucidamente dal suo violentatore. Il pedofilo non prova alcun desiderio, è totalmente anaffettivo. La vittima, in quanto in età prepuberale, non ha e non può mai avere né sessualità, né desiderio.
Pertanto, come afferma lo psichiatra Massimo Fagioli, «la pedofilia è l'annullamento della realtà umana del bambino».
Federico Tulli
A Rivista anarchica
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