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AMBROGIO FOGAR, L'AVVENTURA E LA SPERANZA

Post n°24 pubblicato il 04 Luglio 2011 da labuonastregadelnord

AMBROGIO FOGAR


L'avventura e la speranza


Ambrogio Fogar nasce a Milano il 13 Agosto 1941. Fin da giovanissimo coltiva la passione per l'avventura. A soli diciotto anni attraversa le Alpi con gli sci per ben due volte. Successivamente si dedica al volo: al suo 56° lancio con il paracadute subisce un grave incidente, ma si salva con grande fortuna. La paura e lo spavento non lo fermano e arriva ad ottenere il brevetto di pilota per piccoli aerei acrobatici.

Nasce poi un grande amore per il mare. Nel 1972 attraversa in solitario l'Atlantico del Nord per buona parte senza l'uso del timone. Nel gennaio 1973 partecipa alla regata Città del Capo - Rio de Janeiro.

Dal giorno 1 novembre 1973 fino al 7 dicembre 1974 compie il giro del mondo in barca a vela in solitario navigando da Est verso Ovest contro le correnti e il senso dei venti. E' il 1978 quando "Surprise", la sua barca, nel tentativo di circumnavigare l'Antartide viene affondata da un'orca e naufraga al largo delle isole Falkland. Comincia la deriva su una zattera che durerà 74 giorni con l'amico giornalista Mauro Mancini. Mentre Fogar verrà tratto in salvo per coincidenze fortuite, l'amico perderà la vita.

Dopo aver trascorso due mesi intensi ed impegnativi in Alaska per imparare a guidare i cani da slitta, Fogar si trasferisce nella zona dell'Himalaia e successivamente in Groenlandia: il suo obiettivo è preparare un viaggio in solitaria, a piedi, per raggiungere il Polo Nord. L'unica compagnia sarà il suo fedele cane Armaduk.

Dopo queste imprese Fogar approda in televisione con la trasmissione "Jonathan: dimensione avventura": per sette anni Fogar girerà il mondo con la sua troupe, realizzando immagini di rara bellezza e spesso in condizioni di estremo pericolo.

Fogar non poteva non subire l'attrazione e il fascino del deserto: tra le sue avventure successive annovera la partecipazione a tre edizioni della Parigi-Dakar oltre a tre Rally dei Faraoni. E' il 12 settembre 1992 quando durante il raid Parigi-Mosca-Pechino la macchina su cui viaggia si capovolge e Ambrogio Fogar si ritrova con la seconda vertebra cervicale spezzata e il midollo spinale tranciato. L'incidente gli provoca un'immobilità assoluta e permanente, che ha come grave danno conseguente l'impossibilità di respirare autonomamente.
Da quel giorno per Ambrogio Fogar resistere è l'impresa più ardua della sua vita.

Durante la sua carriera Fogar è nominato commendatore della Repubblica Italiana e ha ricevuto la medaglia d'oro al valore marinaro.

Nell'estate del 1997 compie un giro d'Italia in barca a vela su di una sedia a rotelle basculante. Battezzato "Operazione Speranza", nei porti dove si ferma, il giro promuove una campagna di sensibilizzazione nei confronti delle persone disabili, destinate a vivere su una carrozzella.

Ambrogio Fogar ha scritto vari libri, due dei quali "Il mio Atlantico" e "La zattera", hanno vinto il Premio Bancarella Sport. Tra gli altri titoli ricordiamo "Quattrocento giorni intorno al mondo", "Il Triangolo delle Bermude", "Messaggi in bottiglia", "L'ultima leggenda", "Verso il Polo con Armaduk", "Sulle tracce di Marco Polo" e "Solo - La forza di vivere".

Per comprendere i valori umani che Fogar rappresentava e che egli stesso voleva trasmettere sarebbero sufficienti poche delle sue stesse parole (tratte dal libro "Solo - La forza di vivere"):
"In queste pagine ho cercato di mettere tutto me stesso. Soprattutto dopo essere stato così duramente ferito dal destino. Tuttavia ho ancora un ritaglio di vita. E' strano scoprire l'intensità che l'uomo ha nei confronti della voglia di vivere: basta una bolla d'aria rubata da una grotta ideale, sommersa dal mare, per dare la forza di continuare quella lotta basata su un solo nome: Speranza. Ecco, se leggendo queste pagine qualcuno sentirà la rinnovata voglia di sperare, avrò assolto il mio impegno, e un altro momento di questa vita così affascinante, così travagliata e così punita si sarà compiuto. Una cosa è certa: nonostante le mie funzioni non siano più quelle di una volta, sono fiero di poter dire che sono ancora un uomo."

Ambrogio Fogar veniva considerato un miracolo umano, ma anche un simbolo e un esempio da seguire: un sopravvissuto che può portare la speranza a quei duemila sfortunati che ogni anno in Italia sono vittime di lesioni midollari; il suo caso clinico dimostra come si può convivere con un handicap gravissimo.
"È la forza della vita che ti insegna a non mollare mai - racconta lui stesso - anche quando sei sul punto di dire basta. Ci sono cose che si scelgono e altre che si subiscono. Nell'oceano ero io a scegliere, e la solitudine diventava una compagnia. In questo letto sono costretto a subire, ma ho imparato a gestire le emozioni e non mi faccio più schiacciare dai ricordi. Non mi arrendo, non voglio perdere".

Dal suo letto Ambrogio Fogar aiutava la raccolta di fondi per l'associazione mielolesi, era testimonial per Greenpeace contro la caccia alle balene, rispondeva alle lettere degli amici e collaborava con "La Gazzetta dello Sport" e "No Limits world".

Dalla scienza arrivavano buone notizie. Le cellule staminali danno qualche chance: si sperimentano per la sclerosi multipla, poi, forse, per le lesioni midollari. Contemporaneamente all'uscita del suo ultimo libro "Contro vento - La mia avventura più grande", nel mese di giugno 2005 arrivava la notizia che Ambrogio Fogar era pronto a recarsi in Cina per sottoporsi alle cure con cellule fetali del neurochirurgo Hongyun. Poche settimane dopo, il 24 agosto 2005, Ambrogio Fogar si spegneva, a causa di un arresto cardiaco.

"Io resisto perché spero un giorno di riprendere a camminare, di alzarmi da questo letto con le mie gambe e di guardare il cielo", diceva Fogar. E in quel cielo, tra le le stelle, ce n'è una che porta il suo nome: Ambrofogar Minor Planet 25301. Gli astronomi che l'hanno scoperta l'hanno dedicata a lui. È piccola, ma aiuta a sognare ancora un po'.

Tratto dal suo libro "Controvento"

"Da tredici anni la mia vita è la speranza, una voce, una carezza, un sorriso,
un amico, mia figlia che parla, la tv accesa, il racconto di un viaggio.
Ho imparato a pensare e sperare in ambulanza e in ospedale, nelle ore che non cambiano mai,
ho schivato l'insonnia e la depressione.
Non pensavo di farcela, di resistere così a lungo e anche oggi,
quando il respiro non arriva, sento un disagio, un'oppressione.
Ho pensato molto a Terri Schiavo, a quelli come lei che diventano icone pubbliche di sofferenza...
Terri è stata uccisa..
Il gesto di "staccare la spina" è una crudeltà che non si può chiamare con altro nome.
Nel caso di Terri si è trattato di una violenza contro chi non poteva più nemmeno dire la sua.
Mi capita spesso di pensare alla morte.
Quelli come me ci sono abituati.
Ma un conto è la sfida cosciente, sapere di averla davanti e volerle sfuggire.
Programmarla con matematica certezza è disumano.
Non è carità. E' un'esecuzione.
E' stata feroce la scelta del marito di Terri. Quella povera donna era assente, impotente, lontana.....

Non mi piace la crudeltà mascherata come se fosse un gesto di pietà.
Ogni piccolo problema, oggi, sta diventando un fastidio da eliminare.
Noi paralizzati siamo ingombranti.
Chiediamo: non dimenticateci, non lasciateci soli.
Ma la nostra voce non sempre si fa sentire.
Ci sono malati che vengono parcheggiati in attesa di morire.
Li consideriamo persi, e invece sono vivi.  ....

Nel mio stato l'eutanasia può essere una tentazione.
Confesso che all'inizio della mia nuova realtà mi sono ritrovato a desiderarla.
Ho passato giorni e giorni a tormentare le mie sorelle, i miei familiari, gli amici più cari, i medici, quasi supplicandoli: portatemi in Olanda, dove tutto è più facile, ci sarà qualche dottore che si prende in carico il mio caso.
Ero disperato.
Per fortuna non mi hanno ascoltato.
Una sera ho partecipato a una trasmissione televisiva, c'era anche Indro Montanelli,
il grande giornalista ha detto che un rottame senza speranza dovrebbe poter evitare per se stesso un'inutile agonia.
Lo diceva rivolgendosi a se stesso, immaginando una caduta in quello stato che chiamiamo vegetativo,
rivendicando il diritto a morire da uomo e, in alternativa, all'eutanasia.
Gli ho risposto, senza convincerlo, che non siamo padroni del nostro destino.
E che si può essere un rottame ma avere ancora una speranza.
Ci aiuta la fede. La fede è una certezza.
Sono convinto che tutto quello che ci succede ha un significato,
spesso difficile da interpretare e da accettare,
ma sicuramente fa parte di un grande disegno che un giorno capiremo."

 
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