Se ascolto l’ironia rannicchiata in fondo alle cose, essa si scopre lentamente. Strizzando un occhio piccolo e chiaro, dice: “Vivete come se...”
Nonostante le molte ricerche, tutta la mia scienza è qui.
Camus, Il rovescio e il diritto
Messaggi di Febbraio 2007
In questo periodo sto cercando una borsa di studio o un corso post- dottorato. In Italia vengono emessi pochissimi bandi, in genere con criteri di selezione molto stretti (immagino per essere sicuri che il posto venga assegnato esattamente a chi si è già deciso lo debba avere, senza rischio che possa concorrere qualcun altro). Invece le università inglesi e americane offrono dei bandi seri, dove c’è qualche possibilità di avere successo, lo stipendio proposto è decente, e la possibilità di migliorare il proprio curriculum è concreta. Quindi mi sono iscritta a un paio di motori di ricerca che periodicamente mi aggiornano sui bandi usciti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Sfogliando le offerte potenzialmente interessanti, ho notato che, tra le varie schede da compilare, ce n’è sempre una sull’ etnicità di chi fa domanda. (A volte è usato addirittura il termine race, razza, che mi fa sempre saltare sulla sedia con la sua evocazione di fantasmi ariani). In genere questo tipo di informazioni serve a fini statistici; altre volte ci sono proprio dei posti riservati alle “minoranze”.
Nell’ultimo bando che ho letto, proveniente da Cambridge, si chiedeva di selezionare la propria razza in una lista prestampata. Tra le possibilità di scelta: - bianca - inglese - bianca - irlandese (ma che differenza c’è? non mi pare che al livello etnico ci sia il cielo e la terra tra inglesi e irlandesi) - bianca - altra (che teoricamente sarebbe la mia) - nera – caraibica - nera – africana (se uno è di pelle nera e la sua famiglia vive negli USA da tre secoli come fa a sapere se i suoi antenati venivano da Caraibi o Africa?) - asiatica – angloindiana - asiatica- anglopakistana (insomma, da quale parte del Grande Impero Britannico provieni, mi sembra giusto) - mista- bianca e caraibica -mista- bianca e africana (a questo punto non dovresti specificare anche di che punto di bianco sei?)
Quando ho letto questa scheda, mi è venuta una gran voglia di spacciarmi per nera-caraibica, mantenendo la mia reale residenza in un paese sperduto del sud Italia. Così, giusto per vedere che succede.
Il bando più incredibile però è stato un altro, proveniente da non so più quale ateneo statunitense. Alla consueta richiesta di specificare la propria razza, seguiva la seguente motivazione: Alcuni posti saranno riservati a donne e minoranze etniche.
A quel punto mi sono chiesta: cosa succederà se sei donna e di una minoranza etnica? superi automaticamente la selezione? Ti raddoppiano lo stipendio? Quanto ho rimpianto di essere solo donna, e non anche discendente di qualche pastore armeno: quel posto sarebbe stato mio. |
Sulle pubblicità di assorbenti si potrebbe scrivere un trattato: da quando ho memoria, ricordo spot di donne che si lanciano con il paracadute, fanno sport estremo e molte altre cose strane, pianificando accuratamente i loro impegni perché la giornata del bungee jumping coincida con il primo giorno delle mestruazioni. Non mi soffermo sulla fenomenologia generale degli spot di assorbenti, se non altro perché è un argomento trattato spesso da Luciana Littizzetto, con risultati ineguagliabili. Ormai non me la prendo neanche più, perché in fondo questi spot inverosimili mi fanno tenerezza. Solo chi non sa che cosa si provi ad avere un ciclo mestruale può immaginare che un pezzetto di ovatta compressa risolva tutte le grane connesse ai meccanismi biologici femminili, tipo fitte lancinanti, gonfiori, e impasticcamenti da antidoping. Solo un pubblicitario sprovveduto e senza figlie femmine può figurarsi uno scenario di donne convertite in atlete da un assorbente con le ali.
Però lo spot che gira in tv in questi giorni mi fa veramente andare fuori dalla grazia di Dio. La scena è questa: una ragazza si muove con fare nervoso nella libreria dove lavora. Una voce fuori campo le legge nel pensiero: “Accidenti come sono nervosa, sarà perché mi devono arrivare...” Non esiste frase più orrida. Che la sindrome premestruale esista o no, io MI RIFIUTO di credere che una donna sana di mente faccia questo tipo di considerazioni: solo un uomo può pensare che un essere di sesso femminile con una vita normale leghi così automaticamente la sua tensione alle mestruazioni. Mestruazioni che peraltro nello spot non vengono nemmeno nominate, preferendo usare una pudica terza persona plurale (come pure nella vaga espressione “in quei giorni”: quali giorni? quelli di riapertura della caccia? del condono fiscale?). A questo punto mi viene da pensare che quelli che devono arrivare siano i suoceri: questo giustificherebbe di più il nervosismo della ragazza.
La connessione causa - effetto “sono nervosa- sarà perché...” è un terreno fragile e minato. Io avrei trovato più credibile una frase tipo: “Sono nervosa, sarà perché mi devono arrivare le bollette, la rata della macchina e il mutuo, tutti insieme?”. Oppure, se proprio vogliamo restare nella sfera fisiologica: “Sono nervosa, sarà perché non mi sono ancora arrivate queste benedette mestruazioni e se sono incinta il libraio mi licenzia alla faccia delle leggi sulla tutela della maternità?”
Ma, soprattutto, i pubblicitari del XXI secolo non hanno ancora capito che il ciclo mestruale non è un’Apocalisse mensile. Non è ancora loro chiaro che in genere le donne sono abituate alle mestruazioni, e continuano a fare esattamente la vita di tutti i giorni. Lavorano, cucinano, studiano: magari non si fanno 15 km di corsa e prendono un antidolorifico la mattina, ma niente di più.
Per questo lo spot più geniale sugli assorbenti, che andava in onda qualche anno fa, secondo me è stato ideato da una donna: trenta secondi in cui una ragazza dorme tranquilla e comoda. Ovviamente questo spot ha avuto poco successo, perché i soliti pubblicitari uomini - che, beati loro, non passano “quelle notti” a rigirarsi nel letto - non hanno capito che dodici ore di sonno tranquillo e pulito al primo giorno di ciclo sono l’ambizione di tutte noi: altro che paracadute.
- continua - |
Su Repubblica di oggi ho letto un meraviglioso articolo di Vittorio Zucconi (che purtroppo non è online), in cui si racconta una storia beffarda che mi ha molto divertito. La faccenda comincia nel 1692, quando nel paesino di Salem (Massachussets), in pieno delirio religioso, tre donne vengono accusate di stregoneria. Nel corso del processo vengono consultati anche gli eruditi della neonata - ma già influente – università di Harvard: i sommi sapienti decidono che quelle donne sono effettivamente in contatto con il Maligno, e si dichiarono favorevoli a metterle al rogo. Diventano le famose Streghe di Salem, simbolo di un’intera epoca di persecuzione e oscurantismo. Intanto Harvard cresce, diventando una delle più importanti università del mondo: resta una roccaforte maschile, con il più basso numero di professoresse e dirigenti donne fra gli atenei americani. Fino a quando, pochi giorni fa, viene nominato il nuovo rettore. Una donna, brillante storica – e neanche laureata ad Harvard- . Cede uno degli avamposti del maschilismo intellettuale americano, che sorge proprio nel luogo dei famosi fatti di Salem.
La sola elezione di questa donna basterebbe a vendicare, finalmente, la memoria delle povere streghe di Salem, penserete voi. E invece no, il bello viene ora: sapete come si chiama la donna che è ora a capo di Harvard, nel luogo in cui tre donne furono accusate di avere rapporti con il diavolo? Drew G. FAUST. Ebbene sì, si chiama come il famoso personaggio che vende l'anima al diavolo in cambio della conoscenza. Poi parlano di coincidenze...
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Un giovedì sera qualunque. Su Rai 1 si succedono due pubblicità rivolte alle donne: una reclamizza un balsamo, l’altra una marca di assorbenti. Nella prima pubblicità, un gruppetto di amiche sedute ad un tavolino di un locale ridono parlando dei rispettivi weekend. Una di loro racconta fiera di aver passato il fine settimana a cotonarsi i capelli: un flashback la mostra gattonare sul letto ruggendo, presumibilmente rivolta al suo signore e padrone per il quale ha preparato quest’ ambientazione jungle. Le amiche commentano entusiaste: “Tu si che sai come tenerti un uomo!”. Segue magnificazione del balsamo pubblicizzato, che permette di ridare forma umana ai capelli contonati della malcapitata – tra l’altro non è neanche vero, io ho provato quella marca sui miei capelli ricci e vi assicuro che sono restati lo stesso groviglio di prima -.
Uno spot del genere non può averlo ideato che un uomo. Vi risparmio tutti i commenti veterofemministi che mi sono venuti in mente vedendo questa pubblicità di celebrazione delle donne come giocattolo sessuale. Mi limito ad alcune osservazioni, strettamente attinenti lo spot stesso, che suffragano la mia teoria. Anzitutto, l’ambientazione pseudo Sex and the city: non basta piazzare quattro donne che ridono intorno ad un tavolino per ricreare l’atmosfera del telefilm più amato dlale donne e meno capito dagli uomini. Ogni donna che ne abbia visto una sola puntata sa che le quattro protagoniste che si ritrovano al bar a parlare –anche- della loro vita sessuale non ci pensano minimamente ad assecondare gli uomini nelle loro fantasie. Semmai impongono le loro. Poi, nello spot è presente anche la stupidità tutta maschile di immaginare una donna adulta – che presumibilmente lavora – che passa il weekend a fare giochetti erotico-esotici. Se una lavora tutta la settimana, in quel paio di giorni liberi deve quantomeno mettere un milione di lavatrici, fare lo spesone settimanale e pulire casa. Certo, si pensa anche alla vita privata, ma direi che farsi due coccole a letto e alzarsi con comodo per fare colazione insieme sia tutto quello che agogna una persona distrutta dal lavoro di una settimana. Infine, ultimo indizio che dimostra che lo spot è stato pensato da un uomo, e pure anzianotto: ogni donna sa che la cotonatura dei capelli è passata di moda vent’anni fa.
- Continua- |
Ieri sera, dopo aver cercato invano Il diavolo veste Prada – introvabile in tutti i videonoleggio di Napoli-, ho ripiegato su I sublimi segreti delle Ya-ya sisters (titolo originale: The Divine Secrets of the Ya-ya sisters: per una volta i traduttori italiani non si sono sbizzarriti con traduzioni improbabili. Non perdonerò mai quello che ha tradotto The eternal sunshine of a spottless mind con Se mi lasci ti cancello). Non conoscevo le Ya-ya sisters, se non per qualche citazione nel mio amato telefilm delle Gilmore Girls (ovvero Una mamma per amica; ma non era meglio il titolo originale? scusate, chiudo qui la mia polemica con i traduttori). Mi ero fatta l’idea che fosse un film divertente e strampalato, un po’ sciocco. Mi sono dovuta ricredere.
IN realtà la prima mezz’ora di visione ha confermato il mio pregiudizio. Prologo: negli anni ’40 quattro ragazzine fondano il club/società segreta delle Ya-ya sisters, e restano legate tra loro tutta la vita. La storia vera e propria comincia verso il 2000, quando tre delle appartenenti alle Ya-ya, ormai ultra sessantenni ( tra loro ho riconosciuto solo Maggie Smith: un nome, una garanzia), partono in missione per far riappacificare la quarta componente, Vivi con sua figlia Sidda ( interpretata da Sandra Bullock). Le due hanno litigato a morte perché Sidda, autrice teatrale, ha rilasciato un’intervista molto dura nei confronti della madre, che si jmostra subito come un personaggio eccentrico. Nella prima parte del film dunque ci sono queste tre deliziose, inappuntabili vecchiette del vecchio Sud americano che drogano Sidda e la rapiscono, per portarla in una casa isolata dove le raccontano la storia di sua madre. Tutto questo si svolge mentre le tre vecchine preparano Bloody Mary fin dalle otto del mattino e non smettono di bere finchè sono tutte sdraiate a terra. Mai viste senza un bicchiere tintinnante di cubetti di ghiaccio in mano – compresa Vivi, la madre di Sidda, che anche mentre si scioglie in lacrime trova la forza per correggere il proprio cocktail- Insomma, all’inizio sembra un film buffo su tre vecchiette svaporate e ubriacone che raccontano alla figlia della quarta la loro giovinezza alla Via col Vento, tra balli, servitù di colore e fidanzati romantici. Ben presto però, nei flashback che si susseguono, la storia di Vivi diventa molto più tragica e complessa. Senza anticipare troppo, vi dico che Vivi ( che da giovane è interpretata da Ashley Judd, bella oltre ogni dire) è una persona fragile, che si ritrova con un marito che non ama e con quattro figli verso i quali si sente inadeguata, fino al punto di fuggire per proteggerli da se stessa. Ci sono delle scene tremende, in cui però Vivi non viene mai percepita come un mostro, Senza anticipare troppo, vi dico che ho pianto come una fontana in più occasioni, per poi ridere due minuti dopo con le impagabili vecchine. Insomma, una belle storia di donne per donne dove si ride, si piange e ci si emoziona. Perché questo è un vero film da femmine: visione vietata a chi non ha visto un milione di volte Fiori d’acciaio, Piccole Donne e Orgoglio e pregiudizio e si è emozionata ogni volta. In ogni caso però, il film è fortemente consigliato a chi voglia imparare a fare un buon Bloody Mary. |
Post n°11 pubblicato il 14 Febbraio 2007 da jo_march1979
Domenica pomeriggio, teatro Acacia di Napoli: è in scena 8 donne e un mistero, spettacolo tratto dall’omonimo film francese del 2002. Ho imparato qualcosa ancora prima che lo spettacolo cominciasse: a) che tra il centro storico di Napoli – dove vivo – e la zona di piazza Medaglie d’Oro- dov’è il teatro- , c’è una differenza climatica pari a quella tra Lampedusa e Oslo; b) che l’età media del pubblico di un teatro di domenica pomeriggio si aggira intorno ai 105 anni; c) che al teatro Acacia, per motivi probabilmente legati al punto b), la gente scatarra spesso e volentieri, prima, durante e dopo lo spettacolo. Detto questo, devo aggiungere che comunque 8 Donne e un mistero è molto carino. Il mistero del titolo è l’assassinio di un uomo, intorno al quale ruotano 8 donne, sue parenti naturali (due figlie, la moglie e la sorella), acquisite (suocera e cognata) e cameriere ( una tata e una neo-assunta). Ognuna di loro ha un buon motivo per ucciderlo, e nel tentativo di scoprire l’assassina le otto donne si svelano intrighi, relazioni e passioni segrete. Non mancano canzoni e colpi di scena. Tre ore di buon spettacolo; le attrici, famose e sconosciute, sono tutte grandi professioniste. Sandra Milo, nel ruolo della vecchia mamma ubriacona, è lodevole, se non altro perché alla sua veneranda età è stata 3 ore su certi tacchi sottili che io non avrei sopportato dieci minuti, e perché si è ricordata tutte le battute. In tv mi è sempre sembrata piuttosto svampita, in scena è invece scattante, l’ho rivalutata. Eva Robin’s è molto divertente nel ruolo della cognata isterica e ipocondriaca, vestita in modo dimesso per tre quarti dello spettacolo. – Pettegolezzo: tra l’altro l’ho vista al botteghino prima dello spettacolo, e (oltre a non averla assolutamente riconosciuta), non mi sarebbe mai venuto in mente che non fosse una donna con tutte le sue cosine naturalmente a posto –. Corinne Clery non mi è mai stata troppo simpatica, ma devo dire che le si addice il ruolo di donna di mondo, sorella senza scrupoli del morto. Solo che la sua erre francese mi irrita da morire, quindi non sono in grado di dare un giudizio spassionato. Nadia Rinaldi, cameriera del defunto, è stata la più applaudita, anche se il suo non è un ruolo chiave –tranne che per un colpo di scena che non vi svelo- anzi si: spoiler! si scopre che ha una storia con Corinne Clery- . La mia preferita in assoluto è Caterina Costantini- che non conoscevo-: nel ruolo dell’avida e plateale moglie del morto mi ha ricordato, per movenze e voce, la mia cara Bette Midler. Insomma, uno spettacolo da vedere per passare un pomeriggio spensierato. Peccato per il pubblico incartapecorito, che rideva solo alla battute sessuali e si perdeva quelle più sofisticate, e che non capiva la differenza tra comico e drammatico: - spoiler- quando una delle figlie rivela alla sorella che è incinta del padre, tutti a ridere. Non ho parole. E quando non ridevano a proposito o scatarravano, scartavano caramelle. TUTTI. Riguardo lo spettcaolo, ho giusto due appunti da muovere: uno riguarda le canzoni interpretate dalle attrici, a mo’ di musical. L’idea è carina, le canzoni gradevoli, ma dieci sono veramente troppe, non si reggono proprio. Inoltre non mi è piaciuto il colpo di scena finale – altro spoiler!-: si scopre che l’uomo in realtà non è morto ma ha finto, per sapere chi sono davvero le donne che lo circondano. La scoperta però gli è insopportabile: si uccide sul serio, e gli ultimi minuti della scena sono una tragedia di urla, lacrime e canti strazianti. Indipendentemente dal fatto che il film terminasse o no in questo modo, ci si poteva risparmiare questa scena da tragedia di Seneca, e mantenere lo stesso tono cinico e lieve delle TRE ORE precedenti. A parte queste due annotazioni però devo dire che sono stati quindici euro di spettacolo (nelle poltroncine più strette del mondo) ben spesi; e in ogni caso, meglio che andare a vedere Manuela Arcuri che interpreta la proprietaria di due tette. |
La libreria Feltrinelli di piazza dei Martiri a Napoli non è più quella di una volta. Quando ero giovane (tre-quattro anni fa) era frequentata da persone interessate a libri e incontri culturali, giovani coppie che portavano i bambini ai laboratori di lettura e signore anziane che leggevano romanzi in lingua. Sabato scorso volevo trascorrere un pomeriggio culturale con il colui, e siamo andati fiduciosi alla “Feltrinelli grande”, come la chiamano i napoletani. Era piena come un uovo: orde di ragazzini che sciamavano dai libri dei comici agli stand dei calendari; mocciosi aggrappati alle colonne pur di non andare nella zona bambini; coppie dallo sguardo smarrito, della serie “Me l’immaginavo con più mobili, l’Ikea”. E soprattutto, la specie aborrita dalla webmater: gli occupanti di divani. Sempre quando ero giovane, trascorrevo intere “giornate Feltrinelli”, sui santi e benedetti divani di pelle, con una pila di libri affianco e qualche pausa caffè. Ho letto uno sproposito di libri che non avrei mai comprato, e ho comprato più libri di quelli che avrei mai pensato, spronata dalla lettura. Adesso è un’impresa trovare un posto libero, visto che i divani sono sempre occupati da gente intenta a far riposare il proprio culone. Sguardo perso nel vuoto e piedi allungati, giusto per dare fastidio anche a quelli che non vogliono sedersi. E non è che si riposano e ripartono. No, stanno piazzati lì almeno un’oretta. Oppure, ci sono quelli che stanno aspettando qualcuno, e si piazzano sul divano sfogliando libri senza leggerli e consultando in continuazione il cellulare. MI è toccato un incontro troppo ravvicinato con uno di questi esemplari: l’unico posto libero è vicino ad una signora over50, lunghe unghie laccate di rosso, bionda innaturale, suoneria del cellulare più rumorosa di una banda di bersaglieri. Sfoglia libri immortali tipo “Chocolat”, leggendone molto lentamente solo il primo e l’ultimo capitolo. Dopo aver fatto lo stesso giochetto con un altro paio di libri, fa per alzarsi; io guardo speranzosa verso il colui, che vaga per la libreria alla ricerca di un posticino. Lei capta il mio sguardo, si gira verso di me e mi dice con espressione gioiosa: “Ma io non me ne sto andando, vado solo in bagno! Ci aveva sperato, eh? aveva coltivato la speranza!! ”e ride con soddisfazione. Immedatamente dopo, con lo stesso tono gaio: “Mi guarda la borsetta?” E trotterella verso il bagno. A quel punto, ho avuto un impulso irresistibile di prendere la borsetta, svuotarla sul pavimento, ballare sopra il suo contenuto e andare via. Invece, mi sono limitata ad alzarmi brontolando. Mentre giro per la libreria predicando ancora contro la signora, noto che ci sono un sacco di persone con cani. E’ una cosa che non mi piace; oltre alla mia antipatia personale per i cani, non mi pare mica tanto igienico, considerando che ci sono molti bambini. Anche se si tratta di qualche yorkshire e qualche cosino peloso alto trenta centimetri. Figuratevi la mia reazione quando vedo una signora alta, anzi bassa un metro e quaranta con una graziosa cordicella in mano, alla cui estremità è attaccato un pastore tedesco grosso come pochi altri. Guinzaglio, museruola? Macchè. La tipa incrocia il mio sguardo irato e fa fare un passo avanti al cane, come a dire “Prova a venirmi vicino che ci divertiamo”, e si percorre, metro dopo metro, TUTTA la libreria, tutti e tre i piani, con il bestione al lato. Giuro che la prossima volta che vado alla Feltrinelli mi porto al guinzaglio un cavallo, e guai a chi osa dirmi qualcosa. |
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