GIORNI STRANI

Vita di comunità: mai come ora dobbiamo fare appello a ogni nostra singola cellula. E' giunto il momento di imprimere una violenta accelerazione all'intelligenza della nostra specie, come una frustata di tramontana: l'occhio non sarà occhio e la mano non sarà più mano, negli anni venturi.

Creato da sergioemmeuno il 22/04/2011
 

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La qualificazione per Tarna 3

Post n°174 pubblicato il 28 Agosto 2011 da sergioemmeuno
 

   In quella fase di stallo, l’Ungherese recuperò un pallone e iniziò a trotterellare sulla fascia sinistra. Roland e Vladimiro rimasero nella bambagia delle retrovie. Il trainer lanciò una saetta e mi ordinò di seguire l’Ungherese, dovevo assolutamente seguirlo! Fui ipnotizzato dal suo comando a distanza ed eccomi correre in avanti come un invasato, certamente, prima o poi, qualcuno mi avrebbe dato una spallata o un calcione. Correre, correre sino a sentirmi scoppiare i polmoni… non sapevo dove stesse il mio compagno… Dovere solo perforare il Centro del campo… e tanto più avanzavo quanto più mi sembrava impossibile che non incontravo alcun ostacolo… forse ero in fuorigioco? O forse addirittura tutti erano da un bel pezzo sotto le docce?   Non importava granché. Quando mi fui ritrovato all’altezza del dischetto di rigore degli avversari, con la coda dell’occhio intravidi, alla mia sinistra, la sagoma dell’Ungherese, e fra lui e me due maledette maglie verdi. Un pallone infuocato, forte e radente, si indirizzò verso di me, e, quando capii che l’ultimo difensore non lo poteva più intercettare, ebbi tanta, tanta paura di non farcela, di non colpire bene quel pallone violento. Fu un attimo: la sfera la feci scorrer via di quel tanto che bastava per impattarla pienamente col mio piede destro, rimanendo in apnea: un piattone – o un interno, se preferite – violento e centrale, che passò sopra le braccia del portiere, rimasto fino all’ultimo in piedi, e si conficcò sotto la traversa gonfiando la rete.

   Avevamo staccato il biglietto per Campi di Tarna, grazie al mio destro!

   Chissà cosa avrebbe pensato Laura. Le maglie nemiche erano divenute di un verde pistacchio.

   Subito dopo, l’arbitro sancì la fine e tutti mi zomparono addosso, deliranti, fradici, esausti, festosi come bimbi, un mucchio color arancio nel mezzo del campo. Flavio e il Greco erano incontenibili. Gli sconfitti erano afflitti, un paio di loro ebbero una crisi di pianto. Uno si autoflagellava prendendo a capocciate il terreno di gioco. Un altro, singhiozzante come un bimbo, si era conficcato la testa fra le ginocchia, quella buon’anima di Tommaso cercò invano di consolarlo. Nel mezzo del loro petto, quella odiosa e ipocrita spiga di grano si era ammosciata.

L’allenatore si aggiunse al nostro cumulo, con un vistoso sorriso a muso di cavallo, e si mise a sedere sulla sommità, intonando melodie incomprensibili e battendo con foga le mani quasi stesse a un concerto rock. <<Sotto le docce calde, andiamo campeones>>, ripeteva, <<fra poco ci aspetta altra gloria, campeones!>> E il folle si avviò verso gli spogliatoi, simulando il trotterellare di un cavallo.

Daniela, con molto acume, da tempo aveva etichettato quei scatti improvvisi, giocosi e pazzerelli, come i “guizzi di gioventù di Gabriel”.

Intanto, nella piccola area riservata alla stampa locale e regionale, non pochi erano
i commenti negativi degli addetti ai lavori. <<Non è possibile che questi fabbri vadano alle finali, e quei rulli compressori dei romani e dei viterbesi… no, non ci posso credere.>>

E una voce isolata dal resto del coro: <<Fabbri o non fabbri, l’hanno buttata una volta nel sacco>>.

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