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Post N° 72

Post n°72 pubblicato il 22 Maggio 2008 da marea14
 

Omaggio a Giovanni Falcone
23 maggio 1992 – 23 maggio 2008






 La mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano; vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente ricattata e intimidita che appartiene a tutti gli strati della società … Il pericolo più grande è il possibile collegamento tra Cosa nostra e le organizzazioni criminali a livello internazionale

 Giovanni Falcone









La Redazione del Circolo Culturale della Strada Persa, in occasione del 31° anniversario della strage di Capaci, ha scritto questa lettera aperta a Giovanni Falcone che, a mia volta, sottoscrivo:

Caro Giovanni,

una lettera aperta è forse una cosa sciocca in questo caso, ma è un modo come un altro per renderti omaggio nella ricorrenza della tua terribile e prematura fine, avvenuta proprio oggi, sedici anni fa. Sentivamo il bisogno di scriverti questa lettera perché, come molte persone che non ti hanno mai dimenticato, sappiamo di dover tramandare quest’oggi la tua eredità ed il tuo pensiero, e fare in modo che, per quanto possibile, la nobile lotta per la quale hai offerto la tua stessa vita non risulti vana.

“…
la mafia è un fenomeno umano, e come ogni fenomeno umano ha un inizio e una fine: questo mi dà il conforto di sapere che prima o poi riusciremo necessariamente a sconfiggerla…”

“…la mafia è un’organizzazione criminale unitaria e verticistica, rigidamente gerarchizzata, che conta appoggi nella criminalità organizzata, nonché nell’imprenditoria, nella società civile e nelle istituzioni…”

Studiare i tuoi scritti e ripercorrere le vicende della tua professione è stato per noi un momento di crescita fondamentale, e per certi versi illuminante. Leggendo le tue parole abbiamo capito che decenni di onesto e coraggioso lavoro di magistrato antimafia ti avevano donato una conoscenza di Cosa Nostra assolutamente profonda e rara. Le tue idee superavano molti dei luoghi comuni che circondano questo cancro della nostra società, quasi a volerlo rendere benigno, e quindi meno intollerabile: tu avevi scoperto ed avevi capito cose talmente sconvolgenti che avrebbero fatto vacillare e forse crollare la democrazia italiana, sotto il peso dei suoi segreti impronunciabili. Avevi capito, ed oggi lo realizziamo anche noi, che ci sono cose che non si possono dire. Sono delle zone grigie, dei misteri insondabili che adombrano questo Belpaese, dei quali è meglio non parlare perché a farlo si rischia di finire al manicomio, se non al cimitero. Ed una di queste zone grigie è proprio quella che circonda l’eterna lotta tra lo Stato e la mafia, la guerra suprema per il prevalere della legalità sulla criminalità organizzata. Così viene chiamata, e così uno se la immagina: come una guerra, in cui due potenze si scontrano e alla fine soltanto una prevale. Ma in verità, se ci si ferma a riflettere sui fatti storici che hanno segnato, negli ultimi trent'anni, la storia di questo interminabile conflitto, si scoprono degli episodi che a tutto fanno pensare fuorché ad uno Stato realmente interessato a debellare Cosa Nostra. Troppi fatti inquietanti hanno segnato questa ambigua lotta.
Basta ricordare la Procura di Palermo degli anni ‘80, il “palazzo dei veleni”, nel quale tu operasti per anni, dove un misterioso Corvo recapitava ai colleghi lettere minatorie anonime, aggirandosi nei meandri del pool antimafia per capirne le strategie e spifferarle ai suoi referenti di Cosa Nostra.
Basta ricordarsi del maxi-processo svoltosi a Palermo nel 1985, da te fortemente voluto ed istruito con uno sforzo sovrumano, e ricordare il modo in cui il suo potenziale contraccolpo sul sistema politico venne disinnescato impedendoti di succedere a Caponnetto alla direzione del pool antimafia, e designando invece “dall’alto” a tale ruolo Antonino Meli. Un uomo onesto, senza dubbio, che però fece regredire il lavoro del pool di decenni, rinunciando ad ogni velleità di alzare il tiro delle indagini a livello istituzionale. Vedi, ormai andiamo convincendoci che i magistrati non sono tutti uguali: ci sono magistrati giusti e magistrati sbagliati, e tu e il tuo amico Paolo Borsellino eravate magistrati sbagliati, scomodi, perché non vi stava bene che le indagini si fermassero ogni volta al boss siciliano di turno, senza percorrere le innumerevoli piste mafiose che portavano alla Palermo bene, agli studi di liberi professionisti, ai nomi di rispettabili imprenditori, o a Montecitorio. Concepivate la giustizia come un concetto perfetto ed assoluto: se la si vuole, la si deve cercare sino in fondo, senza fermarsi davanti alla lussuosa porta dello studio di un onorevole. Un pensiero così, non è difficile capirlo, era una mina vagante per quello stesso sistema legale che voi due rappresentavate. Tu e Paolo eravate due maestri dell’antimafia: conoscevate il vostro nemico così bene che eravate perfino arrivati a scoprire tutti i suoi stretti intrecci con la massoneria, lo Stato ed i servizi segreti. Per questo vi fecero fuori: va bene tutto, va bene la giustizia, però a un certo punto alt, certi coperchi non li si può sollevare. La ragion di stato viene sempre e comunque prima della giustizia. Per questo è sempre meglio che anche in magistratura, nei posti che contano, ci siano le persone giuste, gente inoffensiva: come li ha definiti Marco Travaglio nel suo libro Intoccabili, “gli specialisti delle carte a posto”. In quella Procura spaccata e sordida di veleni è ormai chiaro che qualcuno combatteva per la legalità pura e per lo Stato di diritto, mentre qualcun altro rispondeva ad ordini politici superiori, mimetizzandosi nella suddetta zona grigia.
Diventano quindi chiare e logiche le infami campagne di delegittimazione con cui ti colpirono quando pretendesti di approfondire i legami occulti mafia-politica interrogando a 360° il super pentito Tommaso Buscetta, il quale lasciò intendere che di legami Stato e mafia ne avevano sempre avuti, e forti, anche; salvo poi riservarsi di non fare nomi, poiché sapeva che ciò avrebbe comportato la tua condanna a morte. Ma di chi temeva la reazione Buscetta, se voleva difenderti dalla politica italiana? Chi tra i politici aveva interesse a che l’operato del pool fosse mantenuto low profile, per non scomodare interessi di Stato? Che cosa sapeva, Buscetta, di così sconvolgente da non poter essere detto? “Dottor Falcone, ci sono delle cose che io so ma non posso dirle, perché se gliele dicessi finiremmo entrambi al manicomio,” ti disse una volta Buscetta. Eccole ritornare, le cose che non si possono dire: e chi si ostinava a dirle nonostante tutto allora era proprio un rompicoglioni, anzi una minaccia da eliminare ad ogni costo, prima che scoperchiasse verità sconvolgenti. Ecco perché decretarne l’isolamento, il ripudio, la diffamazione, la delegittimazione, che in un contesto come quello in cui tu e Paolo operavate equivaleva ad una condanna a morte. Un isolamento decretato proprio dallo stesso establishment politico-informativo che, subito dopo le stragi, si affrettò a riabilitarvi pubblicamente distribuendo tardive medaglie al valor civile, grondanti retorica ed ipocrisia, poiché provenienti da quello stesso Stato che fino a un mese prima vi aveva osteggiati e denigrati in ogni modo. Un modo come un altro per dimostrare che in realtà le istituzioni apprezzavano Falcone e Borsellino, e ne rimpiangevano l’orrenda fine: ma appuntare sui vostri petti dilaniati la medaglia al valor civile è stato solo l’ultimo affronto, forse il più vergognoso, perché perpetrato al solo fine di salvare la faccia allo Stato, quando voi non eravate più in grado di ribellarvi.
A ricordare tutto questo, e le altre decine di morti forse meno celebri come Rocco Chinnici e tanti altri, di fronte all’evidenza dei fatti storici diviene logica ed ineludibile la conclusione che Stato e mafia non sono affatto poteri distinti ed antagonisti, ma costituiscono invece un duopolio inscindibile di potere ed interessi economici, che trova fisiologica espressione non nello scontro frontale, bensì nella negoziazione e nell’appoggio reciproco. Del resto fu proprio per essersi rifiutato di piegarsi alla “trattativa” con Cosa Nostra (intavolata dalle istituzioni subito dopo il tuo attentato) che venne infine eliminato anche Paolo Borsellino, il quale con la sua integrità rappresentava un fastidioso ostacolo a quelle liaisons dangereuses.
È una triste ma irrefutabile verità, che tra lo Stato italiano e la mafia sono esistiti dei gravi rapporti collusivi, in virtù dei quali vi erano politici italiani che intrattenevano amichevoli rapporti con Cosa Nostra, e rappresentanti di quest’ultima che d’altro canto avevano sicuri referenti nelle istituzioni italiane, che ne curavano gli interessi e li tenevano al riparo da reazioni repressive dello Stato che potessero veramente danneggiarli. L’esistenza del cosiddetto “terzo livello” della gerarchia mafiosa, ossia quello istituzionale, per dimostrare l’esistenza del quale tu e gli altri martiri deste la vita, appare oggi come una verità inconfutabile. Non fu affatto guerra, né conflitto tra Stato e mafia, bensì una crociata solitaria, una tragica e solitaria guerra condotta da pochi uomini valorosi che non tolleravano di prendere ordini da nessuno, se non dal principio di legalità e di indipendenza della magistratura. Di conseguenza appare ormai chiaro che la sconvolgente tesi dei “mandanti occulti” delle stragi di Capaci e via D’Amelio, in base alla quale l’ordine di morte per te e Paolo sarebbe partito non da Cosa Nostra ma da più su, dai disegni di qualche “mente raffinatissima”, è più che una semplice ipotesi.
Tu avevi già capito tutto, e anche Paolo, che nei giorni prima di morire ripeteva ai familiari e agli amici “È  arrivato a Palermo il tritolo per me. E può anche darsi che a farmi saltare in aria sia la mafia, ma alla fine chi avrà ordinato la mia morte saranno altri.” Ma ci sono cose che non si possono dire, e questa è una di quelle. Verrebbe da dimenticarsela proprio, perché a pensarla c’è da impazzire, oppure emigrare a ventimila chilometri da qui, lontano da questa palude marcia di corruzione, faide e disonestà che è diventata l’Italia. Oppure prenderne atto, continuare ad impegnarsi per diventare un magistrato sbagliato e provare a muovere guerra, un giorno, a questa orrida distopia.
Non è semplice, di certo, ma lo è un po’ di più quando lo si può fare stando sulle spalle di maestri come te, Paolo, Rocco e tutti quelli che sono venuti prima di noi, a dare il loro contributo.
In questo triste giorno che commemora la tua fine, ripensando a te e a tutto ciò che hai fatto per questo paese che non ti meritava, ci viene in mente la frase che pronunciasti quando già avevi capito di avere i giorni contati, e sapevi che presto ti avrebbero eliminato:

Possono uccidere gli uomini, ma non possono uccidere le nostre idee: quelle sopravvivranno sempre, e continueranno a vivere e a camminare sulle gambe di chi verrà dopo di noi.”

E ancora una volta avevi ragione. Forse, paradossalmente, è stata proprio la mafia a renderti giustizia uccidendoti.
Grazie Giovanni per quello che hai fatto per tutti noi. Prestare alle tue idee le nostre gambe, ora, per farle camminare ancora a lungo e portarle lontano, è il minimo che possiamo fare.


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