Creato da aliasnove il 10/01/2013

IL LAVORO

Nell'era della globalizzazione

 

 

LA STRUMENTALITA' DELLA FORTEZZA EUROPA

Post n°361 pubblicato il 20 Novembre 2021 da aliasnove

Il piccolo dittatore Lukashenko, tirapiedi di Putin, e il torvo e potente Erdogan ricattano i propri cittadini in nome della sicurezza, della patria o dei valori religiosi tradizionali. Ma anche le pseudo-democrazie autoritarie apprezzano e usano l’arma del ricatto. È il caso di Polonia e Ungheria, troppo deboli per imporre una prospettiva strategica all’Europa, ma abbastanza forti per condizionare le scelte politiche ed economiche dell’Ue. Oggi, lo strumento del ricatto è costituito da poche migliaia di profughi – afghani, iracheni ecc. – ammassati nella no man’s land tra Bielorussia, Polonia e Lituania.

Lukashenko ha spinto i profughi alla frontiera polacca perché vuole che l’Ue ritiri le sanzioni contro la Bielorussia, proprio come anni fa Erdogan ha chiesto e ottenuto una montagna di quattrini per non lasciare che i profughi siriani sciamassero in Grecia. D’altra parte, Varsavia urla all’invasione per impedire che l’Ue, da sempre paranoica sui migranti, blocchi il Pnrr e punisca l’erosione delle libertà civili in Polonia. Persino Draghi, cautissimo in queste faccende, ha dichiarato che i «migranti sono diventati strumenti di politica estera».

Ma che vuol dire «strumenti»? Semplicemente, che poche migliaia di esseri umani, privi di cibo, vestiti e riparo nel gelo dell’inverno incipiente sono sballottati tra due frontiere, con i mitra bielorussi alle spalle e i tank polacchi al di là del filo spinato. Il presidente polacco Duda ha avuto la faccia tosta di dire che la Polonia è «sotto attacco» da parte dei migranti. Uomini disarmati, donne e bambini sarebbero in grado di attaccare la Polonia? La retorica della patria in pericolo è così sfacciata – appunto, ricattatoria – che dovrebbe ripugnare a chiunque in grado di ragionare con la propria testa.

Ma non è così. Le risposte di Von der Leyen e Angela Merkel – i poteri europei che contano – sono in linea con lo stile bottegaio prevalente dell’Ue. Alla Polonia sono offerti un po’ di quattrini per gestire la questione alla frontiera, cioè per costruire un bel muro, anche se ufficialmente non autorizzato da Bruxelles. Alla Bielorussia si finanzia il rimpatrio dei profughi nei paesi d’origine, anche se a parole si mantengono le sanzioni (ma nei fatti con cautela e magari no…).

Ora, nello scenario di desolazione causato dalla pandemia e dalle conseguenze delle guerre fallite dall’occidente (Afghanistan, Iraq, Siria, Libia ecc.), la sorte di poche migliaia di profughi, che reagiscono con il lancio di qualche pietra ai cannoni ad acqua polacchi, sembrerà a molti poca cosa. E può anche essere che la crisi lentamente, e soprattutto silenziosamente, rientri. Ma si tratta di un esempio orribile, esattamente come gli annegamenti nel canale di Sicilia o la gente lasciata da Salvini a disidratarsi per giorni e giorni sotto il sole estivo a bordo delle navi delle Ong. Un esempio che si ripete ogni volta che, in gruppi piccoli o grandi, profughi e migranti si presentano nel nostro mondo, impaurito dalle piaghe cosmiche, dall’ansia diffusa per il futuro, da una crisi economica sempre alle porte e da rivolte insensate.

Ecco una circolarità di cause ed effetti del tutto evidente, anche se minimizzata dagli esperti di relazioni internazionali. Dove potevano scappare gli afghani scampati alla conquista talebana se non nei paesi che volevano imporre loro la democrazia all’occidentale? E dove potevano o potrebbero tentare di rifugiarsi iracheni, curdi, siriani, dopo essere stati illusi per trent’anni che con la fine delle dittature baathiste libertà e prosperità sarebbero state a portata di mano? Le immagini della catastrofica fuga da Kabul di americani e alleati vari avrebbero dovuto allertare l’immaginazione e le coscienze. L’evacuazione dei collaboratori stretti degli occupanti e di chiunque voleva sottrarsi ai talebani si sarebbe lasciata alle spalle un Paese lacerato, affamato e oppresso dal fanatismo, su cui oggi è calato il silenzio.

Ma parliamo di migliaia o decine di migliaia di esseri umani in fuga, non di milioni. L’Europa avrebbe tutte le risorse per accoglierli, assisterli e integrarli. Se questo non avviene non è solo per la paura della destra xenofoba che soffoca le cancellerie europee. E nemmeno per la reazione di parte della popolazione a un’eventuale presenza di stranieri. È soprattutto per l’incapacità ormai storica di pensare il proprio ruolo in un mondo sempre più piccolo e integrato. E di rispondere alle crisi umanitarie e alla sofferenza se non con piccoli baratti, compromessi e accordi con i dittatori che, loro sì, premono e ricattano alle frontiere marine e terrestri. In questo senso, Merkel, chiusa nella fortezza Ue, non è meno responsabile di Lukascenko o Erdogan. In fondo, parafrasando Metternich, l’Europa non è oggi che un’espressione fiscale e commerciale. Alessandro Dal Lago il manifesto

 
 
 

RETROGUARDIE CULTURALI DEL PAESE

Post n°359 pubblicato il 28 Ottobre 2021 da aliasnove

Ormai la storia patria ci ha insegnato che per affermare i diritti della persona non è dal Parlamento che dobbiamo aspettarci le risposte già mature nella società. Così è stato per la storica battaglia sul divorzio e per quella altrettanto importante sull’aborto, così potrebbe essere domani sull’eutanasia e sulla cannabis.
Ogni volta che si ponevano in discussione domande di senso sulla vita, il paese reale testimoniava di essere più moderno e civile della politica che presumeva di rappresentarlo. Facendo emergere nelle battaglie di libertà e di autodeterminazione, l’arretratezza, l’ipocrisia, la lontananza del Parlamento dal Paese.

Se anziché i deputati e i senatori, fossimo stati chiamati noi cittadini a votare sulla legge del senatore Alessandro Zan, contro la barbarie di aizzare l’odio verso le persone omosessuali o transessuali, è sicuro che avremmo avuto una risposta di condanna senza se e senza ma.
Invece, dopo anni di dibattiti, dopo l’approvazione in un ramo del parlamento, giunti all’ultimo miglio, nell’aula del senato, è stata affossata grazie a un incomprensibile voto segreto (perché concesso su questioni procedurali). La maggioranza dei senatori della Repubblica ha bocciato il proseguimento dell’iter parlamentare rinviando, per chissà quanti anni, l’approvazione di una legge giusta e soprattutto importante per l’incolumità, ancora prima che per il benessere, di tutte le persone che ogni giorno anziché goderne devono soffrire per la loro identità sessuale.

Il Vaticano, le nostre destre, tra le più retrive del panorama europeo, che, se solo potessero, cancellerebbero la legge sull’aborto, e chi nel voto segreto si è unito a loro per ragioni di piccolo cabotaggio, hanno dimostrato di rappresentare lo zoccolo duro della retroguardia culturale.
La scena da stadio con cui le destre hanno accolto il responso della votazione ne restituiva la più genuina rappresentazione. Per un momento sembrava di essere in uno di quei talk-show da combattimento dove importante non è informare ma coltivare ignoranza e pregiudizio. 
Norma Rangeri  il manifesto

 
 
 

MORISI, IN POLITICA LA VERA DROGA E' IL DENARO

Post n°358 pubblicato il 30 Settembre 2021 da aliasnove

Luca Morisi, l’autore di innumerevoli tweet, post su Facebook e performance di piazza contro i migranti, per definizione spacciatori, sembra essere ipocrita quanto il suo capo, il famoso “Capitano” che proprio Morisi aveva portato al successo elettorale.

Ma il problema non è l’ipocrisia (in realtà un marchio di fabbrica della Lega) e nemmeno la cocaina, quanto piuttosto i milioni di euro ricevuti dall’inventore della “Bestia”, la macchina del fango via social media che catapultò Salvini, a un certo punto, a toccare il 34% dei consensi nei sondaggi.

Nel caso di Luca Morisi il problema politico non è la droga ma il potere del denaro sul processo democratico.

Riassumiamo: in tre anni, dal 2017 al 2020, la società di Morisi ha ricevuto più di un milione e mezzo di euro dalla Lega, che nello stesso periodo affermava di essere senza un quattrino e otteneva dalla generosa Procura di Genova la rateizzazione in 70 (settanta!) anni del debito con lo Stato di 49 milioni di euro creato dalla truffa dei rimborsi elettorali sotto la gestione di Umberto Bossi.

Un milione e mezzo di euro è una cifra ragguardevole (corrisponde all’incirca al salario annuale lordo di 60 insegnanti) ma non basta: nel periodo in cui Salvini era ministro dell’Interno, tra il 2018 e il 2019, Morisi era alle dipendenze del ministero, assieme a circa altri 20 collaboratori, quindi erano i contribuenti italiani che pagavano la costruzione della macchina del fango anti-immigrati.

Macchina, va sottolineato, assai efficace: la pagina Facebook del leader leghista ha quasi 5 milioni di follower, e in passato ne ha avuti anche di più, mentre il suo account Twitter ha oggi 1,4 milioni di seguaci: record ineguagliati tra i politici europei.

Supponiamo che, complessivamente, la “Bestia” sia costata tre milioni di euro, una cifra considerevole ma appena sufficiente per un attico nel centro di Milano: vale così poco la democrazia italiana? Nel caso di cui stiamo parlando la vera droga è il denaro non la cocaina: con tre milioni di euro si può comprare un sistema di comunicazione non regolato, dove le menzogne e le espressioni d’odio sono all’ordine del giorno, una macchina del fango contro i deboli, le minoranze, gli avversari politici, capace di portare un leader al ministero degli Interni e a un passo dalla presidenza del Consiglio.

Droga, per di più a basso costo, un po’ come il crack degli anni Ottanta: in Italia ci sono 52 miliardari in euro, quindi persone per i quali 3 milioni sono ciò che arriva loro di soli interessi bancari in qualche giorno o qualche settimana. Per fortuna sembra che fra questi solo Silvio Berlusconi sia stato preso dalla passione politica ma non c’è dubbio che Giovanni Ferrero (35 miliardi di patrimonio personale) o Leonardo del Vecchio (25 miliardi) potrebbero tranquillamente scegliere un politico, creare un partito, assumere Andrea Paganella (l’alter ego di Morisi) e, con un po’ di fortuna, catapultare questa loro testa di turco al vertice delle istituzioni.

Lo stesso potrebbero ipoteticamente fare gli altri 49 miliardari meno conosciuti, ma che appaiono sulla lista di Forbes. Naturalmente, i soldi occorre saperli spendere: per esempio Michael Bloomberg nel 2020 spese 500 milioni di dollari per conquistare la nomination democratica alla presidenza, senza risultati.

Volendo fare un’ulteriore riflessione, l’elemento ancora più preoccupante della vicenda è il fatto che Morisi ha “creato” il fenomeno Salvini grazie all’uso sistematico delle fake news, delle distorsioni, delle invenzioni, tutte a senso unico: contro le donne, i migranti, i deboli.

Tutto ciò che di odioso ribolliva nelle viscere della società italiana è stato fatto emergere, tutto il risentimento sotterraneo ha tracimato. Sparare ai ladri o agli immigrati è diventato non solo giustificabile ma meritorio.

Non stupisce quindi che tra i milioni di intossicati dalla propaganda leghista qualcuno sia passato all’azione, come l’assessore di Voghera Massimo Adriatici, che nel luglio scorso ha assassinato un marocchino in un bar. Né stupisce che la chat della giunta leghista del Comune guidato dal sindaco Paola Garlaschelli abbia trovato divertente l’episodio.

Forse a Luca Morisi occorrerebbe chiedere se fosse coinvolto non nello spaccio di droga ma in qiello dell’odio, un veleno socialmente assai più pericoloso.  Fabrizio Tonello   il manifesto

 
 
 

DA QUELL'11 SETTEMBRE, IN DUE DECENNI, LA MORTE DELLA POLITICA

Post n°357 pubblicato il 10 Settembre 2021 da aliasnove

Vi ricordate quel bel film collettivo proiettato solo un anno dopo l’«11 Settembre», e chiamato proprio così? 11 autori, i registi fra i più famosi del momento, di 11 diversi paesi (Francia, Egitto, Bosnia, Burkina Faso, Gran Bretagna, Messico, Israele, India, Giappone, Usa), ognuno dunque con un’idea differente su quanto quell’avvenimento verificatosi a New York gli aveva suscitato, con una pellicola in cui ognuno aveva a disposizione 11 minuti, 9 secondi, un fotogramma: 11/9/01, la fatidica data, appunto.

Idee/immagini diverse, perché diverso era stato l’impatto dell’accaduto, a seconda della diversissima condizione geografica, sociale, culturale di chi ne era stato investito. E così il filmato di Ken Loach parlava solo di un altro, e per lui ben più grave 11 settembre, quello del golpe cileno, provocato dall’imperialismo americano. Mentre la giovanissima regista iraniana Samira Makmalbaf si immedesima già nel nuovo presente: una sgangherata scuola al confine con l’Afghanistan e una maestra che chiede ai bambini, il 12 settembre 2001, se sapevano dirgli cosa era accaduto il giorno prima e risultava che quanto quel giorno li aveva colpiti era la morte del nonno di uno di loro nel pozzo pericolante del campo rifugiati dove si trovavano. E poi, fra i tanti spezzoni di filmato che ricordo bene, quello di Sean Penn, su un vecchio vedovo solitario e povero che vive a New York in una stanza buia dalla cui finestra arriva, inaspettato, un raggio di sole che gli riporta un momento d’allegria, prima sempre oscurato da una delle incombenti Torri gemelle.

Mi domando oggi, a distanza di 20 anni, se quella relatività storica su cui gli undici registi avevano voluto richiamare la riflessione avrebbe lo stesso senso. Io penso di no, non perché non sia vera – mi pare anzi che lo sia anche di più, la diversità di condizione e dunque di destino degli abitanti della Terra essendo nel frattempo cresciuta – ma perché oggi mi pare si sia aggiunto un dato più comune fra tutti noi umani: siamo tutti più spaesati, nessuno ha più le certezze spavalde di allora, tutti più colpiti e coinvolti di quanto siamo mai stati da accadimenti comuni cui nessuno più sfugge, sebbene le sofferenze che ne derivano restino ineguali.

Forse basterebbe chiamare in causa il Covid, che ci ha abbracciato tutti, senza scampo. Ma anche l’accelerazione che la comparsa di quel virus ha prodotto sulla comune presa di coscienza che la Terra tutta si è ammalata gravemente e il nostro mondo – sia pure percepiti come mondi diversi – potrebbe scomparire. L’ecologia ha ancora scarso riflesso in politica (ma produce un silenzioso e angosciante interrogativo in ognuno di noi).

E infine: quanto sta accadendo in Afghanistan, con la puntualità di un disegno storico accuratamente progettato proprio per celebrare la ricorrenza ventennale del’11 settembre 2001. Che ci fa sentire tutti immersi in una crisi politica e sociale senza precedenti: nessuno è più certo del valore del proprio sistema, tutte le comunità appaiono divise, frantumate e così i valori, i modi di vita, la fiducia, e le certezze. I nemici di allora non sono più gli stessi, o lo sono ma sotto diverse spoglie, più difficili da individuare.

Anche per noi, sinistra: dove sta l’imperialismo americano che denuncia Ken Loach, ora uscito con la coda fra le gambe da Kabul e che però rilancia con il suo apparentemente mite nuovo presidente, quando avverte che se ne è andato perché ora gli interessa il nuovo «nemico», la Cina più che l’Afghanistan  Vuole occupare anche quel paese come ha fatto con l’Afghanistan? Nessuno sembra preoccuparsi di una così grave dichiarazione, siamo contenti che le truppe Nato si siano ritirate. E ora con i talebani che ci facciamo?

Gridare contro di loro è necessario oltre che giusto ma si rischia di invocare una nuova spedizione militare punitiva. Bisogna trattare e combattere contemporaneamente a fianco delle fantastiche femministe afghane ( «un coraggio del genere» ha titolato il manifesto): ma da qui come si fa, possiamo trasformarci tutti in Gino Strada? O far sì che tutte le donne afghane abbandonino il loro paese? E poi, che modello di società proponiamo: la magnifica democrazia occidentale, ormai svuotata di contenuto, una larva, che cancella la solidarietà con i migranti e che non ha in agenda i due contenuti decisivi: l’uguaglianza e la pace? Certo meglio del modello proposto dal presidente dello Stato federale del Texas o di Orbán, non parliamo di Trump o Bolsonaro! E allora dobbiamo difendere il nostro glorioso Occidente?

Smetto di pormi interrogativi che so essere di tutti, non solo di noi che ci continuiamo – e per fortuna – a definirci di sinistra. Perché in questi 20 anni il mondo è cambiato radicalmente: ho davanti l’immagine dell’assalto dei riots al Campidoglio Usa, a inizio del 2021, e di Biden che denuncia così la rivolta: «Questo terrorismo interno è il più pericoloso», in un’America spaccata, dentro una guerra civile strisciante, violenta e razzista come accusa Black Lives Matter.

E noi stentiamo ad orientarci perché la cosa più grave che è accaduta ovunque è che ci è stata – a tutti sia pure in forme diverse – rubata la politica, quella risorsa straordinaria che fino a non molto tempo fa ci aveva consentito una sia pur relativa conoscenza del mondo, la capacità di individuare con chiarezza amici e nemici, soprattutto di progettare alternative.

Nemmeno i Talebani, ora che si sono insediati a Kabul, nonostante la loro arrogante certezza di parlare a nome di un profeta sanno più bene che fare, ora che scoprono quanto è cambiato lo stesso Afghanistan mentre loro erano nascosti negli anfratti del loro frantumato paese.

Che facciamo, allora? C’è una certezza: questa ricorrenza spinge tutti a ripensare al mondo, e dunque a dare alla riflessione sulle dimensioni della crisi mondiale che attraversiamo, priorità assoluta.

Perché solo se ne acquisiamo piena consapevolezza potremo capire e prendere atto che è l’uccisione della politica, la vera «ricaduta» dell’11 Settembre e conseguenza di questo ventennio di globalizzazione che poco abbiamo capito, è la cosa più grave che è accaduta.

E però è ancora possibile portare riparo, io penso. Difficile, ma possibile. E speriamo che a rianimarla sia qualcosa che somiglia a quanto ognuno di noi pensa sia «sinistra» a farlo per primi. Essere accomunati dallo spaesamento non crea infatti comunità, può anzi produrre selvaggia violenza. Luciana Castellina il manifesto

 
 
 

DA TEMPO L'OCCIDENTE E' AMICO DEI PEGGIORI TALEBANI DEL MONDO

Post n°356 pubblicato il 20 Agosto 2021 da aliasnove

Siamo tutti talebani? Nel senso che da tempo l’Occidente è amico dei peggiori talebani del mondo? Pare di sì. Gli Usa, la Nato, l’Italia, vendono armi e lisciano il pelo a monarchie assolute e oscurantiste come l’Arabia Saudita. Mohammed bin Salman tortura e fa a pezzi un giornalista, Renzi si fa pagare da lui e lo definisce un “principe del rinascimento”. In fondo siamo tutti talebani, basta che paghino.
Sarebbe ora che ci dicessimo in faccia la verità: i talebani li abbiamo voluti noi occidentali con i nostri alleati arabi, quelli ricchi beninteso, dei poveracci non sappiamo che farcene.

L’ossessione del comunismo un tempo era tale che gli Usa e l’Occidente avrebbero fatto carte false pur di far fuori Mosca. La jihad in Afghanistan l’abbiamo fomentata e sostenuta negli anni Ottanta per sconfiggere i sovietici. Gli arabi pagavano i mujaheddin, il Pakistan ospitava i gruppi radicali, gli Stati Uniti dirigevano le danze.

ALL’EPOCA Osama bin Laden era un alleato benemerito perché la sua famiglia finanziava la guerriglia contro l’Urss: la società di costruzioni Bin Laden, di cui gli americani erano soci, forniva, tra l’altro, le scavatrici per costruire i tunnel che proteggevano i combattenti dai raid aerei di Mosca. Gli stessi tunnel che poi Bin Laden ha usato insieme ai talebani del Mullah Omar, per addestrare gli attentatori dell’11 settembre 2001, quasi tutti sauditi, e da cui è fuggito in Pakistan dove è stato ucciso nel maggio 2010.

Per abbattere l’Urss, gli Usa e gli arabi del Golfo hanno pagato un’intera generazione di combattenti che affluivano da tutto il mondo musulmano. Per colpire gli aerei la Cia aveva fornito ai mujaheddin i missili Stinger, un’arma tra le più efficaci in circolazione. Questi combattenti avrebbero poi costituito battaglioni di terroristi che hanno destabilizzato il Medio Oriente e poi colpito anche in Europa. Il problema è cominciato quando l’Unione sovietica si è ritirata dall’Afghanistan nell’89. Gli Usa e gli occidentali abbandonarono – more solito – il Paese al suo destino e i jihadisti si sentirono traditi: avevano abbattuto i comunisti e ora gli americani voltavano le spalle. È così che i nostri alleati afghani, definiti sui media occidentali «combattenti della libertà», si sono trasformati in nemici.

I talebani sono gli eredi di questa storia. Con una notazione: per prendere il potere negli anni Novanta a Kabul avevano bisogno dell’aiuto del Pakistan e a organizzare la loro ascesa fu il governo di Benazir Bhutto, acclamata in Occidente come un’eroina e poi uccisa in un attentato nel 2007. Non dobbiamo stupirci: l’Afghanistan da sempre viene considerato da Islamabad essenziale alla «profondità strategica» del Pakistan. I generali pakistani erano legati a Bin Laden, che distribuiva soldi a tutti, e molti della «lista nera» di Washington stavano tranquillamente in Pakistan. Non è un caso che Bin Laden sia stato ucciso nella città pakistana di Abbottabad nel 2011 dove è stato latitante per un decennio.

OGGI LA STORIA si ripete. L’Emiro dei talebani Akhunzadah, il vero capo del movimento, dirige anche una manciata di moschee e di scuole coraniche in Pakistan. Il Mullah Baradar venne arrestato nel 2010 in Pakistan e nel 2018 sono stati proprio gli americani a richiederne ufficialmente la scarcerazione. Era con lui che volevano trattare.

Dopo otto anni di training Baradar ha imparato la lezione: se fai il bravo con Washington, a casa tua puoi comportarti come ti pare. Altro che esportazione della democrazia. Basta vedere i sauditi, una monarchia assoluta totale, che non lascia uscire di casa le donne, le quali non possono viaggiare senza il consenso del marito – sempre ovviamente velate dalla testa ai piedi – ma siccome sono i migliori clienti di armi americane e sostengono il complesso militare-industriale Usa possono fare quello che vogliono.

Noi alle monarchie assolute del Golfo non andiamo mai a chiedere conto dei diritti umani, di quelli delle donne o delle minoranze, lasciamo che mettano in galera giornalisti e oppositori senza fare una piega perché ci pagano profumatamente. Siamo degli ipocriti senza vergogna: capaci persino, come ha fatto quel Renzi, di lodare Mohammed bin Salman, il principe saudita che ha fatto torturare e tagliare a pezzi il giornalista Jamal Khashoggi, colpevole di averlo criticato sui giornali.

I nostri amici arabi sono come i talebani ma noi stiamo zitti e muti perché ci pagano. Anzi siccome sono anche nel G-20, come l’Arabia saudita, Draghi ha detto che chiederà loro consiglio su come fare pressione sui talebani. Sembra una parodia: domandiamo a dei truculenti oscurantisti di diventare i paladini dei diritti delle donne e della libertà di opinione.

QUINDI OGGI non ci deve fare troppo schifo anche il Mullah Baradar. È stato lui a firmare gli accordi Doha e a stringere la mano davanti alle telecamere al segretario di stato Mike Pompeo. Sia l’Emiro Akunzadah che il suo vice Baradar da giovani sono stati combattenti anti-sovietici. Akunzadah tra l’altro è cognato del Mullah Omar e nel suo staff lavora anche Yakoob, il figlio del Mullah fondatore dei talebani, deceduto qualche anno fa – guarda caso – in un ospedale pakistano a Karachi. Insomma questa è anche una foto di famiglia, della loro come della nostra. Se Baradar e il suo capo fanno i bravi ragazzi, impantanando cinesi, russi e iraniani in Afghanistan, riapriremo le ambasciate a Kabul con la scusa che dobbiamo proteggere i diritti umani e delle donne. In fondo «siamo» tutti talebani.  Alberto Negri il manifesto

 
 
 

 

 

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