Creato da jo_march1979 il 28/01/2007

Signora mia

Mezze stagioni e altri teoremi

 

Messaggi di Marzo 2007

Degli scoiattoli aerofagi

Post n°30 pubblicato il 25 Marzo 2007 da jo_march1979
 
Tag: tv

immagineDa qualche giorno impazza sugli schermi televisivi lo spot di una gomma da masticare in cui uno scoiattolo salva una foresta in fiamme grazie al provvidenziale chewingum, che - come dire – lo aiuta a raffreddare l’aria.

Lo scoiattolo ha indubbiamente grandi doti naturali, dal momento che espelle una quantità di aria gelata tale da provocare una nevicata che spegne l’incendio.

Credo di aver capito che il messaggio sia questo: la gomma da masticare pubblicizzata ha un effetto rinfrescante così forte da essere paragonabile ad una tempesta di neve. Resta da capire perché l’aria fredda esca dall’orifizio sbagliato.

Di conseguenza mi viene da chiedere: ma voi comprereste un chewingum con questi effetti collaterali?

 
 
 

Dell’Iliade american way

Post n°29 pubblicato il 22 Marzo 2007 da jo_march1979
 
Tag: film

 

Ieri sera ho visto Troy su Canale 5. So che il film è stato ampiamente recensito quando è uscito, un paio di anni fa; probabilmente quindi farò osservazioni poco originali, ma non ce la faccio proprio a tenerle per me.

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In linee generali, sono stata molto colpita dal fatto che sceneggiatori siano  stati pagati migliaia e migliaia di dollari per non capire niente dell’Iliade.

Non dico che avrebbero dovuto leggere l’originale greco, o una traduzione integrale, ma almeno un riassunto per le scuole medie, un’edizione a fumetti...Giusto per avere una vaga idea di cosa stessero parlando.

In genere amo le riedizioni dei classici, perché, con tutte le varianti e rielaborazioni sono una conferma della loro immortalità: ma in questo caso mi è dispiaciuto per Omero – o chi per lui – che si sarà rigirato vorticosamente nella tomba.

Ignoriamo pure l’assenza di molti personaggi, le distorsioni della trama, Paride ancora più imbecille che nel testo originale.

Resta un inquietante interrogativo: perché in questo film sciagurato vogliono farci credere che Achille sia  il protagonista assoluto dell’Iliade?

 

Achille inoltre è stato completamente stravolto.  Immagino gli sceneggiatori americani con le mani nei capelli, chiedendosi come questi greci potessero mai considerare eroe un gay immaginedichiarato. La loro beata ignoranza della cultura classica e della concezione precristiana dell’amore ha prodotto un ribaltamento di tutta la storia: l’amore di Achille per Patroclo è diventato una pudica, ridicola cuginanza, la cui vendetta assume una dimensione mafiosa, più che epica; il romanzetto con Briseide è poi inventato di sana pianta.

Due parole anche su Brad Pitt, che a me, più che ad Achille, faceva pensare a uno dei Village People.

Mi chiedo quale mente abbia potuto partorire un personaggio epico con i capelli tinti di biondo e i muscoli pompati, che va ad assediare Troia con un guardaroba che comprende tutta la collezione primavera estate di Versace.

La cosa che mi ha fatto davvero impressione comunque è stata un’altra: sia i Greci che i Troiani nel film si scambiano innumerevoli baci sulle guance.

So per esperienza personale che gli Americani trovano il saluto con un bacio per guancia un’abitudine europea divertente e sconcertante, ma non capisco in base a quale principio l’abbiano applicata ai personaggi dell’Iliade. Qualcuno gli avrà spiegato che Priamo non è il Padrino?

 
 
 

Delle prospettive di carriera

Post n°28 pubblicato il 21 Marzo 2007 da jo_march1979
 

 

A giorni discuterò la tesi di dottorato. Fervono preparativi su tutti i fronti. Ho dato in giro le mie tesi con frontespizi giusti e sbagliati, sono riuscita ad insaccarmi nel tailleur indossato alla laurea e ora sono alla spasmodica ricerca di camicia e scarpe. Mia madre passa ore al telefono a fare acrobazie per non dire la data esatta alla mia graaande, impicciona famiglia (vedi ultimo post), perché altrimenti ti mettono l’occhio (mi portano male), e allo stesso tempo vantarsi di questa figlia brillante -che sarei io-.

Sto leggendo le pubblicazioni  piùà disparate dei miei commissari esterni, così che nella seduta possa incensarli a dovere “Come lei sostiene, professore, nel suo meraviglioso saggio del 1971...” e sto evitando di aprire la tesi perché ogni volta trovo un errore nuovo.

 

In tutto ciò, fa capolino il pensiero che, dopo la gloriosa giornata della seduta di dottorato per la quale sto facendo tanti preparativi, sarò una dottoressa di ricerca disoccupata. Urge trovare qualcosa da fare.

 

Così l’altro giorno mi sono fatta coraggio e sono andata a parlare con la mia prof. La conversazione è stata più o meno questa:

Io: - Prof, ma che cosa potrei fare? mi dia qualche consiglio.

Lei: - Beh, anzitutto devi pubblicare qualcosa che ti faccia curriculum per i concorsi di ricercatore, si può provare con questa rivista X e questa casa editrice Y...

Io: - Sì, ma cosa potrei fare PAGATA per farlo?

Lei: - Beh, si potrebbe fare qualche traduzione qua e là quando capita...

Io: - Ma non c’è proprio nessuna possibilità di trovare qualcosa con cui campare nell’attesa di partecipare ai concorsi universitari?

Lei: - Beh... ma non ti possono mantenere i tuoi?

 

Io: - Censura censura censura censura
 
 
 

Del sesso di mezzo (Middlesex)

Post n°27 pubblicato il 16 Marzo 2007 da jo_march1979
 


immagineSono nato due volte: bambina, la prima, un giorno di gennaio del 1960 in una Detroit straordinariamente priva di smog, e maschio adolescente, la seconda, nell'agosto del 1974, al pronto soccorso di Petoskey, nel Michigan.


Comincia così uno dei miei libri preferiti, Middlesex (Oscar Mondadori), dell’autore americano di origine greca Jeffrey Eugenides.

La storia del/la protagonista, un ermafrodita che vede la luce come Calliope per poi diventare Cal, ha origine molto prima della sua nascita in America.

La vicenda di Cal/liope comincia infatti in uno sperduto villaggio greco da cui i fratelli Desdemona e Lefty scappano per salvarsi dalla guerra con gli occupanti turchi. I due si imbarcano fortunosamente nel porto di Smirne messa a ferro e a fuoco dall’esercito ottomano, diretti negli Stati Uniti da una cugina.

Si stabiliscono a Detroit, mettendo su famiglia. Alle loro vite nella comunità greca allegra e invadente come una grande famiglia si intrecciano proibizionismo e trafficanti, industrializzazione e disordini razziali, emancipazione e cambiamenti generazionali.

La prima parte del libro è una magnifica ricostruzione di Detroit vista dagli occhi di una famiglia greca superstiziosa e intraprendente che vive in un'assurda abitazione stile Le Corbusier, chiamata Middlesex. Il risultato è un affresco pieno di ironia di un importante pezzo di storia americana.

La seconda parte del libro racconta nascita e crescita di Calliope, che nasconde un segreto nel suo corredo cromosomico. La sua vita di bimba scorre tranquilla, mentre nell’adolescenza si rende gradualmente conto di un’oscura diversità dalle altre ragazze. In seguito ad un incidente Calliope scopre il suo ermafroditismo e cerca di trovare una nuova identità (è questo il vero Middlesex del libro). Inizialmente si fa guidare da un medico ambizioso e dai genitori incapaci di affrontare la situazione, poi sceglie da sola, allontanandosi da Middlesex e decidendo di essere Cal.

Il richiamo delle radici però riporterà a casa Cal, permettendogli di completare la scoperta della sua identità e dei misteri ad essa legati.

Questa è, molto in sintesi, la trama di Middlesex. Amo molto questo libro principalmente perché tratta temi da tragedia con toni da commedia. Posso inoltre dare tre motivi in base ai quali consiglio di leggerlo:

1. Perché si apre con l’incendio di Smirne, dove si chiude Le streghe di Smirne,altro libro che amo molto e di cui, per me, rappresenta una sorta di continuazione ideale;


2. Perché tratta con leggerezza e garbo di questioni delicate come identità di genere e diffferenza sessuale, senza mai cadere nel banale e nel volgare;

3. Perché, prima ancora di essere una storia sull’ ermafroditismo, è una grande, tragicomica saga familiare. Qua e là balena il messaggio che, in una situazione come quella di Calliope, lo scherzo biologico di cui è vittima sia comunque più sostenibile della sua famiglia strampalata.

Io che sono nata con tutte le mie cosine femminili al loro posto, ma che subisco e amo la mia grande famiglia matriarcale piena di donne forti ed impiccione, non posso che essere d’accordo.


 
 
 

Post N° 26

Post n°26 pubblicato il 13 Marzo 2007 da jo_march1979
 

Da quando le tecnologie hanno fatto la loro comparsa nell’epoca moderna, ferve il dibattito sulla loro essenza. Lo scrittore di fantascienza Isaac Asimov ha immaginato  nel suo racconto “L’uomo bicentenario” (da cui è stato tratto anche un film con Robin Williams) un robot che sviluppa immaginecreatività e personalità, presentandolo come un inconciliabile paradosso.

Mi permetto di non essere d’accordo con il grande Asimov: in base alla mia pluriennale esperienza le macchine hanno eccome una personalità, che nella maggior parte dei casi è anche spiccatamente carogna.

Ricordo da sempre inquietanti episodi di macchinari di vario genere che si ribellano con gioiosa malignità ai miei voleri. Frugando nella memoria posso citare, in ordine più o meno cronologico:

-         La Cinquecento blu di mia madre. Deliziosa macchinetta tuttora funzionante, aveva un orologio biologico assai preciso, che le permetteva di capire quando e quanto mia madre era in ritardo per accompagnarmi a scuola. Proporzionalmente a tale ritardo, la 500 metteva in atto due strategie: se era lieve, si limitava a far aprire il tettuccio durante la marcia, possibilmente nei giorni di pioggia. Se eravamo in ritardo serio, si rifiutava semplicemente di partire.

-         La televisione del soggiorno. Aveva un’abilità che rasentava la preveggenza nel perdere la sintonia di Italia Uno il giorno in cui trasmettevano l’ultima puntata di un cartone animato. Ho saputo che fine toccava a Candy Candy quando già andavo all’università, e ignoro tuttora se Gargamella sia riuscito a farsi la bramata zuppa di Puffo.

-         Il mio primo walkman. Consumava una quantità indecorosa di batterie, per scaricarsi sistematicamente all’inizio della mia canzone preferita. Anzi, il perfido non si spegneva, ma dimezzava la velocità di svolgimento del nastro, per cui ricordo i miei brani del cuore dai 13 ai 18 anni come una lunga sequenza di cupe voci al rallentatore.

-          Il mio primo telefono cellulare. Aveva l’aspetto e il peso di un citofono ed era potentissimo. Aveva campo dappertutto, anche sottoterra. Dappertutto, ma non in camera mia. Ho trascorso due anni della mia vita a cercare un punto dove ci fossero almeno due tacchette di campo, tra la cima dell’armadio e il retro della testiera del letto.

-         Il mio primo computer portatile. Non solo aveva indubitabilmente una personalità, ma era anche una personalità schizofrenica. Funzionava un giorno sì e due no, prediligendo per le sue pause i momenti in cui ero più nervosa. Ad esempio, un mese prima della mia laurea, quando ero nel delirio degli ultimi capitoli della tesi, si rifiutò di lavorare se connesso alla rete elettrica. Funzionava solo in modalità batteria. Dovevo scrivere per due ore, farlo ricaricare per mezzo pomeriggio, scrivere per altre due ore, rimetterlo in carica e così via. Ovviamente, se portato in riparazione, riprendeva a funzionare in rete.

-         La mia prima stampante. Ha fatto il suo dovere egregiamente all’epoca della tesi di laurea (almeno lei). Quando alcuni mesi fa ho tentato di stampare una versione intermedia della mia tesi di dottorato, mia ha improvvisamente abbandonato. Lì ha mostrato di essere bastarda dentro, perché non si è limitata a smettere di funzionare: prendeva i fogli, simulava di lavorarci sopra, li tratteneva e me li restituiva perfettamente bianchi. Tuttora esegue perfettamente i movimenti della stampa, con il piccolo dettaglio che in realtà non stampa.

-         La mia seconda stampante (in prestito dalla mia amica Francesca). Disperata perché dovevo consegnare la copia della tesi il giorno dopo, ho chiesto a Francesca di prestarmi la sua stampante. Ho scoperto che ha una personalità alcolista: 48 euro di cartucce. La sbronza di inchiostro la rendeva poco lucida: stampava solo le pagine pari. Non ho ancora capito come, ma in qualche modo sono riuscita a convincerla a produrre anche i fogli dispari: per stampare 350 pagine ci sono volute 8 ore (notturne, ovviamente) e tre risme da 500 fogli.

-         Lo scaldabagno. Nuovissimo, comprato in un inspiegabile attacco di generosità dalla mia padrona di casa, si è rotto il 13 febbraio 2005. Ricordo perfettamente quella data perché era due giorni dopo la scadenza della garanzia, e perché faceva 

così freddo che nevicava a Napoli.

-        

Il lettore mp3

. Comprato appositamente per le sua notevoli capacità di registrazione, si è spento dopo 5 minuti che avevo cominciato ad intervistare un’importante critica letteraria per un’appendice della mia tesi. Ovviamente non me ne sono accorta che due ore dopo, a intervista finita. Ho dovuto supplicare la mia miglior nemica, che si trovava lì, di cedermi la sua registrazione. Aspetto che mi chieda un rene da un momento all’altro.

Delle due l’una: o sono molto più imbranata di quanto sospetto, o effettivamente le macchine si stanno rivoltando contro di me approfittando dei miei momenti di maggior tensione. Queste sciagure succedono solo a me o non sono sola nella guerra –persa- per tenere testa alle tecnologie? Fatemi sapere, per favore.

 
 
 

Di Hugh Grant canterino

Post n°25 pubblicato il 11 Marzo 2007 da jo_march1979
 
Tag: film

immagineSabato sera in Cilento a casa dei miei, già posizionati in poltrona a guardare Notti sul ghiaccio. Mia sorella e io abbiamo compassione l’una dell’altra e ci portiamo reciprocamente al cinema.  La scelta cade su Scrivimi una canzone (titolo originale Music and Lyrics) con Hugh Grant e Drew Barrymore.

Il cinema dove andiamo (sala unica, ovviamente) è un corridoio: lungo e stretto, file composte da sette poltrone sette, che affacciano sullo schermo più piccolo del mondo. Rivestimenti, acustica, colori e qualità della proiezione portano ad uno strabiliante viaggio nel tempo: sembra di stare negli anni ’70- inizio anni ‘80, quando presumibilmente la sala è stata costruita, nella sua originaria funzione di cinema porno.

L’atmosfera d’annata  ha comunque il merito di immergere lo spettatore nel film, che narra le vicissitudini di un’ex stella del pop anni ’80, interpretata da Hugh Grant.

Il suo personaggio, Alex Fletcher, ha avuto un grosso, effimero successo negli anni ’80 con la band Pop! (la sua figura mi sembra ricalcata su Andrew Ridgeley dei Wham! -per intenderci, quello dei due che non era George Michael-). Vivacchia esibendosi in fiere agricole e riunioni di liceo per un pubblico di nostalgiche. Gli arriva un’importante opportunità di riscatto quando una diva del momento, Cora, gli propone di scrivere una canzone per lei (Cora è invece un patchwork di Christina Aguilera, Britney Spears e Shakira: piuttosto inquietante). Lui non è in grado di comporla e lo aiuta Sophie Fisher (Drew Barrymore), una ragazza strampalata e talentuosa.

 I due – che ovviamente finiscono ad amoreggiare sotto il pianoforte - compongono la canzone, che piace a Cora, la quale però intende snaturarne lo spirito con improbabili inserti sexy- buddisti (giuro).

Questo provoca la scissione della coppia Alex –Sophie perché lei è troppo pura per accettare le ciniche regole del mercato (giuro anche stavolta). State comunque tranquilli perché l’happy end giunge inevitabile come la ghigliottina per Maria Antonietta.

La trama è, con tutta evidenza, esile e prevedibile. Soprendentemente, però, il film è carino e funziona.

Credo che questo sia dovuto in primo luogo alla bravura degli attori. Hugh Grant è fantastico nel (solito) ruolo dell’uomo simpatico e disincantato che riscopre le emozioni, e ha un ottimo feeling con Drew Barrymore, specializzata in ruoli di fanciulle svaporate e geniali.

Il secondo motivo per cui il film si può vedere è la rievocazione degli anni ’80. Il videoclip iniziale immaginevale da solo il prezzo del biglietto: Hugh Grant, ringiovanito e messo sotto un notevole toupet, canta con gli altri componenti del gruppo Pop! la loro hit Pop!goes my heart. Un tripudio di citazioni, parodie e strizzate d’occhio ai clip anni’80, che si ripropone nel corso del film, che cerca di mettere in ridicolo del revisionismo musicale e della piattezza del pop di oggi. In più, Hugh Grant canta sul serio, e non è così male.

I limiti del film sono altrettanto evidenti: tanto per dire, la canzone su cui si incentra la trama  è una melassa allucinante.

Inoltre non si capisce perché i versi composti nel corso del film siano proposti in un’orripilante traduzione italiana, mentre quando alla fine il brano viene cantato  da Cora e Alex in un concerto, è in inglese con i sottotitoli.

Sottotitoli che, peraltro, NON ENTRAVANO sul suddetto schermo più piccolo del mondo. Per chi capiva l’inglese, bene: per gli altri è restato un mistero come mai Drew Barrymore sia tornata indietro con le lacrime agli occhi.

Insomma, si esce dal cinema con allegre canzoncine simil anni ’80 in testa, e soprattutto con la consolante convinzione che ci sono uomini come Hugh Grant- davvero spettacolare per bellezza e ancheggiamenti-, che migliorano con l’età. Ragazze, c’è speranza.

 

 

 
 
 

Del concetto di normalità

Post n°24 pubblicato il 10 Marzo 2007 da jo_march1979
 

Oggi c’è il Dico Pride a Roma. Sui giornali ferve il dibattito sulla tutela della immagineconvivenza al fuori del matrimonio - anche tra coppie gay -, e viene riproposta un’affermazione della senatrice Paola Binetti, registrata nella scorsa settimana a la 7:

L’omosessualità è una devianza della personalità

(cliccate qui per approfondimenti)

Detto da una parlamentare che fa parte della maggioranza di sinistra, la stessa che ha introdotto la proposta di legge dei DICO.

Ma, soprattutto, detto da una che, per sua stessa dichiarazione, indossa abitualmente il cilicio, strumento di autoflagellazione adoperato da molti appartenenti all'OPUS DEI come la nostra senatrice.immagine

Mi chiedo, in questa faccenda chi può dare lezione di devianza e normalità a chi?

 

 

 

 

 

 
 
 

Di femministe e femminucce (sceneggiata in 3 atti) 

Post n°23 pubblicato il 08 Marzo 2007 da jo_march1979

Per oggi, 8 marzo, festa delle donne, avevo cominciato un post in cui sostenevo l’incomprensibilità di questo giorno.immagine Avevo pensato di riflettere sulla mancanza di senso dell’espressione “Auguri per la festa delle donne”, come se bisognasse festeggiare la trasformazione annuale perchè negli altri 364 giorni siamo puffi.

Volevo sostenere che è una festività più inutile di San Valentino, immaginepoiché, grazie a un secolo di femminismo abbiamo superato gli stereotipi legati all’ “essere donna”. Volevo accennare al fatto che allo stesso tempo ci sono molti Paesi  in cui non c’è proprio nulla da festeggiare per il fatto di essere donna (guardate un po’ qui, per farvene un’idea).

Volevo scrivere queste cose, in cui credo, ma dopo quello che ho fatto qualche giorno fa non sarei credibile.

 

Prologo: giovedì scorso porto a stampare e rilegare la mia tesi di dottorato in varie copie. Dev’ essere pronta sabato mattina, per essere spedita ai commissari esterni entro mezzogiorno.

I atto: Sabato mattina vado a ritirare i volumi in legatoria, scoprendo con orrore che tutti frontespizi sono sbagliati. C’è un maledetto punto in mezzo ad una parola: così “nuova serie” diventa “n. uova”. Più che un frontespizio di tesi, sembra la ricetta di una torta.

I commissari esterni che dovranno giudicarmi hanno una simpatica fama di lupi mannari affamati di dottorandi tremanti, e non è il caso di indisporli con una copertina sciatta.

Chiedo in legatoria  che mi rifacciano la copertina (ingredienti: colla e  foglio di cartoncino stampato correttamente). Passo un fine settimana insonne.

Lunedì mattina le copertine non sono pronte. Motivo: hanno finito la colla. Come se in un panificio finissero il lievito. Nel pomeriggio, ancora niente.

La mattina dopo torno due volte. Niente colla, ed evidente fastidio del proprietario della legatoria nei miei confronti. Finisco la mia scorta di parolacce. Faccio una scenata, e uno dei ragazzi che lavora lì mi rende le fotocopie della mia tesi con le copertine nuove, suggerendomi di andare a nome suo in un’altra legatoria. Seguo il suo consiglio.

II atto: Sono le due del pomeriggio, io DEVO spedire le tesi con un corriere entro le 4 dello stesso giorno.

Entro nella seconda legatoria, dove trovo tre uomini tra i 40 e i 60 anni in pausa,  in mano panini con cotolette e frittate. Espongo la situazione. Sono disperata, ma decido di ostentare sicurezza.

I tre fanno una scenata pazzesca.  Sono mortalmente offesi dall’affronto: quelli non sanno lavorare, e noi gli dobbiamo risolvere i problemi? Signurì, iatevenne.

Tento di convincerli. Tutto inutile. Mi dicono che per fare un lavoro del genere dei professionisti come loro hanno bisogno almeno di un giorno e mezzo. Immagino il corriere partire senza di me, e i lupi mannari pasteggiare con il mio cadavere. Tento ancora di persuaderli, invano. Con l’ultimo spiraglio di lucidità mi rendo conto che per loro è essenzialmente una questione d’orgoglio. Allora, visto che la carta della donna adulta e razionale non ha funzionato, calo l’asso della femminuccia.

III atto: Lanciandomi mentalmente dietro alle spalle dieci anni di militanza ideologica femminista, simulo un accenno di pianto.

Incrino la voce, mi asciugo gli occhi asciutti.  Vergognandomi mortalmente di me stessa, mentre interpreto la fragile fanciulla sopraffatta dalla cattiveria del mondo, guardo la reazione dei tre uomini.

Come speravo, la vista di una donzella in lacrime suscita in loro antichi istinti cavallereschi. Mi danno una sedia, un fazzoletto di carta e un bicchiere d’acqua, mollano i panini e si mettono tutti e tre al lavoro intorno alla mia tesi. Conversano con me amabilmente, dottoressa di qua, dottoressa di là...

In QUINDICI MINUTI le tre copie della tesi sono pronte. Bellissime. Nessun punto di troppo.

Profondendomi in ringraziamenti, chiedo il conto.

Rifiutano recisamente di essere pagati. Minacciano di offendersi se insisto.

Mi impacchettano la tesi e mi offrono il caffè. Saluti e prolungate strette di mano. Mi hanno praticamente adottato.

 

Ora è chiaro perché oggi non posso permettermi di fare la donna emancipata?

Quindi, i miei più sentiti auguri a tutte le puffette.immagine

 
 
 

Delle streghe di Smirne

Post n°22 pubblicato il 06 Marzo 2007 da jo_march1979
 
Tag: libri

 

Premessa. Fedele al principio della leggerezza di Italo Calvino in base al quale ho impostato questo blog, ho deciso di privilegiare la recensione di libri allegri e ironici, ma non sciocchi. Quindi, è mia intenzione non parlare né delle tragedie di Shakespeare dove muoiono tutti, ma neanche delle pubblicazioni dei comici di Zelig.

 Questo criterio ha prevedibilmente ridotto la varietà di scelta. Pertanto le mie recensioni non saranno frequenti, ma almeno attentamente selezionate per far sì che la lettura di un libro da me consigliato, se effettuata al termine di una giornataccia, faccia venire voglia di sorridere e non di appendersi al lampadario.


 

immagineLe streghe di Smirne, della scrittrice greca Mara Meimaridi (edizioni e/o, 2004, 480 pp., 16 €) risponde in pieno ai requisiti che cerco.

L’autrice merita una piccola presentazione: è antropologa, esperta di esoterismo, medicina, astrologia e astrofisica. A giudicare dalle interviste, se non è completamente pazza, ha comunque qualche rotella fuori posto. Attualmente è sotto processo a Istanbul: il governo l’accusa di aver diffamato la sua popolazione. All’epoca in cui il libro è ambientato, Smirne faceva parte dell’impero ottomano, il cui esercito compì un efferato massacro degli armeni che vivevano lì, ovviamente negato dall’attuale governo turco. E già questo è un buon motivo per leggere il libro.

 

La storia comincia ai nostri giorni, quando la giovane greca Maria trova un baule con i diari di una sua vecchia zia, Katina. Leggendoli, viene trasportata nella Smirne di inizio ‘900.

Katina e sua madre, Eftalia, provenienti dall’interno della penisola greca, sono arrivate in città nella più completa miseria. Hanno solo gli occhi per piangere, ma non si perdono d’animo: si stabiliscono nel quartiere greco (che all’epoca è la zona povera della città) e cercano di inventarsi qualcosa. Intanto conoscono Attarte, una misteriosa donna turca che inizia alla magia madre e figlia, trovando soprattutto in Katina un talento speciale.


Detto così sembrerebbe un romanzo poco realistico, tendente all’esoterico.

Invece è il racconto più vivace e pittoresco che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni. Intanto perché la magia c’entra relativamente: i veri incantesimi sono nell’arte di arrangiarsi, di riscattare una vita difficile attraverso astuzia e buonsenso.

Il personaggio principale, Katina,  è bruttina, intelligente e senza scrupoli: l’anti-piccola donna per eccellenza. Aiutata dalla madre - e soprattutto dal suo ingegno -  compie un’ascesa sociale spettacolare, attraverso matrimoni al disopra delle sue possibilità (comincia con una venditore di tabacco e finisce con un pascià, tanto per dare un’idea) e spregiudicate intuizioni affaristiche – tra cui l’invenzione delle sigarette aromatizzate alla rosa, con cui utilizza del tabacco marcio e lancia una moda che la rende ricca -.

Eftalia non è da meno della figlia: raggiunge la tranquillità economica inventando creme miracolose da vendere alle signore dei quartieri alti – è dai tempi di Biancaneve che esiste il legame tra bellezza e magia, e non a caso Eftalia è una strega-.

 Il microcosmo delle donne del quartiere greco di Smirne è eccezionale. Si intrecciano pettegolezzi e tragedie, ricette e bugie, drammi familiari e astuzie.

 Nel mio episodio preferito, Katina e la figlia di una levatrice anch’essa fattucchiera, si contendono uno scapolo da sposare. Il matrimonio ovviamente non ha niente di romantico, è piuttosto un obiettivo da raggiungere a tutti i costi per garantirsi la sopravvivenza.

Le rispettive madri aiutano le ragazze in questa guerra. Dopo aver provato tutti i sortilegi possibili –oggetti di magie nere che l’una seppellisce nell’orto dell’altra, bubboni provocati dai malefici, mini woodoo e quant’altro - Eftalia, la madre di Katina, ha un’idea risolutiva. Va dal bello del quartiere, gli insinua il dubbio che esista una ragazza che proprio non cede al suo fascino... e due mesi dopo la figlia della levatrice è incinta di lui.

Soprattutto, è fuori gioco.

 

Insomma, la prima parte di questo libro è un viaggio leggero in una realtà difficile e povera: la vita quotidiana è ricostruita con precisione antropologica  e filtrata (è il caso di dirlo, parlando di magia) attraverso la lente dell’ironia.

 

Nella seconda parte, in cui ritorna il personaggio di Maria che aveva aperto il libro, l’autrice si prende un po’ troppo sul serio e calca la mano sul lato della magia (per chi fosse interessato, ci sono anche degli incantesimi. Se non vi fa schifo maneggiare piccoli animali morti e sangue mestruale, preparate  pure il vostro calderone).

 

Nonostante qualche caduta qua e là nel finale, questo libro merita decisamente di essere letto, da aspiranti streghe, scettici, maschilisti e femministe selvagge. Piacerà a tutti perché la tesi di fondo è essenzialmente questa: con o senza pozioni e incantesimi, in fondo tutte le donne sono un po’streghe.

 
 
 

Dei deliri domenicali post Sanremo.

Post n°21 pubblicato il 04 Marzo 2007 da jo_march1979
 
Tag: tv

                    In genere la domenica pomeriggio sulle reti generaliste è una lunga deriva tra paesaggi monotoni: il sopore di Domenica In da un lato, le risse telecomandate di Buona Domenica dall’altro. L’alternativa è il sorriso-emiparesi di Licia Colò su Rai tre, con qualche boccata d’aria ogni tanto a Rai 2 con Quelli che il calcio.

Oggi pomeriggio la situazione è stata particolarmente tragica.

 Ieri sera è finito il festival di Sanremo e la puntata odierna di Domenica In  è stata dedicata alla ricapitolazione dei cantanti delle cinque serate. Anche Buona Domenica ha riservato tre quarti della programmazione al festival.

Mentre su Rai Uno il tema principale era decidere se fare Pippo Baudo Papa o direttamente santo, su Canale 5 il dibattito aveva vari titoli, il cui filo conduttore era “Ma quanto fa schifo il festival?”.

 

Facendo zapping tra i due canali ho trovato sovrapposizioni inquietanti. A Buona Domenica sono ospiti due tipi che avevo già visto in veste di opinionisti sulle reti rai in mattinata: tanto erano stati formali ed entusiasti sulla tv di stato, tanto sono sguaiati e critici su Canale 5.

Mentre Baudo elogia il suo festival di qualità, su canale 5 Sgarbi, come di consueto inseguito da un infermiere che tenta di fargli l’antirabbica, insulta la pochezza artistica delle canzoni.

Da un lato Baudo celebra i suoi ospiti internazionali, dall’altro lo crocifiggono per i costi eccessivi dei vip.

 

 A mio parere si tocca l’irrealtà quando Baudo si autoincensa per la coraggiosa sperimentazione avviata con i “Giovani” e per lo spazio riservato ai cantanti emergenti. Cinque secondi dopo Paola Perego modera un dibattito con un gruppo di ragazzetti che dichiaravano furenti “Noi giovani (brr, che espressione trita) non amiamo una trasmissione piena di cantanti vecchi e di canzoni che non ci rappresentano”.

 

Il dibattito su canale 5 continua, diventa delirio quando il padre di un ragazzo escluso nella categoria “Giovani” promette atroce vendetta e minaccia in diretta Pippo Baudo perché non ha risposto ad una sua lettera.

Paola Perego fomenta la discussione, aizza i partecipanti e conclude il dibattito dicendo più o meno: “Il festival di Sanremo è obsoleto, non ci piace perché non rispecchia i giovani dell’Italia e a noi la pratica di riesumare cantanti per racimolare pubblico fa schifo”.

E poi invita a cantare Iva Zanicchi.

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PS. Due righe sul festival in sé – che io ovviamente non ho seguito, perchè guardare il festival è come tradire il partner o votare a destra: si fa ma non si dice-.

A me è sembrato uno spettacolo ben fatto, riuscito proprio perché uguale a se stesso. Il fatto che abbiano vinto due canzoni “impegnate” mi ha un po’ irritato: non per i brani in sé, ma per l’impressione che alle varie giurie sembrasse poco politically correct non premiarli, a discapito della qualità artistica di altri pezzi .

Fosse dipeso da me, io avrei fatto finire il festival la prima sera:immagine dopo Tosca e la sua canzone geniale e malinconica, a metà strada tra Fellini e Capossela, scritta per giunta da un artista di origini cilentane (come la vostra webmater), non c’era Cristicchi che tenesse.

 

 

 

 

 

 
 
 

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