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IL LAVORO

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LA STRUMENTALITA' DELLA FORTEZZA EUROPA

Post n°361 pubblicato il 20 Novembre 2021 da aliasnove

Il piccolo dittatore Lukashenko, tirapiedi di Putin, e il torvo e potente Erdogan ricattano i propri cittadini in nome della sicurezza, della patria o dei valori religiosi tradizionali. Ma anche le pseudo-democrazie autoritarie apprezzano e usano l’arma del ricatto. È il caso di Polonia e Ungheria, troppo deboli per imporre una prospettiva strategica all’Europa, ma abbastanza forti per condizionare le scelte politiche ed economiche dell’Ue. Oggi, lo strumento del ricatto è costituito da poche migliaia di profughi – afghani, iracheni ecc. – ammassati nella no man’s land tra Bielorussia, Polonia e Lituania.

Lukashenko ha spinto i profughi alla frontiera polacca perché vuole che l’Ue ritiri le sanzioni contro la Bielorussia, proprio come anni fa Erdogan ha chiesto e ottenuto una montagna di quattrini per non lasciare che i profughi siriani sciamassero in Grecia. D’altra parte, Varsavia urla all’invasione per impedire che l’Ue, da sempre paranoica sui migranti, blocchi il Pnrr e punisca l’erosione delle libertà civili in Polonia. Persino Draghi, cautissimo in queste faccende, ha dichiarato che i «migranti sono diventati strumenti di politica estera».

Ma che vuol dire «strumenti»? Semplicemente, che poche migliaia di esseri umani, privi di cibo, vestiti e riparo nel gelo dell’inverno incipiente sono sballottati tra due frontiere, con i mitra bielorussi alle spalle e i tank polacchi al di là del filo spinato. Il presidente polacco Duda ha avuto la faccia tosta di dire che la Polonia è «sotto attacco» da parte dei migranti. Uomini disarmati, donne e bambini sarebbero in grado di attaccare la Polonia? La retorica della patria in pericolo è così sfacciata – appunto, ricattatoria – che dovrebbe ripugnare a chiunque in grado di ragionare con la propria testa.

Ma non è così. Le risposte di Von der Leyen e Angela Merkel – i poteri europei che contano – sono in linea con lo stile bottegaio prevalente dell’Ue. Alla Polonia sono offerti un po’ di quattrini per gestire la questione alla frontiera, cioè per costruire un bel muro, anche se ufficialmente non autorizzato da Bruxelles. Alla Bielorussia si finanzia il rimpatrio dei profughi nei paesi d’origine, anche se a parole si mantengono le sanzioni (ma nei fatti con cautela e magari no…).

Ora, nello scenario di desolazione causato dalla pandemia e dalle conseguenze delle guerre fallite dall’occidente (Afghanistan, Iraq, Siria, Libia ecc.), la sorte di poche migliaia di profughi, che reagiscono con il lancio di qualche pietra ai cannoni ad acqua polacchi, sembrerà a molti poca cosa. E può anche essere che la crisi lentamente, e soprattutto silenziosamente, rientri. Ma si tratta di un esempio orribile, esattamente come gli annegamenti nel canale di Sicilia o la gente lasciata da Salvini a disidratarsi per giorni e giorni sotto il sole estivo a bordo delle navi delle Ong. Un esempio che si ripete ogni volta che, in gruppi piccoli o grandi, profughi e migranti si presentano nel nostro mondo, impaurito dalle piaghe cosmiche, dall’ansia diffusa per il futuro, da una crisi economica sempre alle porte e da rivolte insensate.

Ecco una circolarità di cause ed effetti del tutto evidente, anche se minimizzata dagli esperti di relazioni internazionali. Dove potevano scappare gli afghani scampati alla conquista talebana se non nei paesi che volevano imporre loro la democrazia all’occidentale? E dove potevano o potrebbero tentare di rifugiarsi iracheni, curdi, siriani, dopo essere stati illusi per trent’anni che con la fine delle dittature baathiste libertà e prosperità sarebbero state a portata di mano? Le immagini della catastrofica fuga da Kabul di americani e alleati vari avrebbero dovuto allertare l’immaginazione e le coscienze. L’evacuazione dei collaboratori stretti degli occupanti e di chiunque voleva sottrarsi ai talebani si sarebbe lasciata alle spalle un Paese lacerato, affamato e oppresso dal fanatismo, su cui oggi è calato il silenzio.

Ma parliamo di migliaia o decine di migliaia di esseri umani in fuga, non di milioni. L’Europa avrebbe tutte le risorse per accoglierli, assisterli e integrarli. Se questo non avviene non è solo per la paura della destra xenofoba che soffoca le cancellerie europee. E nemmeno per la reazione di parte della popolazione a un’eventuale presenza di stranieri. È soprattutto per l’incapacità ormai storica di pensare il proprio ruolo in un mondo sempre più piccolo e integrato. E di rispondere alle crisi umanitarie e alla sofferenza se non con piccoli baratti, compromessi e accordi con i dittatori che, loro sì, premono e ricattano alle frontiere marine e terrestri. In questo senso, Merkel, chiusa nella fortezza Ue, non è meno responsabile di Lukascenko o Erdogan. In fondo, parafrasando Metternich, l’Europa non è oggi che un’espressione fiscale e commerciale. Alessandro Dal Lago il manifesto

 
 
 
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