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I vantaggi dell'unità d'Italia

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Messaggi di Aprile 2015

L'UNITA' CHE SI FECE CON 10 ANNI di GUERRA CIVILE !

Post n°2349 pubblicato il 29 Aprile 2015 da luger2
 

Una guerra civile feroce durata dieci anni (1860-1870) contro degli occupanti che parlavano francese o il dialetto piemontese e che arrivarono nel Sud, con modi di pensare lontanissimi tali da essere incomprensibili. Terra e libertà aveva promesso Garibaldi per i contadini del Sud senza il cui concorso la folle impresa dei Mille sarebbe naufragata in un bagno di sangue, laggiù in Sicilia. I primi editti del generalissimo abolirono l’imposta del macinato, soppressero il dazio, stabilirono le prime divisioni delle terre demaniali, e ripristinarono degli usi civici usurpati. Fu un momento che illuse le attese e le speranze di un futuro migliore per le classi subalterne del Sud. Ma presto le cose cambiarono mostrando il loro vero volto: con il massacro di Bronte, e la repressione di Bixio, con l’uccisione dei rivoltosi contro le prepotenze secolari dei latifondisti e lo scenario divenne più chiaro. “Occorre che tutto cambi, affinché nulla cambi” disse il protagonista de “Il Gattopardo”. La scelta era stata fatta, in difesa della proprietà e dell’ordine sociale nelle campagne e fu quasi una guerra. Dopo il crollo improvviso della dinastia borbonica, il nuovo Stato unitario dei Savoia si trovò a dover fronteggiare un movimento di rivolta che sfociò nella lotta armata, che venne represso con una durezza eccezionale, esagerata ed indiscriminata, forma violenta di una lotta di classe, che colpiva la classe più vilipesa e sfruttata della società meridionale, quella dei “cafoni” che a loro volta insorgevano contro l’oppressione e la miseria. Il volto del nuovo Stato si presentò con la circoscrizione obbligatoria, con lo stato d’assedio, i tribunali militari, le fucilazioni sommarie per i briganti, il domicilio coatto; il Mezzogiorno divenne un problema di ordine pubblico, trattato come la terra di conquista del Piemonte. Il generale Pinelli aveva già applicato nell’aquilano la fucilazione a chi avesse “con parole o con denaro o con altri mezzi eccitato i villici ad insorgere,” e “a coloro che con parole, od atti insultassero lo stemma dei Savoia, il ritratto del re, o la bandiera Nazionale”. Scrive Denis Mack Smith, storico liberale inglese nelle sua famosa Storia d’Italia: “I contadini trovati in possesso di armi erano fucilati sul posto e i soldati fatti prigionieri erano a volte legati a un albero e arsi vivi; altri erano crocifissi e mutilati. La legge della giungla trionfava e i soldati erano spinti per rappresaglia ad analoghi eccessi. Non veniva dato quartiere, ma al terrore si rispondeva con il terrore.
Degli uomini erano fucilati per dei semplici sospetti, intere famiglie punite per le azioni di uno dei loro membri, villaggi saccheggiati e incendiati per aver dato rifugio a dei banditi.” La repressione terroristica dell’esercito verso i “cafoni”, (“la più grande canaglia dell’ultimo ceto” li definì il generale Solaroli, aiutante di campo di Vittorio Emanuele) toccò punte di inaudita ferocia con l’eccidio di Casalduni e Pontelandolfo nel beneventano, con metodi così sanguinari che il professor Francesco Barra in “Il brigantaggio in Campania” parla di “un autentico e orrendo pogrom”. Le cifre di questa guerra civile ancora oggi fanno rabbrividire. Il numero dei caduti fu superiore a quello dei caduti di tutte le altre guerre del Risorgimento messe insieme. Secondo le stime del Molfese risulta che i guerriglieri nel quinquennio 1861-1865 caduti in combattimento o fucilati furono 5.212, il totale di “briganti posti fuori combattimento” di 13.853.
Molti di quelli che saranno poi i più temuti capobriganti, Carmine Donatelli Crocco, lo Zapata italiano, parteciparono al processo di unificazione per poi ritrovarsi dall’altra parte della barricata, tra le fila della reazione sanfedista e legittimista, prendendo in prestito la coccarda rossa e le bandiere bianche dei Borbone. Li definirono con il marchio infamante di BRIGANTI. Nel 1865, in Basilicata, in Puglia e in Calabria il grande brigantaggio a cavallo, al comando di Crocco, Borjès, Ninco-Nanco, Coppa, Tortora, Sacchitiello che minacciava le fondamenta stesse del nuovo Stato unitario, veniva sconfitto con la cattura, la resa e l’uccisione dei capi, con il sistema della “terra bruciata”. Una resistenza disperata e senza prospettive, repressa con leggi violente (la “legge Pica fece della repressione più rigorosa non una misura eccezionale, ma la regola sanzionata dal diritto”) e con una mobilitazione di uomini e mezzi mai vista prima che raggiunse l’acme nel 1863 quando furono concentrati nel Sud 120.000 soldati, quasi la metà dell’intero esercito. Lo stratega della sconfitta del brigantaggio in Basilicata e nel Beneventano fu il generale Emilio Pallavicini di Priola che si servì della collaborazione di uno dei luogotenenti più fidati di Crocco nel Melfese, Giuseppe Caruso di Atella, il primo “pentito” d’Italia. Caruso si era costituito nel settembre del 1863; in cambio della libertà divenne una guida dell’esercito; profondo conoscitore dei luoghi e dei nascondigli più segreti, consentì di scovare e distruggere molte bande armate e minacciò di catturare lo stesso Crocco. Grazie alla raccomandazione del Pallavicini per i servizi resi venne poi assunto come brigadiere delle guardie forestali di Monticchio. Il contributo fondamentale del traditore Giuseppe Caruso, una sorta di Pat Garrett, è stato volutamente sottovalutato dalla storiografia di parte liberale. L’ex vaccaro dei Fortunato fu anche l’artefice della distruzione avvenuta nel 1867 nel bosco di Bucito, in Basilicata, di una delle bande più agguerrite del picentino, quella di Luigi Cerino di Gauro che operava per lo più nel vasto massiccio montuoso dei Picentini e degli Alburni. Per l’uccisione di Cerino, a Caruso il governo assegnò una pensione di 100 lire al mese, somma rilevante per quegli anni. Nel Picentino, fra queste montagne a cavallo di due province, nelle folte ed impervie boscaglie e nelle grotte naturali, alla macchia operarono una costellazione di piccole-medie bande appiedate, che raramente superavano i 20 componenti, guidate da abili e spietati capi, estremamente mobili, conoscitori perfetti dei luoghi e di ogni più impenetrabile recesso, capaci di lunghe e durissime marce, di giorno e di notte, d’inverno o d‘estate. Una vita senza respiro. Appesa ad un filo. Erano pastori, contadini, braccianti, carbonai analfabeti, renitenti alla leva o disertori, sbandati del disciolto esercito borbonico, semplici avventurieri alla ricerca di bottini e di vendette personali contro i “galantuomini”. Compirono numerosi ricatti e sequestri di persona, vendette contro i proprietari terrieri, le autorità municipali e i membri delle guardie nazionali. Una fitta rete di appoggi, di complicità e connivenze, nelle montagne e nei paesi, li teneva al riparo dalle perlustrazioni delle truppe. La cosiddetta “polizia dei briganti” impressionò anche i membri della commissione d’inchiesta presieduta dal Massari. Nel 1870 il brigantaggio, poteva dirsi completamente sconfitto. Antonino Maratea (Ciardullo) capobrigante di Campagna era stato fucilato nella piazza principale del suo paese il 1 dicembre 1865, insieme al ferocissimo ladro e assassino Carmine Amendola di Giffoni, detto il Pestatore. Prima di lui era stato ucciso nel bosco di Persano il 24 novembre 1864 Gaetano Tranchella di Serre. La banda Scarapecchia era stata decimata e dispersa nei pressi del fiume Sele, quella del terribile Francesco Cianci (Cicco Ciancio) di Montella nel novembre del 1866 a Calavello nel comune di Lioni. A Castiglione del Genovesi il 28 maggio del 1869 venne ucciso, in uno scontro con la guardia nazionale di Castiglione e San Cipriano Picentino, Andrea Ferrigno, uno dei più noti capo banda del picentino. Il montellese Ferdinando Pica perse la vita in un duello rusticano sui monti di Solofra per mano del compaesano Alfonso Carbone. L’intera banda Carbone si costituì a Montella il 5 settembre 1869. Poi fu la volta di Manfra, Gatto, Marcantuono, Parra e Boffa mentre il cadavere putrefatto di Nicola Marino era stato identificato sul monte Bulgheria, nel territorio di Torre Orsaia. Il brigantaggio non aveva però ancora chiuso la sua pagina di storia. Si protrasse addirittura fino al 1873 quando fu ucciso a Flumeri (Av) l’ultimo protagonista dell’epopea del brigantaggio, il celebre capo-banda Gaetano Manzo di Acerno. La vita avventurosa e fuorilegge di Manzo è notissima dopo le descrizioni particolareggiate che hanno fornito le sue stesse vittime. Umile pastore di Acerno, sperduto paese del salernitano al confine con l’avellinese, Manzo renitente alla leva, si aggregò dapprima alla banda di Ciardullo per poi formare una propria banda autonoma, forte di quindici briganti, il cui nucleo centrale era costituito da suoi compaesani di Acerno. Per trovare i complici e i manutengoli e catturare la banda Manzo si utilizzavano senza scrupolo anche sistemi illegali. Un solo esempio per tutti: un certo Salvatore Caputo fu arrestato dai Carabinieri mentre si trovava nelle campagne di Prepezzano “in altitudine sospetta”. Proprio così: ”altitudine sospetta” è scritto nel rapporto datato 7 luglio 1872 e firmato dal Maggiore Enrico De Rogatis. Negli anni ’70 malgrado il vento sia cambiato e il brigantaggio sta scrivendo gli ultimi cruenti episodi di un movimento in estinzione, le tre o quattro piccole bande che ancora sopravvivono nell’area dei picentini possono ancora fruire del sostegno dell’ambiente contadino e bracciantile. Il fenomeno del “manutengolismo” così diffuso durante il brigantaggio post-unitario nasceva dalla miseria e rappresentava l’unico mezzo per cambiare la propria vita di “dannati della terra” e combattere i soprusi, gli inganni, lo sfruttamento condividendo “la mortale avventura del brigantaggio. E‘ interessante per inquadrare gli ultimi anni del brigantaggio riportare ciò che scrive il Molfese.” Contrariamente all’opinione dei pochi scrittori sul brigantaggio post-unitario che hanno trattato anche dei fatti svoltisi dopo il 1864, e che tutti indistintamente ne hanno considerato la fase finale affrettatamente e con superficialità, coinvolgendo il brigantaggio di quel periodo in un solo giudizio negativo che lo raffigura come una manifestazione di criminalità comune in continuo declino, l’esame del lungo periodo che va dalla sconfitta del grande brigantaggio fino alla fine ufficialmente riconosciuta del brigantaggio meridionale (1870), riserva non poche sorprese a chi voglia approfondire meglio le cose. Intanto, in quegli anni seguita ad essere evidente il carattere <policentrico> del brigantaggio, che persiste ostinato nell’Abruzzo chietino, nell’Abruzzo aquilano e in Terra di Lavoro, nel Salernitano, nel Lagonegrese, e infine in Calabria, senza collegamenti apprezzabili tra le varie aree. In questi diversi centri il brigantaggio conserva ancora a lungo la virulenza dei primi anni e specialmente in Abruzzo e in Terra di Lavoro si può parlare di un grosso brigantaggio, condotto, cioè, da molte bande formate di numerosi elementi che non si limitano a praticare soltanto i ricatti e le distruzioni di proprietà a danno della borghesia agraria, ma affrontano incessantemente le forze repressive. Nelle regioni che ufficialmente si considerano <pacificate> (Puglia, Molise, Beneventano, Basilicata, Irpinia), la sicurezza pubblica nelle campagne e lungo le vie di comunicazione lascia sempre a desiderare. Riappaiono continuamente piccole bande a compiere rapine e ricatti. Il fuoco sembra covare sotto le ceneri. Interessanti risultano anche le annotazioni sul nuovo, dinamico metodo della <persecuzione incessante> inaugurato dal generale Pallavicini nel Beneventano che come era stato designato, dopo la defenestrazione del Conte di San Elena, per distruggere la banda Manzo installando il suo quartier generale nel comune di Montecorvino Rovella. “Pallavicini ricercava sempre la chiave del successo oltre che nell’azione militare, in due altri fattori: la collaborazione delle municipalità e delle guardie nazionali (che gli altri comandanti militari difficilmente sollecitavano o sapevano guadagnarsi), e la persecuzione dei manutengoli condotta con ogni espediente,anche a rischio di provocare conflitti con l’autorità giudiziaria. Questo metodo era divenuto sempre più efficace quanto più era andata crescendo la forza delle autorità statali con il conseguente isolamento dei briganti”. Il capo banda Tortora esclamò al suo processo:“ I Ladri sono i galantuomini delle città, e primi i concittadini miei, ed uccidendoli non fò loro che la giustizia che meritano; se tutti i cafoni conoscessero il loro meglio non si avrebbe a restare in vita per uno”.
"I briganti difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati. Per loro sventura si trovarono ad essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro; a difendere la causa cattiva, e furono sterminati. Ma, col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell’altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta: perciò, istintivamente,i contadini vedono nei briganti i loro eroi. La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono sempre, per forza, delle disperate sconfitte; ma essa continua tuttavia, eternamente, la sua vita, e dà ai vincitori i frutti della terra, ed impone le sue misure, i suoi dèi terrestri, e il suo linguaggio". (Carlo Levi, da "Cristo si è fermato a Eboli")

foto di UN Popolo Distrutto.
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I DELUSI DELL'UNITA'

Post n°2348 pubblicato il 10 Aprile 2015 da luger2
 
Foto di luger2

All'indomani dell'unità, molte delle aspettative generate dalla spedizione dei mille furono deluse dallo stato unitario appena formatosi. Nelle Due Sicilie i contadini e gli strati più poveri della popolazione, dopo aver inizialmente creduto che con Garibaldi le condizioni di vita sarebbero migliorate, si ritrovarono, invece, ad affrontare maggiori tasse e la coscrizione (servizio di leva) obbligatoria, con una conseguente diminuzione delle braccia in grado di sostenere una famiglia.«Tutt’altra Italia io sognavo nella mia vita, non questa miserabile all’interno e umiliata all’estero e in preda alla parte peggiore della nazione».Ne I Malavoglia di Giovanni Verga appare chiara la disillusione, seguita da una cocente delusione, della popolazione di fronte alla nuova Italia unita, attraverso i racconti della lunga coscrizione del giovane 'Ntoni, la morte del giovane Luca nella battaglia di Lissa e le nuove tasse. La cocente delusione di chi sperava che l'unità d'Italia avrebbe cambiato le sorti del Sud è ben raccontata anche nel romanzo di Anna Banti, "Noi credevamo". Nel meridione continentale questo malcontento popolare sfociò nel movimento di resistenza definito brigantaggio.Così scriveva in proposito Verdi il 16 giugno 1867 :“Cosa faranno i nostri uomini di Stato? Coglionerie sopra coglionerie! Ci vuol altro che mettere delle imposte sul sale e sul macinato e rendere ancora più misera la condizione dei poveri. Quando i contadini non potranno più lavorare ed i padroni dei fondi non potranno, per troppe imposte, far lavorare, allora moriremo tutti di fame. Cosa singolare! Quando l’Italia era divisa in piccoli Stati, le finanze di tutti erano fiorenti! Ora che siamo tutti uniti, siamo rovinati”"Lo stesso Garibaldi nel 1868 scrisse in una lettera ad Adelaide Cairoli: «Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio.»Delusi furono anche molti liberali che avevano riposto nell'unità d'Italia la realizzazione delle loro ambizioni, ma che si ritrovarono in una situazione politica sostanzialmente immutata; mentre il risveglio economico, garantito dalle politiche fiscali di Ferdinando II e dalle floridissime condizioni del regno borbonico, cessò di colpo. Il patriota Luigi Settembrini, mentre era rettore all'università di Napoli, disse agli studenti: «Colpa di Ferdinando II ! Se avesse fatto impiccare me e gli altri come me, non si sarebbe venuto a questo!». Rimase rammaricato anche Ferdinando Petruccelli della Gattina, che nella sua opera I moribondi del Palazzo Carignano (1862), espresse la sua amarezza nei confronti della negligenza della nuova classe politica. Anche il clero rimase deluso, sia per la perdita di Umbria e Marche da parte dello Stato pontificio, sia per il frequente esproprio di beni ecclesiastici, la soppressione degli Ordini Religiosi e la chiusura di numerosi istituti di utilità sociale. Quindi sono gli stessi eroi del risorgimento ad essere delusi del risorgimento! 

 
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Re "Franceschiello" ed il suo esercito: una storia di calunnie!

Post n°2347 pubblicato il 01 Aprile 2015 da luger2
 

«Hai fatt’ à fine è ll'esercito è Franceschiello»: modo di dire napoletano per indicare un completo insuccesso. Ma nel verticale crollo borbonico del 1860 fu, al contrario, proprio l'esercito l'unico elemento del regime allora caduto a salvare l'onore della dinastia e del Paese, con un notevole esempio di valor militare e di fedeltà morale e politica. Ingiusto, dunque quel modo di dire. L' esercito di Franceschiello, ossia di Francesco II di Borbone, ultimo sovrano del Mezzogiorno, meritava e merita rispetto. Era stato sì mal comandato in Sicilia, ma si era battuto bene, mantenendo anche inespugnata la cittadella di Messina. Garibaldi giunse poi a Napoli senza colpo ferire, mentre l'intero personale borbonico, politico e amministrativo, «si squagliava». Nello scontro decisivo che Francesco II decise di affrontare sul Volturno, l'esercito combatté con grande impegno, anche se, pur superiore di numero, non riuscì a prevalere sui 20.000 uomini di Garibaldi. Coi suoi fedeli Francesco II si chiuse nella fortezza di Gaeta, dove il sopraggiunto esercito inviato da Cavour, al comando del generale Cialdini, lo assediò. Cavour diede il colpo di grazia all'ultima resistenza borbonica allargando i confini piemontesi e prendendo in mano la situazione, temendo eventuali colpi di testa di Garibaldi (un attacco a Roma con conseguente intervento francese e ritorno in forze dell' Austria nella penisola, o un'azione conforme alle sue note idee repubblicane, minacciose per l'unità sotto i Savoia). Ma Garibaldi poi nei fatti non ebbe simili intenzioni. Con l'arrivo di Cialdini la partita era chiusa. La resistenza di Gaeta, mirava a suscitare una reazione europea all'espansione dei Savoia, reazione che non vi fu ed anche la possibilità che si potesse ripetere il miracolo del 1799, quando l'appoggio popolare consentì in pochi mesi a Ferdinando IV, bisnonno di Francesco II, di recuperrare il Regno. La resistenza di Gaeta fu accanita, animata anche dalla bella e balda regina Maria Sofia di Baviera, e durò per un bel pò, ma a metà febbraio si dovette capitolare. Il Re e la Regina si rifugiarono a Roma. La cittadella di Messina si arrese il 12 marzo. A resistere rimase solo Civitella. Non vi era un grosso contingente. Il comandante, il maggiore Luigi Ascione, aveva ai suoi ordini all'incirca 500 uomini di varie armi e corpi, con 21 cannoni, 2 obici, 2 mortai e una colubrina in bronzo. Le forze degli assedianti, al comando del generale Ferdinando Pinelli, erano superiori e con armi migliori, fra cui cannoni rigati, di vario calibro, e 2 obici da montagna. La resistenza di Civitella assunse rilievo, specie dopo la caduta di Gaeta, ancor più di quella di Messina, anche per i suoi echi internazionali, che però non furono, altro che di simpatia. Pinelli adottò misure durissime anche contro la popolazione civile, per cui nel gennaio 1861 venne sostituito con il generale Luigi Mezzacapo, un ex ufficiale borbonico, passato a quello sabaudo quando Ferdinando II di Borbone si era ritirato dalla coalizione antiaustriaca degli Stati italiani nel 1848. Con lui l' assedio si fece più energico, sostenuto dal fuoco dei nuovi potenti cannoni a tiro rapido, e da forze armate crescenti, che giunsero a oltre 3.500 uomini. Si fece un continuo bombardamento più che un'azione di assedio manovrata: alla fine, furono 7.800 i proiettili caduti sulla fortezza per circa 6.500 chilogrammi di esplosivo. Anzi, furono invece gli assediati a condurre un' azione militare di qualche rilievo, fomentando atti di guerriglia nei paesi vicini e cercando di opporsi, dove si poteva, al plebiscito per l'unità italiana il 21 febbraio. Si riuscì pure a tenere qualche rapporto con Gaeta, d'onde giunsero lodi e incoraggiamenti, mentre il capitano Giuseppe Giovine, già capo della gendarmeria, fu promosso colonnello e sopravanzò l' Ascione, promosso solo a tenente colonnello. Intanto, la caduta di Gaeta e, il 13 marzo, quella della cittadella di Messina toglievano sempre più ragione a quella resistenza. Anche da parte del decaduto Francesco II giunse, tramite il generale Giovan Battista Della Rocca, l'invito agli assediati a deporre le armi, ma nella fortezza non tutti lo accolsero, sicché il campo dei difensori si rivelò meno compatto di come parrebbe. Lo stesso Giovine propendeva per la resa. In effetti, la difesa di Gaeta e di Messina erano state opera di forze armate regolari ed erano state tenute sul piano strettamente militare. A Civitella la guarnigione operò insieme a molti civili e in rapporto con bande e legittimisti delle zone contigue. La guarnigione di Civitella operò in collegamento con bande e legittimisti: preludio al brigantaggio. In questo senso la resistenza di Civitella è più importante, in quanto preluse a ciò che nel Mezzogiorno accadde nei seguenti dieci anni di guerra contro il brigantaggio e il borbonismo superstite, in un connubio non sempre chiaro, ma indubbio, fra loro. Finalmente, l' Ascione poté, però, stipulare la resa e il 20 marzo i bersaglieri entrarono in Civitella. Quel che seguì non fu un modello di comportamento liberale. Alcuni dei resistenti furono giustiziati, altri furono incarcerati ed ebbero varie sorti. La storica fortezza di Civitella, che risaliva al 1574, fu minata e fatta in gran parte crollare, danneggiando anche le mura angioine della città. Intanto, il Regno d' Italia, proclamato tre giorni prima della resa di Civitella, muoveva i suoi primi difficilissimi passi. Nel 1866 vi fu la sua prima prova bellica, in alleanza con la Prussia, con la sfortunata guerra contro l' Austria. Se il legittimismo borbonico avesse avuto consistenza e vigore, questo sarebbe stato il momento della verità. In quei frangenti la nuova Italia molto difficilmente avrebbe potuto resistere a una grande insurrezione o a una guerra civile in atto all'interno. Non accadde nulla di simile. Il miracolo del 1799 non si ripeté.
Ma su Francesco II di Borbone si sono dette molte falsità a causa della cancellazione della memoria e della demonizzazione del passato applicate scientificamente dopo l’unificazione d’Italia. Le informazioni sono scarse e di solito denigratorie: era giovane; incapace; probabilmente succube di un padre, Ferdinando II, dalla personalità ingombrante; impreparato al comando; indeciso; imbelle. Persino sul piano personale, la propaganda ha infierito, accusandolo di non essere all’altezza anche nei rapporti più intimi con la moglie, essendo cattolico e di delicata spiritualità e, dunque, certamente un credulone superstizioso. Ma la realtà fu ben diversa, e per giungere a questa conclusione basta pensare alla vita di Francesco II dopo la fine del Regno delle Due Sicilie. Ridotto in povertà, avendo lasciato il Regno senza portare con sé neppure il patrimonio di famiglia; dignitoso ed umile sempre; consapevole del senso della storia e del ruolo svolto come Re e come uomo, di fronte alla Provvidenza. Francesco II è il riferimento per chi voglia ritrovare le tracce di un’identità culturale sepolta sotto più di 154 anni di menzogne e ideologie, ma ancora viva e in attesa di essere portata alla luce. La storia italiana ci ha abituati i a conoscerlo come “Franceschiello”, un epiteto dispregiativo per sminuirne la figura e renderne insignificante l’operato: l’ultimo Re delle Due Sicilie era stato capace, in meno di un anno, di perdere regno e ricchezze, combattendo dalla parte sbagliata. Perché è sempre sbagliato stare dalla parte di chi perde, quando la storia la scrivono i vincitori. E Francesco, pur consapevole della fine imminente, non si era voluto piegare a nessun compromesso. Perciò aveva perso. Non aveva cercato facili alleanze: avrebbe potuto salvare almeno se stesso, conservare le fortune personali, ereditate dagli avi o, persino, usare quelle ricchezze (che nessun altro Stato italiano poteva vantare di possedere in tale quantità) per corrompere quanti, nell’ora più difficile del Regno, preferirono abdicare alla propria dignità, barattando la patria napoletana con l’oro piemontese e massonico. Fu un sovrano che amò sinceramente il suo popolo, nacque a Napoli, 16 gennaio 1836 e in esilio il 27 dicembre 1894 (a soli 58 anni) l’ultimo sovrano delle Due Sicilie si congedò dalla scena del mondo in punta di piedi, con lo stesso stile sobrio e dignitoso con cui aveva vissuto. Nel suo testamento scrisse: “Ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto del bene, perdono a coloro che mi hanno fatto del male e domando scusa a coloro ai quali ho in qualche modo nuociuto”. La Discussione di Napoli, nel riportarne la notizia, commentava: “Con l’anima serena dell’uomo giusto, con gli occhi estaticamente rivolti alla visione di quel sereno cielo che lo vide nascere, è morto il Re adorato, alle porte dell’Italia, in un modesto albergo, situato in una regione non sua...”. Matilde Serao, in un articolo apparso su Il Mattino del 29 dicembre, scrisse: “Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza silenziosa e la dignità di Francesco II. Detronizzato, impoverito, restato senza patria, egli ha piegato la sua testa sotto la bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo. Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe ecco il ritratto di Don Francesco di Borbone”. Ad Arco di Trento, l’ultimo discendente di una delle monarchie più potenti d’Europa aveva vissuto gli ultimi anni della sua breve vita, in perfetta umiltà e dignitoso anonimato. Fu l’ultimo Re, disse l’Italia intera; ed il cordoglio per la morte prematura di un sovrano tanto nobile, leale e generoso, fu sincero, quanto tardivo fù il riconoscimento del suo alto profilo morale. Francesco II non abdicò mai al ruolo che la Provvidenza gli aveva assegnato: morì da Re, assolvendo fino alla fine il suo compito, con coraggio e dignità. 
E’ stato un sovrano che ha anteposto ai suoi interessi personali l’amore per il suo popolo.
La sua breve ma intensa vita di soldato e di re, appare un continuo e cosciente conformarsi all’unico modello di regalità che la sua profonda religiosità cristiana poteva proporgli di imitare. Il Re Francesco II si sentiva, ed era, parte del suo popolo, che amò fino alla fine della sua vita, ben oltre la perdita del trono e la fine del Regno. È lecito dubitare dell’amore dei sovrani per i loro popoli quando vi siano interessi materiali da salvaguardare, quando c’è ancora la speranza di recuperare un trono perduto; ma Francesco già da tempo non nutriva più di queste speranze e, specialmente dopo la definitiva partenza da Roma, aveva pure rinunciato a vedersi restituiti i suoi beni. Eppure, non aveva mai cessato di amare i napoletani. E i napoletani non cessarono mai di amarlo. Non, certamente, i generali che lo avevano tradito; non quegli aristocratici la cui bramosia di ricchezze e di potere si era lasciata stuzzicare dalle astute lusinghe degli avversari (eppure, anche a costoro seppe perdonare); ma il popolo, il suo popolo, lo amava davvero perché si sentiva profondamente amato da lui: “sposato”, abbracciato. Suo padre, Ferdinando II, aveva regnato per oltre trent’anni, trasformando il Regno delle Due Sicilie in uno degli Stati più ricchi e potenti d’Europa. Era un’eredità pesante, che Francesco dovette assumersi inaspettatamente e che si trovò a gestire da solo, quando stava per avere inizio la fase più difficile della storia del Sud. Gli avvenimenti, che si susseguirono in maniera travolgente, precipitarono la dinastia e mutarono la storia del popolo. La storiografia ufficiale, quando si è occupata della sua figura, lo ha fatto descrivendolo come un uomo scialbo, impacciato, dalle spalle strette e gli occhi tristi, l’espressione tra il timido ed il corrucciato; insomma, il ritratto perfetto dell’antieroe. 
Ed anche nella storiografia più recente, il re soldato, che combatte sugli spalti di Gaeta, appare quasi trascinato, più che dalla sua convinzione personale, dall’entusiasmo incosciente e, talvolta, imprudente, della giovane moglie Maria Sofia di Baviera, riconosciuta “eroina di Gaeta”. Restano poco noti, invece, il suo ricchissimo epistolario, il suo diario privato, le memorie di chi visse accanto a lui gli ultimi istanti della sua vita. Da essi emerge una figura di re il cui profilo morale, umano, intellettuale e cristiano è altissimo e rigoroso: un ritratto assolutamente stridente con quello ufficiale consegnatoci dalla storia che, persino nel nomignolo con cui lo identifica, “Franceschiello”, ha voluto imprimere nella memoria collettiva l’immagine del perdente, del non Re, rappresentandone una regalità in negativo, in cui non trovano spazio concetti come “potere” e “trionfo” e non c’è posto neanche per la competizione richiesta dai modelli considerati vincenti.
Troppo spesso la storia esalta come eroi personaggi mediocri, il cui merito è quello di essere saliti in tempo sul carro del vincitore o di avere agito con cinico egoismo e per puro calcolo materiale o rinnegando valori morali e princìpi religiosi in nome di presunti ideali. La vicenda garibaldina e l’intera operazione con la quale fu realizzata l’unificazione italiana necessitano a tutt’ oggi di una rilettura che ne chiarisca, una volta per tutte, natura e contenuti. Non è più possibile, di fronte all’evidenza documentale, continuare ad accettare la vulgata ufficialmente imposta nei manuali scolastici, attraverso i quali si dovevano “fare gli Italiani”. Troppe contraddizioni balzano in evidenza, troppe smentite dei fatti così come ci sono stati raccontati, troppi elementi di un’altra storia ci rivelano una verità diversa da quella conosciuta finora, che è doveroso portare alla luce e diffondere. È quella storia, che oggi non è più possibile accettare supinamente, che ci ha consegnato la figura di un “Franceschiello” codardo, pavido, inetto: il ritratto caricaturale di un Re.
Il 5 settembre 1860, in procinto di partire per Gaeta, volendo risparmiare alla capitale atroci combattimenti (l’entrata di Garibaldi in città era imminente), pronunciava parole gravi, denunciando al cospetto dell’Europa, che rimase sorda alle evidenti violazioni del diritto internazionale ai danni dei popoli delle due Sicilie: 
“una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei Stati, nonostante che io fossi in pace con tutte le Potenze Europee”.
Il Re denunciava, con una chiarezza e lucidità che pochi, in quel momento, mostrarono di avere, i disegni della setta rivoluzionaria che stava impadronendosi dei suoi Stati, ma che presto avrebbe minacciato l’intera Europa; scriveva ai rappresentanti delle potenze europee di come il Piemonte, che “sconfessava” pubblicamente l’azione garibaldina, segretamente, invece, la incoraggiava e la sosteneva. E paventava il pericolo che la violazione delle norme più elementari del diritto internazionale, che ora stava danneggiando il suo Regno, avrebbe finito per imporre il principio di autolegittimazione dei governi, spianando la strada a regimi basati sulla forza e sulla violenza, anziché sul consenso dei popoli. Fu fin troppo facile profeta: totalitarismi e massacri avrebbero trasformato l’Europa del secolo successivo in un immenso teatro di violenza e di guerre. Nessuno sembrava, in quel momento, rendersene conto quanto lui: “questa guerra spezza ogni fede ed ogni giustizia ed arriva fino a violare le leggi militari che nobilitano la vita ed il mestiere di soldato ... L’Europa non può riconoscere il blocco decretato da un potere illegittimo ... L’azione di Garibaldi è quella di un pirata. Accettandola, l’Europa civile tollererebbe la pirateria nel Mediterraneo... Ma l’Europa stava a guardare. Francesco II, invece, combatteva contro questo nuovo modo di fare la guerra: sul Volturno, a Gaeta, sul fronte della diplomazia. Combatteva e protestava instancabilmente, pur nella crescente consapevolezza di non poter salvare se non l’onore; combatteva a fianco dei suoi soldati, per il popolo che aveva “sposato” e che non lo abbandonava, perché “fra i doveri prescritti ai re, quelli dei giorni di sventura sono i più grandi e solenni; ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso quale si addice al discendente di tanti Monarchi”.
Lucidamente consapevole della sconfitta, non fece nulla per sottrarsi al suo dovere di Re, raccomandando ai suoi popoli “la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini” anche quando l’esito gli fu fatale. Lasciando Napoli, Francesco II non portò nulla con sé. Il 12 settembre, appena una settimana dopo la sua partenza verso Gaeta (il Regno delle Due Sicilie era, dunque, ancora uno Stato legittimo riconosciuto dalle potenze europee), i suoi beni venivano dichiarati da Garibaldi “beni nazionali”; e quando, succeduto Vittorio Emanuele, si discusse se rendere a Francesco i suoi beni privati, una tale eventualità fu condizionata alla sua partenza da Roma, dov’era ospite del Papa. Lo si voleva allontanare il più possibile da Napoli, perché la sua sola prossimità al Regno era sufficiente a tenere alto il morale di chi combatteva per l’indipendenza della patria. Francesco non accettò: non poteva consentire alcuna strumentalizzazione della sua persona facendone ricadere su di lui la responsabilità dei massacri, che l’esercito piemontese stava attuando nel tentativo di piegare la resistenza dei napoletani. Perché di “Napolitani” si trattava - come sottolineava con forza il Re - e non di “briganti” ed “assassini”, come invece li dipingeva la propaganda; napoletani come lui, e, come lui, “disgraziati che difendono in una lotta ineguale l’indipendenza della loro patria ed i diritti della loro legittima dinastia”. Di quei “briganti”, ad ogni modo, se tale era la loro identità, lui, il Re, si reputava onorato di esserne il primo. Ed avendo, d’altra parte, perduto un trono, che gli importava di perdere le ricchezze? “Sarò povero come tanti altri che sono migliori di me: ed ai miei occhi il decoro ha pregio assai maggiore della ricchezza”: queste le parole con le quali respinse il “consiglio” di Napoleone III di allontanarsi da Roma. Non riebbe più i suoi beni, che furono distribuiti, in barba a Statuti e proteste, ai “martiri” dell’unità d’Italia. Francesco, Re - Sposo dei suoi popoli, invece non cessò mai di preoccuparsi delle loro necessità, nella buona come nella cattiva sorte: l’11 gennaio 1862 riusciva ad inviare la somma di 800 scudi all’Arcivescovo di Napoli Riardo Sforza, per venire in soccorso della popolazione di Torre del Greco, colpita dal terremoto. “Tutte le lagrime dei miei sudditi – scriveva in quell’occasione – ricadono sopra il mio cuore, e non mi sovviene della mia povertà che allora soltanto che, in simili circostanze, m’impedisce di fare tutto quel bene, al quale mi sento per natura trasportato... Sovrano esiliato, non posso slanciarmi in mezzo a’miei figli per alleviarne i mali. La potenza del Re delle Due Sicilie è paralizzata, e le sue risorse son quelle di un sovrano decaduto che non ha trasportato seco, lungi dal suolo ove riposano i suoi antenati, che l’imperituro amore per la patria assente. Ma comunque grande sia la mia catastrofe e meschine le mie risorse, io sono Re, e come tale io debbo l’ultima goccia del sangue mio e l’ultimo scudo che mi resta ai popoli miei”. Anche sugli spalti di Gaeta, quando tutto era ormai perduto, questo Re non aveva avuto altro pensiero che quello di consolare i suoi popoli nelle sventure comuni. Sempre fiducioso nella Provvidenza, le sue parole non furono mai di cupa rassegnazione, ma sempre vibranti di passione interamente napoletana: “Ho combattuto non già per me, ma per onore del nostro nome... io sono napolitano; nato in mezzo a voi non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non ho conosciuto che solo la mia terra natale. Ogni affezione mia è riposta nel regno, i costumi vostri sono pure i miei, la vostra lingua è pure la mia, le ambizioni vostre sono pure le mie”.
Orgoglioso della sua “napoletanità” e dell’appartenenza ad una dinastia che, da oltre cento anni, regnava pacificamente su quei territori, ai quali aveva restituito indipendenza ed autonomia, Francesco rivendicava la legittimità del trono: “non mi ci sono installato dopo avere spogliato gli orfanelli del loro patrimonio, né la Chiesa dei suoi beni; né forza straniera mi ha messo in possesso della più bella parte d’Italia. Mi glorio di essere un principe che, essendo vostro, ha tutto sacrificato al desiderio di conservare ai sudditi suoi la pace, la concordia e la prosperità...” Pace, concordia, prosperità: erano questi i beni che voleva per i suoi popoli. Perfettamente a conoscenza di tradimenti e cospirazioni, aveva voluto evitare spargimenti di sangue: questa sua scelta, che ostinatamente difendeva, gli aveva procurato – egli mostrava di esserne profondamente consapevole – accuse di inettitudine e debolezza. Ma preferiva queste accuse ai trionfi degli avversari, ottenuti con il sangue e la violenza. Cinismo, tradimenti e spergiuri sembravano sempre più fare parte dei moderni codici militari, ma a Francesco continuavano ad essere cari gli antichi codici della cavalleria, che riposavano sulla sacralità del giuramento, sulla fedeltà alla parola data, specie se parola di Re. Per questo non aveva potuto credere che il re del Piemonte “che protestava di disapprovare l’invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo un’alleanza intima per il vero interesse dell’Italia”, avrebbe violato tutti i trattati e calpestate le leggi, invadendo il regno delle Due Sicilie senza neanche una dichiarazione di guerra. Ma alla tracotanza del nemico si poteva rispondere solo rimanendo uniti nella concordia, intorno al trono dei propri antenati, superando antiche divisioni (il discorso riguardava specialmente i siciliani): “il passato non sia mai un pretesto di vendetta, ma un avvertimento salutare per l’avvenire”. Occorreva avere fiducia, ancora una volta, nella Provvidenza divina ed accettarne, comunque, i disegni, profondi ed imperscrutabili; ma nessuno – e specialmente il Re – poteva sottrarsi al proprio dovere: “Difensore dell’indipendenza della patria, resto a combattere qui per non abbandonare un deposito così caro e così santo. Se ne ritornerà l’autorità ed il potere nelle mie mani, me ne servirò per proteggere tutti i miei diritti, rispettare tutte le proprietà, salvaguardare le persone ed i beni dei sudditi miei contro ogni oppressione e depredamento. Se poi la Provvidenza nei suoi profondi disegni decreta che l’ultimo baluardo della monarchia cada sotto i colpi di un nemico straniero, io mi ritirerò con la coscienza senza rimproveri e con una risoluzione immutabile, ed attendendo l’ora della giustizia, farò i voti più ferventi per la prosperità della mia patria e per la felicità di questi popoli che formano la più grande e la più cara parte della mia famiglia”. L’esilio vissuto negli ultimi anni ad Arco, senza più speranza di recuperare trono ed averi personali, non cancellò la validità di questo “patto”: bastava essere napoletano per essere ricevuto da lui e furono tanti coloro che ebbero modo di incontrarlo. A tutti chiedeva notizie della sua Napoli, senza che mai alcuna parola di biasimo per i nuovi regnanti e governanti uscisse dalla sua bocca. Così come non voleva che si parlasse delle sue passate vicende, della sua vita di Re: le considerava un sogno del passato, che ormai si era dissolto. Aveva conservato il titolo di Duca di Castro, ma tutti ad Arco lo conoscevano come “il signor Fabiani”. Fu solo dopo la sua morte che gli abitanti della cittadina trentina scoprirono la vera identità di quel gentiluomo che, tutte le mattine, sedeva al bar a fare colazione ed a leggere i giornali, dopo avere ascoltato la Messa, ed ogni sera, puntuale, si recava per la recita del Santo Rosario presso la Chiesa della Collegiata. Francesco II lascia nella storia un nome, che le iniquità e le calunnie non possono oscurare i doveri di sovrano, che egli seppe compiere cristianamente, i doveri di soldato valoroso nell’eroica difesa di Gaeta, i suoi proclami e le note diplomatiche indirizzate ai monarchi di Europa durante i tristi momenti della sua caduta, dimostrano ai posteri tutto il suo valore ed indicano un modello di regalità che non evoca immagini di potenza e di gloria ed invita, piuttosto, a riflettere sulla nobiltà della politica: concetto, oggi, purtroppo, estraneo alla nostra esperienza, perché caduto progressivamente in desuetudine, ma che dovremmo sforzarci di recuperare.

 
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