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Il dolce profumo dell’asfalto appena steso

Post n°1398 pubblicato il 13 Aprile 2015 da non.sono.io

Poi, guardando la televisione, ho scoperto l’amore. Che bello l’amore. Lei gli fa: “Patrick ti amo come non ho mai amato nessuno”, e Patrick: “Baciami, stupida”. E lei lo bacia. E si amano. Chiudono gli occhi, sembrano concentrati su qualcosa che gli altri non possono vedere, e stanno bene. Per lo meno Jennifer e Patrick.
Sul mio pianeta, quando qualcuno si innamora vomita. Vedi una, ti piace, blurp. E’ un casino, e infatti nessuno si innamora più, anche perché sul mio pianeta innamorarsi è considerato come quando qui sulla Terra uno scorreggia in pubblico. Cioè, tu stai in un ascensore, la vicina di casa ti guarda con quegli occhioni così grandi, poi ti distrae con la scollatura, e tu ti senti così teneramente debole di fronte ai tuoi istinti che non puoi fare a meno di cedere. Ecco, è in quel momento che lo stomaco ti si ribalta e si finisce per espellere boli gelatinosi e verdi. Vi assicuro non è simpatico. Per questo le donne hanno preso a vestirsi integralmente, stando attente a non scoprire nemmeno una piccola parte della pelle per paura che qualcuno si innamori di loro. All’inizio non è stato facile andare in giro fasciati come una mummia per le donne del mio pianeta, ma quando la sera tornavano a casa e non puzzavano più di vomito si sono arrese all’evidenza del vantaggio provocato da questa precauzione.
Per questi motivi, io, per esempio, non mi sono mai innamorato. Mamma fin da piccolo, quando adocchiavo una ragazzina, iniziava a guardarmi storto come per dire: “Non vorrai mica farlo qui vero? Davanti a tutti?”. E io ero ubbidiente. Poi, che ne so, me ne sono scordato, di innamorarmi intendo. Con il tempo sono stato preso da altre cose, e l’idea di vomitare in faccia alle persone non mi attraeva come esperienza. Non dico che non mi accoppiavo, certo che lo facevo, ma io alla salute ci tengo.
Insomma, io a due come Jennifer e Patrick che chiudevano gli occhi con così tanto trasporto mentre si svuotavano, non li avevo mai visti e mi è venuta la curiosità. Come con le sigarette, la curiosità.
 A pensarci bene, io prima di venire qui non fumavo e non avevo curiosità per le cose, anzi non sapevo neppure cosa fosse la curiosità.
Iniziai a provare qualcosa di simile solo quando scoprii per la prima volta il dolce profumo dell’asfalto appena steso. Un giorno, mentre mi trovavo in perlustrazione a prendere appunti sullo svolgersi della vita umana, un sottile, dolcissimo profumo mi giunse al naso, inatteso come un ladro a rubarmi i pensieri. Era l’odore più sublime che avessi mai sentito, più coinvolgente di qualsiasi altro aroma mi era capitato di incontrare nel mio lungo passeggiare tra le vie terrestri e non.
 Istintivamente mi gettai alla ricerca della sua origine. Il vento portava con sé gli odori dei tubi di scappamento, delle fogne otturate dal fango, degli escrementi, dell’orina animale e umana, delle piante prossime alla morte, e persino dell’acqua stagnata. Ma tra tutti, quello che tanto mi impressionava, spiccava nobile, diverso, rendendo tutti gli altri odori inutili. Mi misi subito alla ricerca del punto esatto da dove proveniva quel profumo. E l’incontrai.
Alcuni operai a torso nudo, con la pelle bruciata dal sole e dalla fatica, lavoravano a riasfaltare una strada. Il primo agitava in una betoniera l’asfalto bollente e il secondo provvedeva a stenderlo con una pala. Ad ogni colata si dipanava in qualsiasi direzione un incredibile profumo che sembrava avere il potere di farmi sentire più leggero. Rimasi immobile ad aspirare ogni più piccola particella d’asfalto e proprio quando giacevo in estasi al cospetto di questa sensazione mai provata, mi scoprì commosso, sciolto in un sentimento che mi metteva a nudo una fragilità fino a quel momento sconosciuta. Crebbe così in me la convinzione che il profumo dell’asfalto appena steso, ancora bollente, fosse l’essenza stessa del pianeta, la sublimazione di tutto quello che di buono c’è nell’umanità, la prova che, anche con tutti i propri limiti, l’essere umano ha la capacità di produrre qualcosa che si erige ben al di sopra delle sue possibilità, molto più in là, in una direzione che si scioglieva nel sentimento che questo odore produceva in me stesso.
Da quel giorno la mia integrazione con gli umani aumentò e senza che me ne accorgessi, lentamente, esistere si fece più pesante, come tentare di camminare sulla sabbia. Ogni passo una fatica ingiustificata, ogni giorno la speranza di faticare meno. Io, prima, questo non lo capivo.
 Per comprendere la tristezza della condizione umana, prima bisogna provare a vivere come loro.
Forse i padroni del mondo, non sono umani.

 
 
 

L’ultima parola prima di un nuovo anno

Post n°1397 pubblicato il 09 Aprile 2015 da non.sono.io

Come l’ultima volta che vedi l’angolo della strada della vecchia casa, e su quel muretto c’era una scritta con la vernice, ma non ricordi cosa. L’ultima volta che osservi le scaglie di matita cadere da un temperamatite, dopo la ricreazione. L’ultima volta che vedi quel tizio che passava sempre lì a quell’ora, o quella modella sul cartellone tutte le mattine per la strada del ritorno. L’ultima volta che poi da quella volta in quel locale non ci sei andato più, come l’ultima volta che poi da quel giorno non l’hai pensata più. E l’ultima volta che le hai visto la schiena nuda, l’ultima prima dell’ultima sigaretta insieme. Pure l’ultima volta che hai composto quel numero, e l’ultima volta che ti sei ricordato del suo compleanno. L’ultima volta prima che le melanzane non le digerisci più, che l’ultimo sorso tanto non lo reggi più. L’ultimo ci vediamo prima di un addio, l’ultima battuta di una sera che è stata l’ultima che hai passato così. L’ultima volta che sei sceso a quella fermata, l’ultima volta che hai spento l’ultima sigaretta. Come l’ultima volta che ci hai provato e chissà sia stata proprio l’ultima. Come l’ultima parola prima di un nuovo anno.
Tutto inizia dopo l’ultima volta.

 
 
 

Burro e alici

Post n°1396 pubblicato il 08 Aprile 2015 da non.sono.io

Ci sono dei puntini sul soffitto e una linea scura, che posso vedere solo io, li unisce. La Voce che Parla alla mia Destra mi intima di alzarmi, quella che Parla alla Mia Sinistra dice che è inutile alzarsi se non ti aspetta nemmeno un abbraccio. Allora faccio proseguire la linea oltre la finestra, lascio che superi il giardino, poi i palazzi fino a quando arriva in un posto mai visto. La Voce che Parla alla Mia Sinistra dice che è qui che devo aspettare. C’è un tavolino di formica e una sedia vuota. Sul tavolo un piatto di pasta burro e alici, davanti una parete piena di puntini da unire.
La Voce che Parla alla mia Destra dice che dovrei mangiare prima che si freddi tutto, ma a me interessa l’opinione della pasta, per questo non mi muovo mentre lei non parla. Potremmo rimanere così in eterno, a guardarci, ognuno sperando che l’altro lo abbracci mentre tutto si fredda.
La Voce che Parla alla Mia Sinistra ripete che devo aspettare.
E nell’attesa conto tutti gli abbracci che non ho ricevuto.

 
 
 

Roncobilaccio

Post n°1395 pubblicato il 03 Aprile 2015 da non.sono.io

Il mattino questa mattina l’ha portato il vento. L’ha sollevato di peso da dietro le colline e senza troppi complimenti lo ha sbatacchiato un po’ su e un po’ giù facendolo rotolare oltre il Raccordo Anulare, fino quando non è andato a sbattere contro il vetro delle mie finestre, e allora mi sono svegliato prima della radiosveglia. Ma lei non se l’è presa. Con l’indolenza di una vecchia governante ha preso a raccontarmi di un non so quale rallentamento di traffico a Roncobilaccio. A Roncobilaccio c’è sempre traffico, la radio lo ripete spesso. Che io con il tempo ho preso ad immaginarmi Roncobilaccio come un incrocio in mezzo al nulla, dove tutto e tutti confluiscono in maniera caotica ma senza saperne il motivo. Chissà cosa c’è di così importante a Roncobilaccio da giustificare questa massa quotidiana di visitatori. D’altro canto su Atlantide sappiamo un sacco di cose, ma in che provincia sia Roncobilaccio è ancora un mistero per tutti quelli che non abitano a Roncobilaccio, e a volte dubitano pure loro di sapere dove si trovano.
Le notizie su Roncobilaccio mi hanno sollevato perché io non devo andare a Roncobilaccio, non devo temere le congestioni del traffico, né la sensazione di non sapere in che luogo sto fermo in mezzo a un mare di altre auto. Posso comodamente ignorare dove mi trovo seduto sulla tazza del bagno, fissando un muro in attesa mi risponda.
La sigaretta brucia riempiendo la mattina, alla quale ancora gira la testa, con un suono assordante di carta che incenerisce lentamente. Dura poco. Mi ritrovo in strada senza un vero perché, l’aria soffia veloce scapigliando le persone che si lasciando dondolare senza opporre resistenza, e io con loro a partecipare a questo ballo dei vuoti a perdere.
Poi passo sotto un albero, e un uccello mi caga sulla spalla.
Non ho fazzoletti con me, e l’idea di essere sporco di cacca mi fa venire i conati.  Quando provo a vedere dove sono stato colpito accidentalmente tocco il piccolo escremento semiliquido con una mano, e a quel punto il mio povero stomaco non regge: inizio a vomitare. Il vento dispettoso sparge la mia angoscia sulle persone che insieme a me assiepano la via, e che sembra non badino troppo agli schizzi color cappuccino con i quali sto decorando i loro abiti appena stirati. Passano muti guardandomi senza interesse fino a quando mi riprendo, mi siedo su un muretto e per pudore giro la testa verso un punto dove non c’è nulla da osservare.
Forse Roncobilaccio è da quella parte, penso.

 
 
 

Considerazioni e lamenti di un bevitore accanito di caffè

Post n°1394 pubblicato il 01 Aprile 2015 da non.sono.io

Il mondo si divide praticamente in due tipi di persone: quelli che smettono di bere caffè alle dieci di mattina perché dicono che poi non chiudono occhio la notte, e quelli che invece bevono dodici caffè al giorno, vantandosi di essere immuni alla caffeina, e poi sul serio non chiudono occhio. Io appartengo a questa seconda categoria.
Così la mattina mi sveglio stanco, assonnato, gli occhi impastati e le idee in subbuglio. “Ho bisogno assolutamente di un caffè”, penso, e il ciclo ricomincia. Verso le sei del pomeriggio la palpebra del mio occhio sinistro, quello più vicino al cuore e forse il più sensibile tra i due, inizia a tremare. Lo fa con discrezione, tentando di darmi il meno fastidio possibile, come una madre che aspetta sveglia il figlio tornare alle cinque di mattina e non lo rimprovera. Semplicemente lo sguarda con un’espressione di rammarico, sperando che basti questo a farlo rinsavire. Ma il ragazzo alza le spalle e le chiede chi glielo fa fare a restare in piedi fino a quell’ora. Così faccio io con la mia palpebra sinistra.
Diverso sarebbe se il cuore a un certo punto, comportandosi come un padre d’altri tempi, si incazzasse fino al punto di fermarsi, anche solo per un momento, che alzi la voce facendomi capire chi comanda. Ma, riflettendoci meglio, il cuore di un uomo si ferma per forza prima o poi. La questione è: vale la pena sacrificare il santo vizio del caffè solo per impedire una cosa che accadrà in tutti i casi? Sarà per colpa della mia immaturità, ma non ho mai saputo rispondere a questo genere di domande. Per questo fumo, mangio quello che voglio, bevo alcolici e caffè oltre la soglia consigliata da qualsiasi dottore, fosse anche un ginecologo, e quando qualcuno mi rimprovera tiro fuori uno di quei discorsi senza senso tipo che anche l’inquinamento uccide, però nessuno va a piedi. Diciamo che queste discussioni sono una specie di gara a chi ce l’ha più lungo, ma a parole, cioè senza che nessuno dei due si cali le braghe per verificare. La verità, alla fine, rimane appesa a un’opinione.
Il tremolio alla palpebra non è l’unico sintomo che mi provoca l’abuso di caffè. In generale sono molto più reattivo rispetto agli stimoli negativi esterni. Considerando che gli stimoli negativi sono praticamente gli unici che ricevo durante la giornata, questo fa di me una persona che in molti giudicano dotata di un brutto carattere. Naturalmente non è così. Semplicemente il caffè fa sì che la normale pazienza con la quale un uomo gestisce la placida imbecillità del mondo esterno, si riduce fino a raggiungere lo spessore di un foglio di carta sottile, facile da bucare anche da chi non esercita troppa pressione su di esso. Anche questa è una questione che non so se considerarla negativa. Voglio dire, è meglio subire la stronzaggine umana passivamente, o allontanarla con i modi che si merita senza rischiare di implodere? Certo, se fossi più maturo saprei cosa rispondere, ma nel mentre aspetto di diventare adulto preferisco lasciare libero il mio ego di mandare a fanculo chiunque lui giudichi di meritarselo.
Di tutti i disagi che soffre un bevitore accanito di caffè, però, sicuramente il peggiore è quello della difficoltà ad addormentarsi. Anche io temo quel momento, tutte le notti. Voi normali, cioè voi che smettete di bere caffè alle dieci di mattina, non lo sapete, non potete saperlo né immaginarvelo, ma esiste un mondo sconosciuto e terribile che si estende sui soffitti bui delle case di notte. Il corpo chiede disperato di essere spento, di avere un po’ di pietà di lui e di lasciare che muoia anche solo per poche ore. E invece si rimane lì, sdraiati, con gli occhi spalancati ad osservare un nero senza confine che parla, e che racconta cose orrende. C’è tutto il mio futuro sul tetto della mia stanza la notte, un futuro senza speranza, dove non ci sono possibilità di sopravvivenza ma solo promesse di angosce, fallimenti, disastri e sofferenze assortite. C’è tutto il riassunto di quello che ho fatto, o meglio, di quello che non ho fatto perché non sono stato in grado di farlo. Tutta la mia pochezza, tutti i rimpianti e i ricordi peggiori. A volte piango. Le lacrime mi cadono ai lati del viso, raggiungono il mento e formano un laghetto sul mio petto, che si agita scosso dallo sforzo di non farsi udire. Non sono mai riuscito a calcolare quanto dura questa fase. Il sonno poi arriva all’improvviso, senza sbadigli. Io non mi addormento: crollo. Finisco in un baratro profondo, senza sogni, che non ristora e non accoglie. E’ come la valvola di sicurezza di una macchina surriscaldata, che toglie la corrente per evitare che fonda, ma non ripara i danni di quel malfunzionamento.
Le mie mattine sono un lento verificare che tutti gli ingranaggi girino ancora senza intoppi, mentre dentro di me suona la sua nenia la grande orchestra del mal di testa.
Mi accendo una sigaretta, mentre preparo il caffè, promettendomi che quello sarà il primo e ultimo della giornata.
Sarà perché sono immaturo, ma mentre lo penso so già che dovrò condividere un’altra giornata con quella bugia.

 
 
 

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