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VENTISETTE MINUTI

Post n°1174 pubblicato il 02 Agosto 2011 da non.sono.io
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Tutte le mattine esco di casa e la prima cosa che vedo appena chiudo il portone è la faccia di Carlo Conti  tutto abbronzato e sorridente, che mi fa: “Non abbandonarlo”. Al suo fianco c’è un grosso pastore tedesco, no quello che vive in Vaticano, ma un cane, così bello che sembra abbronzato pure lui. Dietro di loro, sfocata, si erige una villa che si capisce essere immersa in un giardino grandissimo. Conti ride con quell’espressione plastificata che ha imparato ad assumere dopo lunghi anni passati a salutare la gente dai cartelloni pubblicitari. Così io, la mattina, giro l’angolo e lui già m’aspetta da chissà quante ore. Mi ammonisce ingiustamente: “Non abbandonarlo”. Ingiustamente perché io un cane non ce l’ho, e a giudicare dal paesaggio desolato che mi circonda ultimamente durante il mio percorso verso la metropolitana, quello abbandonato sembro io. 
Roma d’agosto, non è come me la ricordavo. Quando ero ragazzino la città a metà luglio era già vuota. Rimanevano solo i vecchi, gli unici che  seguivano i consigli al telegiornale regionale su dove trovare una farmacia aperta, e su come presentarsi il più decentemente possibile quando a metà settembre i figli li avrebbero ritrovati stecchiti ancora lì dove li avevano lasciati: sulla poltrona in compagnia di un ventilatore e di Carlo Conti che dalla televisione già allora suggeriva “non abbandonatelo”.
Invece adesso è diverso. Non sembra che la gente sia andata in vacanza, pare piuttosto che sia scoppiata un’epidemia misteriosa che ha decimato la popolazione capitolina a macchia di leopardo e alla quale io sia miracolosamente scampato.  Attraverso il sottopassaggio della metro domandandomi perché quando si tratta di prendere il raffreddore sono sempre in prima fila e quando si tratta di attaccarsi la “vacanzite” mi salvo. Proprio in quel momento ho come la sensazione di scorgere i tratti di Cristo in un vagabondo che elemosina suonando la chitarra, e ho quasi la certezza che stia sogghignandomi annuendo con la testa come per dire “adesso vediamo chi è il porco”. Ma sarà il caldo, così appiccicoso che mi fa sudare anche l’anima, o della mia naturale propensione alla tragedia che mi nutre la perversione di farmi provare piacere nella malinconia. Ad agosto l’abbonamento alla metropolitana di luglio scade. E pure la mia pazienza.
Nel vagone insieme a me viaggiano solo donne straniere. Dalla periferia, dove salgo io, imbarcano la loro espressione tutto sommato tersa con la stessa disinvoltura con cui si truccano. Vicino a me due peruviane parlano in spagnolo con un fortissimo accento sudamericano. Una delle due racconta che è stata lasciata dal suo ragazzo e l’altra gli suggerisce di non preoccuparsi  tentando di convincerla canticchiando una canzone che dice più o meno “l’amore è semplice, e le semplici cose le divora il tempo”. Mi viene subito in mente che anche l’estate è una cosa semplice, in fin dei conti, e come l’amore dura il tempo necessario per farsi rimpiangere. Ma dopo torna. Torna sempre.
Quando scendo il paesaggio è cambiato radicalmente. C’è un sacco di gente qui, dove vivono e lavorano i ricchi, che condividono con me muti un percorso che per qualche centinaio di metri ci rende uguali. Lo sguardo non mente: a tutti ci rode pesantemente il culo. E’ una lotta di classe al contrario questa, dove tutti sgomitano per assicurarsi il posto peggiore dove tentare di abbronzarsi con le lampade a neon. 
Da qualche parte, invece, nello stesso momento, qualcuno si sta godendo una meritata brezza marina, che porta chissà da dove il dolce sogno di una vita passata a contemplare il moto eterno delle onde, dove la quotidianità  sembra una vignetta di Vauro e non la realtà implume con cui abbiamo deciso di condire l’attesa tra una vacanza e un’altra.
Poi mi metto in posa e scatto la foto che userò negli anni per ricordarmi questo periodo. Rivedendola sorriderò  pensando che ero molto più giovane, più magro, e che “quelli sì che erano bei tempi”. Perché i bei tempi sono sempre quelli già passati, raramente quelli che si stanno vivendo, quasi mai quelli che verranno, ma almeno a questi ultimi gli si può concedere il beneficio del dubbio.
E allora mi sedo, accendo una sigaretta e mi metto ad aspettare il futuro.
Sia mai che passi da queste parti.

 
 
 
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