NON E' UN BLOG

Come ogni cade turpio, ma non vacilla, forte al sole la gioventù, per questo, forse, prima che sia troppo ritorna al galoppo, non è il tramonto, giunto da Parigi, e mai più lo ha salutato. Adesso piange un mantello lungo di faggio, al quale non penso domani piova. Alzò la spada che agli irti colli piovigginando sale, il cane abbaiò e non morse. Proprio se fosse te lo dico se vuoi, magari in sordina, al rumbo del cha cha cha e vodka mellon, ma poi se il tempo passa e noi non siamo eroi, povera mamma con la sua valigia di cartone alla stazione salutarmi come se fosse gregge, tu, invece, tortellini, mezzo bianco e Novantesimo Minuto. Ti sembra facile, adesso che manca poco più di un fischio, ribaltare il risultato e far finta andato al mare con quel traffico sapor sudore e acqua minerale tiepida. Così prese il soprabito grigio fabergé, tremando al freddo di quella primavera gelida di Timbuctù, guardò per l’ultima volta la finestra ma non assomigliava a sua cugina, nemmeno di profilo, e tutti si stupivano perché la cugina torno bambino e sogno. E mi sveglio. Alle sette, il gallo canta tre volte perché è addestrato, mano a mano, paro paro, or ora, alla fuga preferisco l’inerzia sterzia futile alla fuliggine friggine, però solo perché rima ma molto meno di prima. I poeti non aiutano, il gallo è da abbattere prima a sinistra, dopo il mercato dove vede quel bidone verde, e poi le valli immense che ho sempre e solo visto nei documentari, a mezzanotte meno un quarto altro che vecchi tempi. Non badate alle apparenze: anche loro sono stati giovani come voi. E allora su le mani, hop, hop, a festeggiare corpo a corpo dentro l’acqua, melanzane che promettono tensioni muscolari a partire dalle tre del pomeriggio, il dottore non riceve per appuntamento. Sono un uomo di poche parole e quelle poche puzzano di piedi, di tanto andare scalzo con questo caldo.