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Censis
Post n°1516 pubblicato il 11 Dicembre 2013 da deosoe
De Rita, Censis: «Laddove c’è il blocco della dinamica sociale, c’è il germe dell’infelicità» Come ogni anno, a dicembre, all’Italia viene consegnato il suo “referto” socioeconomico. Le «Considerazioni generali» del 47° Rapporto Censis sulla nostra situazione sociale, quest’anno, ci dicono che siamo una società “sciapa ed infelice”. Il presidente dell’istituto, Giuseppe De Rita, ogni anno cerca di inquadrare la nostra situazione usando due aggettivi: nel 2010 siamo stati un’Italia “apatica e depressa”, un Paese privo di entisiamo, senza speranza verso il futuro, nel quale erano sempre più evidenti, sia a livello di massa che a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Italiani condannati al presente, senza slancio né speranza verso il futuro, vittime di fittizi «desideri mai desiderati», come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico». Insomma, una società sospesa e pericolosamente identificata dalla paura del vuoto, dell’incertezza. L’anno successivo siamo stati, invece, italiani “violenti e depressi”. Ancora depressione. Il 2011è stato l’anno del boom dei network, e questa esplosione di virtualità ha destabilizzato il nostro rapporto con la quotidianità, nel modo di pensare e di agire, ci ha fatto uscire fuori dalla realtà e da noi stessi. Una pericolosa destabilizzazione, che ha fatto dell’anno 2011 l’anno degli antidepressivi. Sono aumentati l’impulso alla violenza, la pulsione a una relazionalità virtuale e, di contro, scesi in picchiata i riferimenti ai valori e agli ideali. Contro la crisi dell’autorità, il declino del desiderio, la riduzione del controllo sulle pulsioni, il Censis ci raccomandò di «tornare a desiderare». Nobile consiglio, ma l’anno successivo si scoprì che il desiderio non serviva a molto, l’Italia, secondo il Censis, nel 2012 era “più povera e arrabbiata”. Desiderare un futuro migliore ha finito per diventare una formula di scongiuro contro la maledizione di una crisi che non solo non accennava a frenare la sua corsa ma, anzi, minacciava di peggiorare. E così è stato. Il 2011 si è chiuso con la Riforma Fornero, aprendo le porte a una pessima annata. Il 2012 è stato l’anno della crisi. Una crisi peggiore delle altre, “perfida“, la definì il Censis nel “referto” 2012. Ci hanno costretto a ingoiare parole amare come spread e default, che hanno travolto la nostra vita, le nostre certezze. Nella lotta alla sopravvivenza gli italiani hanno reagito trincerandosi nella fromula “risparmio-rinuncia-rinvio”, chiamate dal Censis le tre “r”. E lo spirito con cui l’Italia si è chiusa in questa resistenza, in questa “restanza” – termine preso in prestito dal filosofo Jacques Derrida – è stato: la rabbia. Rabbia verso la crisi della classe politica, indicata come la causa principale del disastro. Il “governo tecnico”, venuto a galla l’anno precedente, come un sottomarino militare, per salvarci dalla crisi del governo Berlusconi IV – il Cavaliere aveva dato le dimessioni il 12 novembre 2011 -, si è rivelato una toppa peggiore del buco e ha finito per peggiorare la crisi economica: famiglie stremate, licenziamenti, fuga dei cervelli, aumento della povertà, crisi del ceto medio, cassintegrati, esodati, disoccupati, ecc. Insomma, uno scenario apocalittico, che ancora oggi non cessa di inquietare e generare mostri di fantasmi futuri, per ciò che dovrà ancora accadere. Ma come sono gli italiani alla fine di questo anno? Come abbiamo già detto sopra, nel “referto” 2013 siamo un’Italia “sciapa ed infelice”. Siamo “sciapi”, perchè ci manca il fervore. Il presidente De Rita, usando una metafora alchemica, ha parlato del “fervore del sale”: «il fervore del sale secondo gli alchimisti crea il mutamento degli elementi, se non c’è il fervore del sale l’elemento non si trasforma, non cambia». Siamo una società sciapa perchè manca questo elemento, essenziale al cambiamento. Ma è difficile cambiare quando mancano i presupposti. È inutile condire una portata se il piatto è vuoto. È illogico parlare di fervore se solo nei primi due mesi di quest’anno, nel settore del commercio, si sono polverizzati tremila posti di lavoro. È difficile parlare di fervore se chiudono mille imprese al giorno, se una famiglia su due non arriva a fine mese, mentre Letta, con un sorriso tra in bonario e l’infingardo, parla di crescita, ripresa, di riforme e di segnali positivi. Ma non è così. Secondo un recente sondaggio dell’associazione romana Confesercenti, nel 2013 l’87% degli italiani ha tagliato la spesa. Il 5% in più rispetto al 2012 e addirittura il 18% in più rispetto al 2010. La crisi economica ci sta deteriorando come un cadavere in decomposizione, come si può essere positivi? Siamo condannati senza appello a una triste sopravvivenza a tempo indeterminato, con vaghi margini di resistenza per il futuro. Secondo i dati dell’Istat, ladisoccupazione giovanile avrebbe raggiunto il suo record storico, fissandosi al 41,2%. Una situazione talmente tragica che due milioni di discoccupati non cercano nemmeno più lavoro. A fare da tampone a questa situazione ci sarebbe il sostegno degli immigrati. Coloro che, alle volte, guardiamo con scetticismo. Gli imprenditori extracomunitari che lavorano in Italia sono379.584 e cioè il 16,5% in più negli ultimi tre anni. Secondo un sondaggio condotto dal Club dell’Economia, in collaborazione con il Censis, i cinque milioni di stranieri che oggi operano e vivono in Italia, hanno, infatti, trovato nel nostro Paese opportunità che hanno saputo cogliere più e meglio di tanta parte degli italiani, aiutando a muovere la nostra economia. Tra i dati allarmanti, invece: quasi la metà dei pensionati ha una pensione inferiore ai 1000 euro, mentre il 14,3% del totale non arriva neanche a 500 euro. Per non parlare del numero di persone che fugge all’estero: il 2013 ha registrato un aumento dei trasferimenti all’estero del 28%. A quanto sembra, in piena crisi, vince chi fugge. E mentre famiglie, imprese, aziende, giovani, anziani stanno tirando la cinghia per la lotta alla sopravvivenza, la classe politica si crogiola nella formula delle “larghe intese” per legittimare la loro presenza-assenza contro l’anatema del baratro. Proprio sulla questione della classe politica, il presidente De Rita si è espresso in maniera molto netta, giudicando questo atteggiamento come regressivo parlando di “reinfetazione”, affidandosi – come usa spesso fare – al linguaggio psicoanalitico: «Abbiamo tentato di calmare il mare e in Italia lo abbiamo fatto con un meccanismo politicamente corretto, ma sociologicamente e sociopoliticamente scorretto: abbiamo “reinfetato” il conflitto politico». E quando sarebbe avvenuto ciò? «Quando– continua De Rita – siamo “reinfetati” nel presidente della Repubblica. [...] La reinfetazione è una riduzione, una regressione delle energie, è un rifiuto del conflitto, non si diventa da bambini ad adulti se regredisci e ti reinfeti nella Grande Mamma. E noi l’abbiamo fatto. Abbiamno calmato il mare e ci siamo reinfetati». La regressione politica ha tirato con sé anche il resto del Paese, è per questo che siamo sciapi, senza sapore, frustrati, infelici. «Siamo infelici per la nostra collocazione sociale ferma» – conclude De Rita – «Laddove c’è il blocco della dinamica sociale, c’è il germe dell’infelicità». |
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