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SE LA RETORICA E' MOLTO FORTE NON SI PUO' RIMANERE BUONISTI

Post n°301 pubblicato il 18 Luglio 2019 da aliasnove

Parole chirurgiche come un sasso lanciato da una fionda. Questo deve fare oggi un intellettuale. Ai nostri giorni, in questi anni di passioni tristi e di «idee senza parole», in cui si torna a mettere le maiuscole a termini che erano diventati un tempo lettera morta – Onore, Patria, Famiglia, ma anche Confini, Degrado, Legalità, Sicurezza e chissà quant’altro ancora – uno scrittore come Andrea Camilleri riesce a farci vedere che la miseria non è una colpa e che dietro alla miseria ci sono dispositivi economici e di potere che la producono.

E che quei dispositivi si possono esporre, mettere a nudo, anche parodiare grazie alla lingua letteraria. Come ha fatto magistralmente ne La presa di Macallé, un’opera sull’Italietta del fascismo in cui Camilleri fa una parodia della rigidità del fascismo e sommerge l’immaginario provinciale del ventennio con un’alluvione linguistica fatta di umorismo corporeo, scatologico, barocco ed esorbitante.

NELLA REALTÀ, fuori dal libro, sta avvenendo forse l’effetto contrario. Siamo oggi sommersi da idee senza parole che tracimano dai media e invadono i nostri ambiti discorsivi. Parole che soffocano ogni possibilità di empatia e solidarietà, parole di stomaci ulcerosi e incattiviti, di individui esasperati, atomizzati, impauriti, pronti a rovesciare rabbia contro i più deboli. Contro quest’Italia del rancore, Camilleri aveva ultimamente preso la parola, usando la forza delle sue parole di scrittore e intellettuale, parole dure come macigni, colme d’indignazione per quel che il paese sta diventando.

Aveva attaccato le politiche razziste del governo. Aveva detto «non in mio nome» contro gli sgomberi dei migranti, contro i rigurgiti neofascisti e le politiche persecutorie nei confronti degli oppressi.
Non erano affatto le parole di un buonista, come le retoriche tossiche dei nostri giorni descrivono chi si rifiuta di arruolarsi tra i carnefici. Uno che scrive gialli pieni di cadaveri come può essere un buonista?

DAI SOCIAL era partita la gogna. «Scrivi che ti passa». «Pensa a Montalbano». «Ti stimo come scrittore, ma quando parli di politica…» etc etc. Gli odiatori di professione non si rendono conto che è proprio quando scrive, quando fa il suo lavoro di scrittore, che Camilleri aggredisce quelle retoriche tossiche.

Eppure il suo messaggio ultimo più forte viene dalla lingua parlata, a cui nei tempi più recenti era costretto a ricorrere a causa della cecità.
«I porti devono essere aperti a tutti. I porti sono la riva sognata. Non in nome mio. Io mi rifiuto di essere un cittadino italiano complice di questa nazista volgarità».

LA SUA ULTIMA OPERA è stata una chiamata in complicità nella forma dell’invettiva orale. Se la legge è quella di Salvini, se è la legge del Sicurezza bis, allora Camilleri va oltre la legge, ai margini dei codici, dove sono state spinte ormai la giustizia sociale, la solidarietà, la compassione e l’empatia verso i viventi.

Se la legge è fatta di parole morte, la vita si sposta altrove. Nelle parole di uno scrittore che come Tiresia con lo sguardo interiore ci vede benissimo, e svela gli orrori della legge e del potere, e segna il campo del discorso pubblico con una linea che divide. Di qua stanno gli oppressi, di là gli oppressori. Di qua i sommersi e di là gli aguzzini, di qua le vittime e di là i carnefici e i loro complici. Io non voglio essere complice di questo scempio, ci dice Camilleri.

Altro che buonismo: le parole di un intellettuale devono dividere. Se respingi gli oppressi, se ridi delle vittime, allora hai le mani sporche di sangue, hai la bile che gronda fiele e sei complice di uno scempio nazista. Quelle parole dividono il campo. È arrivato il tempo di decidere da che parte stare.

Alberto Prunetti il manifesto

 
 
 
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