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Per chi è un innamorato di jazz, come me.

Post n°4328 pubblicato il 17 Agosto 2019 da g1b9
 

 

 



Nessuno ci dirà mai se Miles, scegliendo quei sei valorosi (Julian "Cannonball" Adderley e John Coltrane al sax, Bill Evans e Wynton Kelly al piano, Paul Chambers al contrabbasso e Jimmy Cobb alla batteria), fosse consapevole della grandezza del suo "gesto" e dell'impatto che Kind of Blue avrebbe avuto sulla storia del jazz - e non solo. Dalla data di pubblicazione, il 17 agosto 1959, di questo disco non si è più smesso di parlare. Ci hanno scritto volumi, imbastito teorie, tenuto seminari. Non solo è l'album più venduto della storia del jazz, ma ha le risorse per rimodellarsi intorno allo spirito di generazioni diverse, di accomodare nuovi modi di sentire e di vivere - dunque più sottile, insinuante e longevo della più morbosa canzone pop del secolo scorso. Intorno a Kind of blue tutto è leggenda, dalla formazione ai titoli dei brani, dalla foto di copertina alle note di Bill Evans (originariamente stampate sul retro del microsolco) in cui l'autore paragona quel sound a un dipinto Zen - semplice e profondissimo.

In un'intervista del 1958 con Nat Hentoff, pubblicata da The Jazz Review, Davis già indicava nel suo approccio al jazz modale (in sintesi, la progressione degli accordi svincolata dalla tonalità del brano) una reazione alle ferree regole del bebop: "Niente accordi... così hai molta più libertà e disponibilità di ascoltare, puoi andare avanti all'infinito. Non devi preoccuparti dei cambiamenti e puoi sfruttare meglio la linea melodica. È diventata una sfida scoprire quanto questo sistema sia melodicamente innovativo. Quando sei legato agli accordi, sai che alla fine delle 32 battute non ti resta che ripetere quel che hai già fatto - con delle variazioni. Credo che il jazz stia andando in un'altra direzione... pochi accordi ma infinite possibilità di combinarli".

È chiaro che per attuare il suo piano aveva bisogno di un manipolo di valorosi, in testa il genio di Coltrane a un passo dai capolavori Giant Steps e My Favorite Things e già in piena trascendenza, in corsa verso A Love Supreme (1964). "È difficile per me credere che Kind of Blue sia l'album più famoso della storia del jazz. All'epoca nessuno di noi avrebbe neanche lontanamente immaginato che sarebbe diventato un album leggendario", dice il batterista Jimmy Cobb, l'unico di quegli audaci a essere rimasto in vita.

Racconta che il 2 marzo di quell'anno entrarono nello studio della 30esima Strada di New York da jazzisti liberi e ne uscirono unti da Miles e iscritti nell'albo d'oro. "Kind of Blue continua a esercitare un fascino incredibile anche sul pubblico abitualmente più in sintonia con il rock e il rap, e questo grazie al personaggio Miles. Cool, elegante, ispirato, poco incline ai compromessi nell'arte come nella vita, Davis era, ed è ancora, un eroe del jazz, sia per gli afroamericani sia per la più vasta platea internazionale. Kind of Blue è una sacra reliquia nella chiesa del jazz", scrive Ashley Kahn, giornalista e storico della musica in Kind of Blue - Miles Davis and the Making of a Masterpiece. E Eric Nisenson, scrittore e storico del jazz morto nel 2003, nell'autorevole The Making of Kind of Blue - Miles Davis and His Masterpiece: "Avevo quindici anni quando lo scoprii - amore al primo ascolto, fino all'ossessione. Quella musica mi ha seguito ovunque, ha cantato nei meandri più nascosti della mia mente. Riuscivo a sopportare le interminabili e noiosissime lezioni di matematica solo richiamando alla mente l'insuperabile assolo di Miles in Freddie Freeloader. Quello di John Coltrane in Blue and Green mi ha perseguitato in ogni istante, durante le lezioni di biologia e quando portavo fuori il cane. Non era solo la bellezza della musica a commuovermi ma l'atmosfera cupa e malinconica dell'album, esaltata da una sorta di triste ironia - o di una fresca gioia - che sembra l'illustrazione di uno slogan abbinato ai vecchi blues, "Rido per non piangere".

Episodiche e stringate indicazioni ai musicisti, poche ore prima della session, alcune volte anche direttamente in studio, poi Miles lasciava che la musica, con il contributo di ognuno, fluisse libera: tutti con la stessa vocazione, tutti dentro lo stesso sogno, tutti appesi alla stessa nota ma liberi di volare.


 Stralcio dell'articolo di Giuseppe Videtti_ la Repubblica

 

 
 
 
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