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Messaggi del 24/03/2020
Post n°2640 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze Asteroide Ryugu è una pila di macerie attaccate ed è molto poroso e leggero 17 Marzo 2020 Spazio e astronomia, Top newsAsteroide Ryugu (credito: JAXA, University of Tokyo, Kochi University, Rikkyo University, Nagoya University, Chiba Institute of Technology, Meiji University, University of Aizu, AIST, Kobe University, Auburn University) L'asteroide 162173 Ryugu, obiettivo della missione giapponese Hayabusa2 durante il 2018 e il 2019, è sostanzialmente una pila di materiali attaccati l'uno all'altro, così come teorizzato in precedenza. La conferma arriva su un nuovo studio apparso su Nature, ricerca che si rifà sostanzialmente ai dati raccolti dalla navicella Hayabusa2, soprattutto alle immagine ad infrarossi. Questa pila di macerie cosmica ha un diametro di quasi un chilometro ed è fatta da materiale molto poroso. Si tratta di frammenti, molto probabilmente, provenienti da un corpo "genitore" il quale deve essere stato frantumato da degli impatti con altri corpi. Lo studio conferma inoltre che si tratta di un asteroide di tipo C (detti anche "asteroidi carbonacei") ricco di carbonio. Si tratta di asteroidi che, anche quando sono relativamente grandi, non sono molto pericolosi per quanto riguarda eventuali impatti sulla Terra. Proprio perché così "friabili" e composti da materiali molto porosi e leggeri, asteroidi come questi, una volta entrati nell'atmosfera terrestre, si distruggono, frantumandosi in moltissimi piccoli pezzettini, o si incendiano letteralmente. Questo è tra l'altro uno dei motivi per i quali i resti degli asteroidi di tipo C difficilmente vengono reperiti sulla Terra. Una conferma di questa caratteristica dell'asteroide arrivata anche dalle misurazioni delle temperature della superficie dell'asteroid e eseguite con la telecamera ad infrarossi a bordo della navicella Hayabusa2. Queste misurazioni indicano che la superficie dell'asteroide si riscalda dopo l'alba da circa -43 °C a più di 27 °C. Questo suggerisce che i pezzi che costituiscono l'asteroide hanno una bassa densità e un'elevata porosità. Inoltre gli astronomi che hanno redatto lo studio credono che questo asteroide possa essere considerato come uno degli stati iniziali che portano poi alla formazione degli enormi corpi celesti come i pianeti o i loro satelliti, come spiega Matthias Grott dell'Istituto di ricerca planetaria DLR, uno degli autori dello studio: "Questo colma una lacuna nella nostra comprensione della formazione planetaria, poiché non siamo quasi mai stati in grado di rilevare tale materiale nei meteoriti trovati sulla Terra." |
Post n°2639 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Dalle Scienze 24 aprile 2019 Il riscaldamento globale aumenta le disuguaglianze economiche (Credit: N. Diffenbaugh e M Burke) L'aumento delle temperature globali accresce le disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri. Lo dimostra una nuova analisi che ha incrociato i dati sugli effetti del riscaldamento globale nelle diverse regioni della Terra con quelli della variazione del prodotto interno lordo pro capite climaeconomiaIl riscaldamento globale tende ad accentuare le disuguaglianze economiche tra le nazioni. È la conclusione di uno studio pubblicato sui "Proceedings of the National Academy of Sciences" da Noah S. Diffenbaugh e Marshall Burke, entrambi della Stanford University. nell'ultimo decennio ha effettuato diverse analisi per quantificare l'impatto dell'aumento delle temperature globali medie su agricoltura, ecosistemi e salute umana. Particolarmente complessa ma di grande importanza, poi, è la valutazione dell'impatto economico del riscaldamento globale e dei suoi effetti sulle disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri. quello che si può facilmente intuire da considerazioni generali: i paesi più poveri hanno maggiore probabilità di subire gli effetti negativi del riscaldamento globale, in termini ambientali, e i loro abitanti in termini di qualità di vita, economia e salute. Questo avviene in parte perché questi paesi e i loro cittadini hanno scarsi strumenti per difendersi dal fenomeno del riscaldamento globale e in parte perché vivono tendenzialmente nelle zone più calde della Terra, dove un ulteriore incremento della temperatura media può mettere in crisi la produttività lavorativa, in particolare quella agricola, e le condizioni di vita. hanno emesso più gas serra, quindi sono i principali responsabili del riscaldamento globale in atto. La mitigazione delle emissioni è dunque da considerare anche una questione di equità sociale. superficiale nelle diverse regioni del mondo dovuto alle attività umane. (Credit: N. Diffenbaugh e M Burke )Diffenbaugh e Burke hanno raccolto i dati sulla crescita economica e sulle fluttuazioni delle temperature per quantificarel'impatto del riscaldamento globale dovuto alle attività umane sulla distribuzione del prodotto interno lordo pro capite per le varie nazioni. Hanno poi considerato i modelli climatici più condivisi dalla comunità scientifica per stimare quale sarebbe stata l'evoluzione climatica della Terra in assenza di emissioni di gas serra. più poveri il prodotto interno lordo pro capite si è ridotto tra il 17 e il 31 per cento nel periodo 1961-2010 a causa del riscaldamento globale. E se si dividono tutti i paesi in dieci gruppi in base alla ricchezza, si vede che tra il primo e l'ultimo gruppo il divario economico è del 25 per cento più grande di quello che si avrebbe senza il contributo umano all'aumento delle temperature. L'effetto, secondo i ricercatori, è duplice perché il riscalda- mento globale aumenta la crescita economica nei paesi più freddi e la diminuisce in quelli più caldi. cinquant'anni le disuguaglianze tra le nazioni sono andate tendenzialmente diminuendo, c'è una probabilità del 90 per cento che il riscaldamento globale abbia rallentato questa diminuzione. In altri termini, anche se non è chiaro se i paesi più ricchi abbiano beneficiato dell'aumento delle temperature, c'è una probabilità superiore al 90 per cento che i paesi più poveri abbiano raggiunto un prodotto interno lordo inferiore a quello che avrebbero avuto senza il riscaldamento globale. (red) |
Post n°2638 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dalle Scienze. 28 gennaio 2020 Una nana bianca dietro la supernova da record Un'immagine ai raggi X della supernova (in alto a destra) vicino alla galassia NGC 1260 (©NASA/CXC/UC Berkeley/N.Smith et al.) Un nuovo studio ha ricostruito l'origine di SN 2006gy, una delle supernove più luminose mai osservate: all'origine dell'evento ci sarebbe l'esplosione di una nana bianca che ha interagito con un involucro di materiali espulsi un secolo prima dalla sua stella compagna gigante. Nel settembre del 2006, nel cielo notturno fece la sua comparsa un bagliore di potenza insolita. Gli strumenti confermarono l'eccezionalità dell'evento: quella luce era prodotta da una supernova superluminosa, una delle esplosioni stellari più brillanti mai scoperte e studiate, poi battezzata SN 2006gy, situata nella galassia NGC 1260, a circa 238 milioni di anni luce da noi. Max-Planck-Institut per l'astrofisica a Garching e colleghi di una collaborazione internazionale rivelano l'origine di tanta energia. Si tratta infatti di una supernova abbastanza comune, in cui però l'esplosione ha interagito con un guscio di materiale stellare espulso in precedenza dal sistema binario di origine. luminose di quelle normali. Gli astrofisici hanno proposto diversi possibili modelli per spiegare questi eventi transitori rari e brillanti, ma l'origine della loro energia e la natura delle stelle che li producono sono ancora poco chiare. ricostruire il puzzle dei fenomeni fisici sottostanti. I primi dati raccolti hanno fatto ipotizzare che si trattasse di una supernova di tipo II, cioè di una supernova formatasi dal collasso e dalla conseguente violenta esplosione di una stella massiccia, con massa di almeno nove volte quella del Sole. 2006gy ha prodotto uno spettro di radiazione insolito, con linee di emissione non identificate. Col tempo, Jerkstrand e colleghi sono riusciti a realizzare diversi possibili modelli spettrali di supernova, identificando infine le misteriose linee di emissione come dovute a una grande quantità di ferro. che avrebbero potuto produrre i tre elementi rilevanti di SN2006gy: estrema luminosità, spettro peculiare e presenza di linee spettrali del ferro. L'unico scenario coerente con le osservazioni è quello di una supernova di tipo Ia, frutto dell'esplosione di una nana bianca, una tipologia di stella di massa medio-piccola giunta al termine del ciclo di fusione nucleare. di un sistema binario con una stella gigante da cui è poi stata inghiottita, finendo per esplodere una volta raggiunto il nucleo della compagna più grande. La luminosità estrema è stata poi prodotta dall'intera- zione dell'onda d'urto della supernova con un denso guscio di materiale circumstellare, probabilmente espulso dalla stella gigante circa un secolo prima dell'esplosione della nana bianca. superluminose condividono proprietà simili a quelle osservate per SN 2006gy: si può dunque ipotizzare che i meccanismi fisici sottostanti siano gli stessi. (red) |
Post n°2637 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dalle Scienze 10 marzo 2020Comunicato stampa Quasar in bilico tra venti potentissimi e radiazioni energetiche Fonte: InafRappresentazione artistica di un quasar (© ESO/ M. Kornmesser) Lo studio, appena uscito sul sito web della rivista "Astronomy & Astrophysics Letters", getta nuova luce sulla complessa relazione che c'è tra la radiazione emessa dai quasar, potenti sorgenti cosmiche, e i venti di materia calda che vengono espulsi da esse. Il lavoro è stato guidato da Luca Zappacosta, ricercatore dell'Istituto Nazionale di Astrofisica I quasar superluminosi, sono la manifestazione più estrema dei buchi neri supermassicci al centro delle galassie, essendo brillanti come centomila miliardi di stelle pari al Sole. Sono considerati laboratori ideali sia per lo studio dei processi fisici responsabili della loro straordinaria luminosità, sia per investigare i meccanismi che legano quest'ultima all'accelerazione di potenti flussi di materia, i cosiddetti "venti". Astrophysics Letters e guidato da Luca Zappacosta, ricercatore dell'Istituto Nazionale di Astrofisica a Roma getta nuova luce sulla complessa relazione che c'è tra la radiazione emessa da queste potenti sorgenti cosmiche e i venti di materia calda che vengono espulsi da esse. supermassiccio di massa tra i cento milioni e i dieci miliardi di volte quella del Sole, alimentato da un disco di gas caldo, il cosiddetto disco di accrescimento, che spiraleggia vorticosamente ed emette radiazione principalmente nei raggi ultravioletti. Parte della luce ultravioletta emessa viene ulteriormente trasformata in raggi X in una regione popolata da elettroni caldi - chiamata corona - sovrastante il disco di accrescimento. raggi X più bassa di quella attesa sulla base della loro emissione ultravioletta" dice Zappacosta. "Noi abbiamo scoperto che, almeno tra i quasar più luminosi, esiste una terza variabile, data dai potenti venti nucleari emessi nei pressi del disco di accrescimento. Infatti abbiamo trovato che i venti più veloci, che soffiano anche a 18-25 milioni di chilometri orari, vengono osservati nelle sorgenti con emissione X più debole". che studia i quasar più luminosi dell'intero universo. Il proposito del progetto WISSH è indagare i fenomeni che avvengono nei nuclei dei quasar superluminosi e il funzionamento e il ruolo che i venti di materia hanno nell'ecologia del sistema galassia/buco nero. debole di raggi X a provocare il lancio di venti veloci o se questi ultimi siano la causa dell'emissione X indebolita. "I modelli proposti per l'innesco dei venti di materia dal disco di accrescimento, prevedono che i venti più veloci siano associati ad una bassa emissione X," spiega Margherita Giustini, co-autrice dello studio e ricercatrice al Centro de Astrobiología (CSIC-INTA) di Madrid. "D'altra parte è anche possibile che il vento stesso contribuisca a schermare e quindi ridurre l'emissione X o anche che parte di esso interagisca direttamente con la corona, inibendo la produzione dei raggi X." - aggiunge Enrico Piconcelli, anch'egli ricercatore INAF a Roma - per avere nuovi e cruciali indizi utili alla soluzione di uno dei problemi più dibattuti dell'astrofisica moderna, ossia come l'attività del buco nero centrale possa centrale possa influenzare l'evoluzione delle galassia che lo ospita. Su questo campo di ricerca infatti sono altissime le aspettative per i risultati che verranno forniti dai grandi telescopi di nuova generazione sia dallo spazio che da Terra, come JWST, ELT e Athena". Astronomy&Astrophyiscs nella lettera The WISSH quasars project - VII. The impact of extreme radiative field in the accretion disc and X-ray corona interplay di L. Zappacosta, E. Piconcelli, M. Giustini, G. Vietri, F. Duras, G. Miniutti, M. Bischetti, A. Bongiorno, M. Brusa, M. Chiaberge, A. Comastri, C. Feruglio, A. Luminari, A. Marconi, C. Ricci, C. Vignali e F. Fiore |
Post n°2636 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dalle Scienze. 23 gennaio 2020Comunicato stampa Olografia digitale e intelligenza artificiale identificano microplastiche in mare Fonte: Cnr-IsasiRiconoscimento automatico di micro-plastiche da micro- plankton in campioni marini © Cnr Uno studio condotto da ricercatori dell'Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti del Cnr svela un nuovo metodo in grado di distinguere le microplastiche dal microplankton in campioni marini. Lo studio è stato pubblicato su "Advanced Intelligent Systems" Un sensore olografico e un metodo innovativo di intelligenza artificiale consentono di rilevare automaticamente la presenza di microplastiche in campioni marini, distinguendole dal microplankton: questo l'importante risultato di una ricerca pubblicata su Advanced Intelligent Systems (Wiley). Il lavoro ha coinvolto due gruppi dell'Istituto di Scienze applicate e sistemi intelligenti del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isasi): il gruppo di Olografia digitale di Pozzuoli, coordinato da Pietro Ferraro, in collaborazione con il gruppo di Intelligenza artificiale di Lecce. Tale attività di ricerca è svolta nell'ambito del progetto interdisciplinare Pon "Sistemi di rilevamento dell'inquinamento marino da plastiche e successivo recupero-riciclo (Sirimap)", uno dei cui obiettivi è proprio lo sviluppo di tecniche automatiche di monitoraggio delle plastiche in ambiente marino. emergenze ambientali che ci troviamo ad affrontare. Quando questi inquinanti scendono fino a dimensioni microscopiche, il problema è ancora più allarmante: le microplastiche possono infatti essere ingeriti della fauna marina destinata al consumo , entrando nella catena alimentare e causando effetti negativi sulla salute anche umana. Dimensioni ridotte degli inquinanti e vasta eterogeneità dei campioni marini, finora, hanno impedito di effettuare uno screening automatico ed accurato mirato a conoscere l'abbondanza delle microplastiche", spiegano Vittorio Bianco e Pasquale Memmolo del Cnr-Isasi. "Il metodo da noi proposto utilizza le informazioni fornite da un microscopio olografico a contrasto di fase, per estrarre da ciascun elemento analizzato un'ampia e inedita gamma di parametri altamente distintivi per questa classe di inquinanti. Tali parametri hanno consentito di addestrare un'architettura di intelligenza artificiale a distinguere le microplastiche da microalghe di dimensione e forma in apparenza similari". consentito di riconoscere decine di migliaia di oggetti appartenenti a diverse classi con accuratezza superiore al 99%. Più in dettaglio, la segnatura di contrasto di fase, che dipende dallo spessore ottico di ciascun oggetto illuminato, consente di determinare un nuovo insieme di caratteristiche olografiche, come ad esempio la support fractality o il fill ratio, che si aggiungono a quelle tipicamente utilizzate nelle classificazioni. Ciò ha consentito di definire un marcatore ottico, ovvero un insieme di parametri morfologici univoci per un'ampia classe di microplastiche, che include materiali, forme e dimensioni vari" aggiunge Pierluigi Carcagnì, ricercatore Isasi-Cnr. "Finora, il riconoscimento delle microplastiche in campioni marini ha richiesto lunghe ispezioni di ogni singolo oggetto al microscopio ottico da parte di personale esperto, riducendo il numero di elemento analizzabili, poche decine per ora di ispezione, e l'accuratezza del riconoscimento. Il nuovo metodo di olografia digitale fornisce invece un riconoscimento oggettivo di un numero statisticamente rilevante di campioni, fino a centinaia di migliaia di oggetti l'ora, con microscopi realizzabili in configurazioni portatili per analisi in situ della qualità delle acque". |
Post n°2635 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dalle Scienze 04 marzo 2020Comunicato stampa Più riso per la popolazione africana, grazie all'editing genetico Fonte: Università degli studi di Milano Uno studio dell'Università degli Studi di Milano, in collaborazione con l'Università di Montpellier, ha utilizzato la tecnica di editing genetico CRISPR- Cas per poter migliorare la resa di questo cereale e contribuire a contrastare la scarsità di cibo. La pubblicazione su "Plos One". Grazie alla tecnica di editing genetico CRISPR (Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats) - Cas sarà possibile produrre più riso e in maniera controllata in zone soggette a condizioni metereologiche e qualità del raccolto imprevedibili, come ad esempio l'Africa, contribuendo in tal modo a soddisfare la domanda di cibo della popolazione mondiale. Domestication of African Rice Landraces" è coordinata da Martin Kater, docente di Genetica presso il dipartimento di Bioscienze dell'Università Statale di Milano, e svolta in collaborazione con l'Università di Montpellier. Lo stidio, pubblicato su Plos One, si basa sulla tecnica di editing genetico CRISPR con l'impiego della proteina Cas9, una sorta di forbici molecolari programmabili per modificare il DNA di una cellula, in questo caso del riso africano della specie Oryza glaberrima e Oryza sativa. naturale capacità di adattamento alle condizioni dell'ambiente e del terreno locale; presentano spesso una maggiore resistenza a parassiti endemici, siccità e carenza di nutrienti rispetto alle varietà importate di riso asiatico ad alta intensità di produzione. Purtroppo però queste caratteristiche (compresa la minore dispersione e la maggiore resa dei semi, assieme alla messa a dimora), non sono ben stabilizzate. Statale sta sviluppando protocolli per la trasformazione genetica degli ecotipi africani, per consentire l'uso di approcci di miglioramento genico che sfruttino il sistema di editing genetico CRISPR-Cas. In questo lavoro è stata utilizzata la varietà di riso Kabre, coltivata in Africa, con l'intento di modificare specifici loci che sono stati selezionati attraverso il processo di domesticazione delle varietà di riso asiatiche, con l'intento di migliorare la resa nella varietà africana. La trasformazione genetica con vettori contenenti la forbice molecolare CRISPR-Cas9 ha generato mutanti in singoli geni e in combinazioni multiple selezionate di geni. Attraverso la modificazione mirata del gene HTD1, sono state generate piante con altezza ridotta per diminuire l'allettamento delle piante, ossia il ripiegamento degli steli in seguito all'azione di venti e piogge. Inoltre, tre loci noti che controllano la dimensione del seme e / o la resa (GS3, GW2 e GN1A) sono stati simultaneamente modificati utilizzando il sistema multiplex CRISPR-Cas9. Ciò ha prodotto piante di riso Kabre con una resa dei semi significativamente migliorata. chiaro esempio di come le nuove tecnologie di coltivazione possano accelerare lo sviluppo di varietà di riso africano altamente produttive: si tratta di una conquista molto importante se si considera che alcuni continenti come l'Africa siano a un punto nevralgico per quanto riguarda la crescita della popolazione mondiale, perché più soggetti alla scarsità di cibo". /journal.pone.0229782 |
Post n°2634 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dalle Scienze 20 gennaio 2020 Aggirare le difese del cervello per curare i tumori linfocita T (in rosa) all'attacco di una cellula tumorale (© Science Photo Library / AGF) In topi di laboratorio è possibile trattare efficacemente un tumore cerebrale grave come il glioblastoma con l'immunoterapia, stimolando il drenaggio dei vasi linfatici del cervello e lasciando inalterata la barriera ematoencefalica L'immunoterapia, una strategia terapeutica basata su farmaci in grado di stimolare il sistema immunitario ad attaccare i tumori, ha dimostrato enormi potenzialità negli ultimi anni, aumentando la sopravvivenza dei malati con diverse forme di neoplasie. Ma nel caso del glioblastoma, un tumore cerebrale mortale per il quale esistono pochi trattamenti efficaci, l'immunoterapia non ha avuto successo. Questo perché il cervello è protetto dalla barriera ematoencefalica, che impedisce l'accesso nel cervello agli agenti patogeni, interferendo però con le normali funzioni del sistema immunitario. Akiko Iwasaki e colleghi della Yale University hanno trovato un nuovo modo di aggirare la barriera emato-encefalica, sfruttando l'estesa rete di vasi linfatici meningei che rivestono l'interno del cranio e hanno la funzione di raccogliere i rifiuti cellulari e di smaltirli attraverso il sistema linfatico del corpo. in parte dal gene che codifica per il fattore di crescita endoteliale vascolare C (VEGF-C). L'idea di Iwasaki e colleghi era verificare se si potesse sfruttare VEGF-C per aumentare il drenaggio linfatico e stimolare così la risposta immunitaria, valutando poi l'efficacia di questo intervento sui tumori cerebrali. nel liquido cerebrospinale di topi di laboratorio affetti da glioblastoma e hanno osservato un aumento del livello di risposta dei linfociti T, un gruppo di cellule fondamentali del sistema immunitario, nei confronti delle cellule tumorali. La promessa della immunoterapia di Alberto Mantovani delle cellule tumorali stimolando i checkpoint immunitari, specifiche molecole che regolano il sistema immunitario, impedendo che esso attacchi le cellule dello stesso organismo. Una strategia dell'immunoterapia consiste quindi nel som- ministrare molecole denominate inibitori dei checkpoint immunitari, rendendo vana la strategia di difesa del tumore. la somministrazione di VEGF-C con inibitori del checkpoint comunemente usati in immunoterapia, aumentando in modo significativo la sopravvivenza dei topi. Ciò significa che l'introduzione del VEGF-C, in combinazione con i farmaci immunoterapici per il cancro, è una strategia efficace per colpire i tumori cerebrali. Iwasaki. "Vorremmo portare questo trattamento ai pazienti con glioblastoma, che hanno una prognosi ancora molto scarsa con le attuali terapie di chirurgia e chemioterapia. " (red) |
Post n°2633 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dalle Scienze. 03 gennaio 2020 I primi carboidrati nella dieta di Homo sapiens Hypoxis angustifolia (Dr. Lyn Wadley) I nostri antichi antenati raccoglievano e cuocevano le parti sotterranee di piante ricche di carboidrati già 170.000 anni fa. Lo dimostra una datazione di resti carbonizzati di fibre vegetali scoperti in Sudafrica, che testimonia una tappa importante dell'evoluzione dell'alimentazione umana Gli esseri umani hanno iniziato a raccogliere e cuocere il rizoma, la parte di alcune specie vegetali che si trova sottoterra, almeno 170.000 anni fa. A quell'epoca infatti risalgono i resti fossili di fibre vegetali ricche di amidi scoperte nella Border Cave, una grotta situata sui monti Lebombo, in Sudafrica, secondo una nuova datazione pubblicata su "Science" da Lyn Wadley dell'Università del Witwatersrand a Johannesburg e colleghi. Il risultato fa luce su una tappa fondamentale per l'evoluzione dell'alimentazione umana. ed è per questo che le strategie di caccia e le abitudini alimentari carnivore dei nostri antichi antenati sono ben documentate. Nel caso della Borde Cave, famosa per la scoperta avvenuta negli anni settanta di uno scheletro completo di un bambino e delle ossa di almeno cinque ominini adulti, l'analisi di resti animali ha dimostrato già da tempo che gli occupanti avevano una dieta a base di carne di potamoceri (mammiferi simili ai suini), facoceri, zebre e bufali. Intervista di Kate Wong I resti di vegetali invece si deteriorano facilmente, ed è per questo che i dati relativi alla dieta vegetariana di Homo sapiens scarseggiano. I paleoantropologi sono comunque quasi certi che comprendesse piante ricche di amido come per esempio le geofite. Questa famiglia di vegetali, che comprende patate, cipolle e zenzero immagazzina una notevole quantità di carboidrati nei rizomi, e storicamente ha rappresentato una fonte di energia importante per gli esseri umani. Le documentazioni archeologiche, tuttavia, non permettono di stabilire in quale epoca le geofite siano entrate nell'alimentazione umana. carbonizzati di antichi fuochi di cottura offrono ora la possibilità di trovare una testimonianza di fibre vegetali conservate. Passando al setaccio le ceneri della Border Cave, Wadley e colleghi hanno scoperto i resti di antichi rizomi carbonizzati, probabilmente caduti nel fuoco durante la cottura e non più recuperati, risalenti fino a 170.000 anni fa. Dal confronto di rizomi attuali e fossili, gli autori hanno stabilito trattarsi di piante del genere Hypoxis, molto diffuse in tutta l'Africa sub-sahariana. una fonte di carboidrati dal sapore gradevole, ampiamente disponibile e facilmente trasportabile per le prime popolazioni umane nomadi che si spostavano nel continente africano. La cottura rappresentava poi un modo agevole per rendere i rizomi meno coriacei. (red) |
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