Messaggi di Ottobre 2015
Checco, che da tempo cercava un impiego stabile attraverso i concorsi, mi convinse a fare con lui (“Così per farmi compagnia”, mi disse) una domanda di partecipazione al concorso per la carriera direttiva del Ministero della Pubblica Istruzione. Era scoraggiante, tra l’altro, l’obbligo di produrre una copiosa documentazione contestualmente alla domanda. Ed era richiesta, seppi poi, proprio per scoraggiare: scoraggiare i meno seri, secondo loro; i più poveri, secondo l’evidenza che mi aveva visto spendervi le diecimila lire ottenute in prestito da zia Orizia.
Non avevo alcuna inclinazione per la vita burocratica. Ma la pubblica istruzione sembrava un approdo particolare; e a quel punto l’avessi vinto, quel concorso! A sostenere le prove scritte (tre, durissime) al Palazzo degli Esami Checco mi accompagnò con la sua macchina: era figlio della tabaccaia, lui.
Combattere, combattere. Perché combattere sempre? E sempre contro il destino: cioè, contro chi? Intorno a me sentivo il vuoto, nemico schifoso.
A molti fa paura la notte. A me no: ero diventato un nottambulo, anche nel rigore invernale.
“Ciao, Avvoca’!” “Dove vai, Avvoca’?” “Quale villeggiante ti sei fatta, Avvoca’?” Poi la strada diventa deserta, la penombra ti aiuta a ignorare le cose stupide che ti circondano e a stare in pace con te stesso. E puoi immaginare che uno gnomo gridi che gli hai pestato un piede, che una voce ti chiami dal buio, che un fantasma sbuchi da una siepe a suggerirti un mezzo per vivere o a raccontarti la sua storia. Mentre sai bene che oltre la siepe ci sono sassi, sterpi e lucertole. E che a morire si fa sempre in tempo.
3 maggio. In occasione della festa della Santa Croce la S.V. è invitata a partecipare alla fiaccolata che avrà luogo sul Monte Calvario alle ore 21.
La stessa ragazzina che aveva distribuito quei biglietti tra gli sfaccendati prese poi a girare per le case con un altro incarico; distribuire, gratuitamente, le tessere della Democrazia Cristiana a precisi destinatari di cui recava l’elenco: erano le famiglie che avevano ottenuto l’iscrizione di uno o più di uno dei figli al madrinato e ricevevano quindi il pacco di indumenti e di viveri dalle madrine dell’associazione americana, attraverso la parrocchia, che prendeva il pizzo su tutti e li consegnava quindi già aperti.
“Quella tessera potrebbe essere il Santo Patrono di cui hai bisogno”, mi disse Adelmo.
“E’ così. Ma il Santo Padrino non mi avrà mai”. |
Mi feci presentare alla redazione della cronaca de l’Unità. Chiesi che mi mettessero alla prova, ché scrivevo bene. Mi avrebbero preso, come praticante; ma in tirocinio gratuito, come per entrare nella casta degli avvocati. Impossibile: non esisteva alcuna possibilità di vivere a Roma senza una paghetta.
E fu il nero pesto, sbronze canore, orizzonti chiusi e amori laidi.
Eppure adesso mi potevo considerare un uomo libero: nulla da fare, nulla contro cui combattere, nessun affanno sentimentale; abbandonate definitivamente anche le poche relazioni epistolari. Ma che cosa potevo farmene, di quella libertà? La stessa cosa che sentivo di poter fare del diploma di laurea: appenderli al muro.
Nei miei ultimi viaggi in autobus, avevo fatto amicizia con una ragazza di Marcellina che stava terminando i suoi studi universitari. Era una mora vivace e intelligente che si chiamava Franca come la ragazza di mio fratello. Mi ero ripromesso di frequentarla, per conoscerla meglio. Ma per il momento homo sine pecunia imago mortis, diceva il filosofo Padre Barravalle. E avevo dovuto rinunciare anche a quella frequentazione, in cambio di una libertà che sapeva sempre più di letargo mortale.
Adelmo adorava quei discorsi.
“La libertà non è che un recipiente: non serve a nulla se non è riempito di qualcosa”.
“Per Luigi Longo è la libertà dal bisogno quella che eliminerà tutti gi altri problemi”.
“Allora perché dicono che in Svezia, una nazione libera dal bisogno, c’è un gran numero di suicidi?”
“Effettivamente”, conveniva Adelmo, “è la lotta, è il lavoro, è il dolore ciò che dà un significato all’esistenza”.
“Così diceva Eraclito. Ma allora gli obiettivi di libertà per i quali ci battiamo, una volta raggiunti, significherebbero la morte, la noia, l’indifferenza. Non è un controsenso?”
“No, perché nessuno sarà mai completamente libero; per questo la vita sarà sempre una lotta, perché ci sono cose che non avrai mai a sufficienza, come l’amore, la conoscenza…”
“…E il potere e i soldi per i paranoici. Così la vita sarà sempre una lotta; ed è bene che sia così”. Ma neanche Adelmo era del tutto convinto di quella conclusione:
“Tu sei l’unico, a Monteflavio, che non si alza quando passa la processione. Eppure stai dando ragione alla religione”.
Adelmo diceva bene. Ma ricordavo come quella fosse la religione degli schiavi. E quella filosofia non era la filosofia di uno sconfitto? |
Mediocre filosofo e stanco poeta, all’Avvocato non difettava il tempo di arzigogolare sui valori astratti della vita, condannato dalla fine degli studi a una esistenza inattiva, senza mezzi di distrazione, senza lavoro, senza amore; uniche risorse la chitarraccia che torturava e il piatto caldo procuratogli dalla pensione di sua madre.
Dai compagni d’università non avevo sentito parlare che di viaggi. Essi viaggiavano con l’LSD, con il treno e magari con l’autostop, ritrovandosi all’estero con amici nuovi e cercandovi nuove esperienze e diversi modi di vivere e di pensare. Se non vi trovavano realmente grosse novità, essi uscivano così dalla dimensione provinciale e tornavano dalla mitica Svezia e dagli altri paesi del Nord Europa con una mentalità più aperta.
Senza un soldo in tasca, io non mi potevo permettere neanche di arrivare a Roma in autostop. Però non ci ero mai entrato, nella dimensione provinciale, essendo vissuto sempre da recluso ma nomade, da un posto all’altro non mio, addirittura fuori dal tempo e dal mondo. Non sentivo quindi tanto il bisogno di aperture quanto di avere una mia casa, in un mio paese capace di darmi da vivere, non in quel borgo sperduto tra i monti, dimenticato da Dio e dagli uomini.
Qua, al natio borgo selvaggio, il viaggio non andava oltre i cori dell’osteria; e dopo l’ultimo coro il giro delle cantine, terminando sempre in quella di Adelmo.
“Ti ricordi, Antonio, quella notte dal Frocetto?”
Fu a un Congresso Provinciale, non ricordo se del PCI o della Lega Braccianti. Dopo aver partecipato come delegati ai lavori di apertura, eravamo andati a trovare i paesani Arduino e Gabriele (avevano rilevato una trattoria in una adiacenza di Campo dei Fiori), anche per chiedere dove pernottare. E vi rimorchiammo una matura battona che, scaricato l’accompagnatore su un autobus, ci menò in una pensione, dar Frocetto. Vi prendemmo due camere, restando d’accordo che dopo un’oretta Antonio sarebbe venuto nella nostra a darmi il cambio.
La poveraccia era esausta e Antonio non arrivava. Ma si sentiva qualche voce alla porta accanto. “Dormiamo, ché il tuo amico deve avere rimediato di meglio”. E mi addormentai.
Al mattino non feci in tempo a chiedergli perché non mi avesse dato il cambio, che Antonio cominciò a bestemmiare e a inveire:
“Bella idea, hai avuto! Così, tu a divertirti e io senza scopare e senza dormire, con quello che cercava continuamente di entrare”.
“Quello chi?”
“Il Frocetto… Bell’amico, sei, bel compagno!”
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Per due volte nonna Annarella sembrò arrivata al capolinea. La prima volta, studiando al suo capezzale, vi avevo trascorso tutta la notte; le era stata data l’estrema unzione; invece si era ripresa. Ora, per la seconda volta era apparso don Giuseppe con l’olio santo. Ma eccola guardare di sbieco zia Orizia che frugava nei suoi cassetti, mentre zia Santa, la sua ultima, mite e buona come nonno Angelo, le recitava preghiere:
“Che cosa cerca quel cappone, che va ruspando tra le mie robe?”
“Oddio, si è ripresa di nuovo! Proprio adesso è uscito don Giuseppe”.
“E’ vero, Fabio, che c’ è stato il prete?” mi domandò.
“Sì, ti ha dato un’altra volta l’olio santo”.
“E l’abbiamo coglionato un’altra volta. Vaglielo a dire!”
Era una quercia; forte come le sue montagne, con i piedi nella pietra, di pietra. Non sapeva leggere e non sapeva il suo anno di nascita, ma viveva e non cercava altro che vivere. Si alzava all’alba, il giorno di riscossione della pensioncina sociale, e andava ad aspettare per ore l’apertura dell’ufficio postale, per essere la prima:
“Non si sa mai”, diceva, “potrei anche non fare in tempo”. Ed io le avrei regalato un po’ dei miei anni, ora che non sapevo più che farmene. Sarebbe morta, anni dopo, caduta nella macchia, dove andava ancora a far legna.
Intanto io rischiavo di accendere il camino con il diploma di laurea che mi ero conquistato o di finire avvinazzato.
Magari in compagnia di Adelmo Cherubini, che vantava di fare il vino più buono. Con l’uva comprata in campagna; ché quella mai matura dei nostri vitigni dava un vinello asprigno e leggero.
Quasi tutti i montanari che da bravi sabini volevano farsi il vino da sé acquistavano l’uva delle vigne di Moricone o di Montelibretti. Il giro delle cantine cominciava quando finivano i cori all’osteria, per esaurimento vocale. Qui l’assaggio del vino era esaltato dall’affettaggio di prosciutto o di pecorino e io non potevo essere che l’ospite d’onore.
Quando m’incontrava, Adelmo vedeva il sole. Spigliato commesso viaggiatore per la Ferrero e mia spalla prima nella maggioranza e poi nella minoranza del Consiglio Comunale, dopo due bicchieri mi invitava al duetto canoro; dopo la prima bottiglia era un filosofo eloquente e non privo di profondità, benché i suoi limiti lessicali lo portassero a un linguaggio avventuroso e contorto. Caro Adelmo, morto di cirrosi epatica qualche anno dopo, chiedendo notizie dell’Avvocato inurbato.
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Il mio amico più stretto era Antonio. Figlio di un cugino di mia madre soprannominato Bucibanda, aveva studiato anche lui con i preti (non tanto, per la verità); temperamento pacato e socievole, era un poco il mio luogotenente in sezione, mentre io mi occupavo in prevalenza del sindacato. Anziché accettare l’incoraggiamento a riprendere gli studi, preferì andare prima dietro l’asinello e poi per i cantieri edili a lavorare da manovale.
Ad Antonio piacevano le canzonette che componevo sulla chitarra e se le canticchiava. Non le ho mai cantate se non a lui.
Dov’è la tua casa,
oh, dov’è la tua casa, ragazzo?
Calce, mattoni e cemento,
tu n’hai murate cento.
Ragazzo, dov’è la tua casa?
Te l’han promessa lassù,
dove i satelliti volano
e mille nuvole sognano
di riposare
nel grembo del mare.
Oh, da qualche parte
pure ci dev’essere
un paradiso. Ma tu, tu no, non ci andrai. Dov’è la tua casa,
oh, ragazzo, dov’è quella terra
che non ti veda più in guerra,
né servo né padrone?
Ragazzo, dov’è la tua casa?
Te l’han promessa lassù…
Su quella canzone, Ragazzo dov’è la tua casa, finii di confezionare il racconto dallo stesso titolo, che poi inviai a Feltrinelli. Al vizio di scrivere, no, non avrei mai rinunciato. Mi fu risposto che erano in attesa di mostrarlo all’editore al suo rientro. Poco dopo Giangiacomo Feltrinelli saltò in aria accanto a un traliccio dell’alta tensione. Né si saprà mai se fu davvero lui a volersi divertire con gli esplosivi o se altri si divertirono a straziare e infamare l’editore alieno al sistema. E quando la mia mente non era occupata da versi, motivi o scritture che vi si annidavano, eccola tornare all’Isola di Pasqua. Da chierico pensavo che fosse la malattia dell’adolescenza o quella della reclusione; e mi illudevo di poter trasformare i sogni in realtà. Ora tornavo a sognare la vita che non avevo. Che non avrei mai avuto. |
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