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Post n°281 pubblicato il 22 Dicembre 2008 da theriddle
 

Mi hanno segnalato questo bellissimo articolo che vi invito a leggere. Ne vale veramente la pena


http://marcodellaluna.info/sito/?p=69
HANNAH ARENDT E LA VITTORIA DELLA LEGA NORD



“Soltanto la Lega esprime la comunità”, dice De Rita, il segretario generale del Censis, intervistato da La Padania del 1° Maggio “.

Hannah Arendt, la grande pensatrice ebraica (1906-1975), nota principalmente per i suoi studi sul totalitarismo e l’intolleranza, può fornirci una possibile chiave di lettura del grande successo della Lega Nord alle ultime elezioni, un successo che non sembra certo avere quelle caratteristiche di transitorietà e di semplice protesta entro cui molti hanno costantemente cercato di leggere il fenomeno leghista nel suo complesso.

Dal Ponente ligure, dove insegna storia e filosofia, Marco Cammi, un amico studioso della Ahrendt, mi ha fatto notare quanto corrispondente alla nostra realtà è divenuta la tesi formulata dalla pensatrice tedesca nel saggio del 1958 Vita Activa (vedi soprattutto il 2° capitolo) circa la fine della politica nell’epoca contemporanea, e quale sorprendente valore quest’opera stia rivelando per l’interpretazione di attuali trasformazioni politiche.

Secondo la Arendt, a seguito della rivoluzione industriale, è avvenuta un’inversione, rispetto alle origini della politica – rispetto alla polis greca il cui modello principale è Atene. Nella polis, il cittadino – polìtes – viveva in due àmbiti con proprietà opposte: l’ambito privato (idìa, in Greco), familiare-domestico (oikos), lo Haushalt (nel testo tedesco della Ahrendt), retto da rigide regole sacrali e consuetudinarie, regolato dalla gerarchia, e nel quale si producevano i beni e i servizi per il sostentamento (coltivazione, allevamento); e l’àmbito comune (koinòs), pubblico, politico (demosìa), del dibattito, delle idee, dell’espressione, della creatività e della trasformazione – il vero luogo della libertà (anche se riservato, ovviamente, ai cittadini maschi).

L’ambito familiare era il luogo della produzione dei beni, dominato dalla necessità di soddisfare le esigenze ed i bisogni della vita biologica, pratica, quotidiana; e sottoposto al totale controllo del capofamiglia – un luogo, in definitiva, privo di ogni forma di libertà., ma, soprattutto, privo di visibilità esterna. La produzione della ricchezza non era considerata di rilievo pubblico, né alcuno poteva acquisire dignità politica in quanto dotato di mezzi finanziari: la proprietà era importante solo perché garantiva al cittadino la libertà dal lavoro e lo rendeva disponibile alla politica.

 Oggi i rapporti fra la sfera del pubblico e del privato sono del tutto confusi, sono invertiti: l’àmbito familiare-domestico è divenuto estremamente fluido, anomico, libero, labile – la coppia, la famiglia, la solidarietà, il vincolo, oggi ci sono, domani chissà; i rapporti nascono e muoiono perlopiù per la ricerca del piacere e della convenienza.

Non più la famiglia è il centro della produzione dei beni, ma l’intera società, che è venuta via via assumendo i caratteri di non libertà e di gerarchizzazione rigida dei poteri e dei controlli, che un tempo, appunto, caratterizzavano la famiglia. Le norme, i diritti e i doveri familiari, sono prevalentemente ridotti a oggetto di ricordo e, non di rado, di nostalgie passatiste. Per contro, l’àmbito pubblico è estremamente codificato, i valori, i paradigmi, i metodi sono meticolosamente prescritti da leggi, costituzioni, miti  storici (vedi quelli circa la Resistenza o il Risorgimento, in quanto all’Italia). La creatività e il dibattito di fondo sono smorzati se non soffocati. La politica, nel sociale, è sostituita dal kollektiver Haushalt, dall’economia politica e sociale: è degradata a ricerca, cioè, non di cause ultime e fini, ma di mezzi per arrivare a fini dogmaticamente prefissati – essenzialmente, alla massimizzazione della produttività come valore finale e del consumo, che è il motore di un tipo di produzione che non mira al bene durevole, come accadeva per la produzione artigianale – quella che la Ahrendt definisce tipica dell’homo faber – ma all’immissione sul mercato di prodotti che hanno il solo scopo di scomparire al più presto, per lasciare il posto ad altri destinati alla medesima fine e ad alimentare in tal modo l’intero processo.

 La politica, per contro, quella vera e non quella che si riduce ad attività ragionieristiche, è sempre più lontana dalla gente, sempre più sottratta (anche attraverso la costruzione delle istituzioni comunitarie europee) ad organismi rappresentativi della gente, sempre più appannaggio di pochi professionisti, e di riservati salotti di poteri forti, magari esteri, con cui non è possibile un’interazione.

Governo distale, distant rulership tecnocratico-monpopolistica – la cui principale cura diviene, quindi, naturalmente, l’assicurarsi la stabilità ed efficacia del proprio potere: la governance, o meglio la dominance, soprattutto attraverso l’uso di leve e poteri economici, giuridici e massmediatici, cui ho dedicato i recenti saggi Euroschiavi (Ed.Arianna, Basta con questa Italia (Ed. Arianna) e Polli da Spennare (Ed. Nexus). Col che il capovolgimento della polis democratica è totale.

Orbene, rispetto a questa situazione di asfissia e impoverimento della politica, di compressione dei bisogni di vita politica dell’uomo, la Lega Nord ha palesemente operato una rottura liberatoria. Ha rotto e continua a rompere  una serie di regole, a partire da quelle tipiche del linguaggio politicamente corretto, e di dogmi che imbrigliano e vanificano l’essere politico dell’uomo, il suo potersi realizzare politicamente – homo est naturaliter politicus, id est socialis (Tommaso d’Aquino) – iniziando col falso propagandistico del Risorgimento e col falso dogma-valore dell’unità d’Italia[1]. Regole che dettano artefatte contrapposizioni di classe, di categorie, di identità, per nascondere quelle vere. Regole che dettano i clichés del pensare, il politically correct, imprigionando la proposta e la circolazione delle idee, ma anche la loro produzione. Ha ristabilito il dialogo diretto tra base e capi: tutti possono approcciare direttamente i loro leaders. Ha ristabilito un dialogo sulle cose pratiche, liberando la politica dalla gabbia fumosa e inconcludente delle ideologie, che spesso si sono configurate come la scimmiottatura di una vera e consapevole partecipazione politica, sostituendo lo slogan gridato alla riflessione critica pensata.

La Lega, anche se non sempre con piena consapevolezza, fiutando soprattutto gli umori istintivi di una popolazione malcontenta, quando non esasperata,  e spazzando via le ideologie e divisioni ideologiche spesso alimentate da interessi elettorali o dalla difesa di rendite di posizione,  ha permesso ai cittadini di riconoscere gli interessi concreti che li accomunano nel mondo reale, e la falsità delle divisioni strumentali imposte tradizionalmente per governarli.

Si tratta di un processo che, forse, è lievitato su se stesso, senza che alcuno lo avesse compiutamente previsto e determinato, ma che, in ogni caso, consente ad ognuno di sentirsi partecipe della costruzione del bene comune – bene comune che, come dice De Rita,  non coincide contabilmente col p.i.l..

E’ per questo che riesce ad aggregare indifferentemente lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti, operai e contadini. In effetti, le categorie produttive reali hanno interessi convergenti, e contrapposti a quelli delle categorie parassitarie, ossia dei monopolisti, dei cartellisti, dei finanzieri, dei renditieri, dei burocrati, degli ‘accastati’ (cioè figli di qualche casta) – di tutti i soggetti che beneficiano di protezioni contro la concorrenza pagate dalle categorie produttive.

Basta partecipare una volta alle riunioni di massa promosse dalla Lega per rendersi conto che tutte quelle persone non sono lì solo per il conto in banca e che, in molti casi, questo non è neppure il motivo primario del loro partecipare. Sono lì perché si riconoscono vive in un’identità comune alla quale ciascuno sente di poter aggiungere qualcosa.

E con ciò la Lega ha permesso a tutti, anche ai suoi avversari, un grande recupero di realtà: ora, nella politica, si può ritornare a parlare apertamente, senza pudori indotti, degli interessi, dei propri interessi, intendendo questa parola nel senso più ampio e non, come vorrebbero certi fini analisti e illustri cattedratici, nel senso riduttivamente egoistico del farsi gli affari propri a danno degli altri.

Si può tornare a parlare delle contrapposizioni vere, e non ideologiche, di interessi reali. Interessi dei lavoratori contro interessi dei parassiti. Interessi del Nord produttivo – e più in generale di chi è comunque produttivo – contro gli interessi dei burocrati romani e dei mantenuti, siano essi del Sud o di qualsiasi altra regione d’Italia – magari  della ventunesima: Regalopoli.

 Federalismo fiscale: ciascuno deve amministrarsi bene e liquidare la sua classe dirigente ladra e mafiosa, prima di pretendere di essere mantenuto dal lavoro degli altri. Interessi dei cittadini contro interessi dell’immigrazione selvaggia. Interesse della gente per bene contro interesse dei criminali. Interesse degli Italiani contro interesse del capitale dei paesi ‘amici,’ che stanno colonizzando l’Italia sotto il pretesto dell’Europa e del libero mercato, che tutto è tranne che libero. Dire pane al pane e vino al vino. Mettere in questione Schengen e l’ideologia mercatista. Rifiutare le spiegazioni pseudo-filosofiche e moralistiche, o peggio buonistiche, di scelte politiche che hanno invece bassi fini di potere e di arricchimento, come quelle per i bombardamenti all’uranio della Serbia e l’invasione dell’Iraq coi pretesti della democratizzazione e delle inesistenti armi di distruzione di massa o della pure inesistente connessione con Al Queida. Il buonismo ipocrita è uno dei falsi principi con cui il potere fa passare molte sue decisioni sulla testa e sulla pelle della gente. Esso copre la spietatezza di molte di queste decisioni, e il grande male collettivo che esse cagionano. Copre la freddezza dei meccanismi di profitto che regolano la società e l’attività del potere politico.

Ma la Lega ha ancora ampi margini di manovra e ampie vie di avanzata, perché i dogmi e le chimere da liquidare non sono certamente esauriti.

 

Il prossimo, che si delinea, come perfetto bersaglio per l’azione demistificante della Lega, nel doloroso disfacimento del mito della globalizzazione, è il (libero) mercato. Il libero mercato è assunto come legittimante le scelte di economia politica in quanto, e specificamente in quanto, è il modello che, secondo la teoria economica prevalente, in modo naturale, realizza la più razionale allocazione delle risorse e il miglior impiego dei fattori produttivi, quindi il massimo benessere possibile e realizzabile. Ma nel mondo reale non esiste un libero mercato. Esiste un mercato non libero, ma al contrario dominato da monopoli, cartelli (Opec, cartello del credito e della moneta, cartello dell’energia, delle materie prime, degli ogm), asimmetrie, interferenze politiche, opacità. Quindi il mercato che esiste, essendo un mercato non libero, non realizza affatto la più efficiente possibile allocazione delle risorse e la massima produzione possibile di beni e di benessere. Produce soprattutto rendite di monopolio e di cartello e privilegi e dominio del profitto sulla politica, sui parlamenti e sui governi (pseudo-democratici), che vengono usati per consolidare le posizioni di privilegio attraverso l’attività legislativa e, naturalmente, la giustificazione mendace che si tratta di norme richieste dal “libero mercato”: libera volpe in libero pollaio.

 

Ma dopo il dogma del libero mercato, a quale mito, a quale mistificazione toccherà? Quale sarà il limite al processo di demistificazione, invalicabile anche per la Lega? Reputo verosimile che il limite, o perlomeno la grande sfida in grado di mutare lo stesso dna dello sfidante, sarà il mito della democrazia o, per dire meglio, di ciò che si intende oggi comunemente con questa parola.

Nel mondo reale, sia la democrazia rappresentativa che il libero mercato non esistono, non sono mai esistiti e non possono esistere, come ben sanno tutti gli studiosi di psicologia politica e di economia politica. Il fatto, però, che la gente può essere portata a credere nell’una e nell’altro, è uno strumento usato per governare la gente, per farle credere che il potere sia legittimo, di essere essa stessa responsabile degli atti del potere, e per farle accettare determinate decisioni.

La democrazia rappresentativa è irrealizzabile per una serie di ragioni, che ho illustrate nei succitati saggi. Qui basti ricordare che la quasi totalità della gente non sa quasi nulla dei problemi reali e delle materie fondamentali su cui la democrazia formale la chiama a decidere o delegare (non sa nulla di economia, di tecnologia, di scienza, di strategia; ignora le leggi fondamentali dello stato; le informazioni e le decisioni più delicate sono inoltre tenute segrete); ancora peggio vanno le cose per il fatto che i candidati vengono scelti (anche da prima del Porcellum e delle liste bloccate) dalle segreterie dei partiti politici e per il fatto che, come si è visto troppo spesso, la classe politica è formata da persone di basso livello, che raccolgono i voti con promesse di livello ancor più basso.

Per tutti questi motivi, la gente non è in grado di fare valutazioni collegate alla realtà (può però credere, e di fatto crede, di farle). Il potere reale è detenuto da soggetti defilati dietro le istituzioni ufficiali, distanti, politicamente irresponsabili – soggetti coincidenti con i monopoli e con i cartelli della moneta, delle materie prime, dell’informazione, etc.: che sono i proprietari del mercato. La democrazia è dunque una chimera. Ma come si può dissolvere anche questa chimera, senza perdere la possibilità di governare la gente, o perlomeno di governarla in un modo radicalmente diverso a quello cui, per oltre un secolo, la gente stessa è stata abituata?

Forse, anche su questo punto, uno stimolo può ancora venire dal pensiero della Ahrendt, quando, concludendo quella sua straordinaria opera di riflessione politica, invocava la salvezza nel pensiero, ma non nel pensiero dei professionisti, dei filosofi o degli scienziati chiusi nelle loro torri d’avorio, bensì in quello degli uomini liberi,  e sia pur ammettendo che essi sono stati sempre pochi, diceva: «Forse non è presunzione credere che questi pochi sono ancora numerosi nel nostro tempo».

Bene, il trovarsi assieme per cercare di essere se stessi e di parlarsi senza l’ingessatura delle ideologie e delle separazioni sociali create ad arte, è un grande stimolo alla libertà e può servire al recupero della politica nel senso migliore del termine, quella che nell’antica Grecia si svolgeva nell’agorà. Se la Lega saprà ridarci l’agorà, la piazza come luogo di incontro e confronto reale fra le persone, avrà dato inizio alla nascita di una nuova modernità, finalmente capace di scindere il prodotto dal produttore e di rendersi conto che questi è, prima di tutto, un uomo.

Mantova, 5 Maggio 2008

Marco Della Luna

 
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