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Messaggi del 19/03/2020
Post n°2611 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
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Post n°2610 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet NOTIZIE SCIENTIFICHE Scoperti altri 139 oggetti trans-nettuniani, periferia del sistema solare sempre più affollata 12 Marzo 2020 Spazio e astronomia, Top news Il quartiere del sistema solare oltre Nettuno non finisce di riservare sorprese. Analizzando i dati del Dark Energy Survey (DES), un team di ricercatori dell'Università della Pennsylvania ha infatti confermato la presenza di più di 300 ulteriori oggetti transnettuniani (TNO), di cui centro 139 nuove scoperte, diversi dei quali considerabili come pianeti minori o pianeti nani, in queste remote aree del sistema solare. Lo studio, pubblicato su The Astrophysical Journal Supplement Series, descrive anche quello che può essere definito come un nuovo approccio per trovare oggetti di questo genere, qualcosa di utile anche per le ricerche future, e soprattutto per trovare il tanto agognato Pianeta Nove, detto anche pianeta X, un ipotetico pianeta (e non un pianeta nano o minore) che circolerebbe indisturbato nelle aree più remote del sistema solare. Il sondaggio DES non era stato inizialmente condotto per scoprire nuovi oggetti oltre Nettuno ma per comprendere la natura dell'energia oscura analizzando, tramite immagini ad alta precisione, la zona del cielo meridionale tutto ciò che da quella posizione si può osservare, in primis galassie e supernovae. Tuttavia i dati succulenti hanno fatto gola agli astronomi tra cui anche lo studente laureato Pedro Bernardinelli e i professori Gary Bernstein e Masao Sako dell'Università della Pennsylva nia. vedere l'oggetto muoversi sullo sfondo, in questo modo è più facile rintracciarli. Il ricercatore, con l'aiuto dei due professori, ha iniziato una prima fase in cui ha dovuto lavorare su ben 7 miliardi di possibili oggetti rilevati dal software, movimenti interessanti di oggetti transitori su uno sfondo fisso, cosa che indicava la vicinanza di questi stessi oggetti rispetto a galassie, supernovae o altri distanti oggetti. Man mano questo elenco di candidati è stato scremato, tramite un nuovo metodo sviluppato dallo stesso Bernardinelli, e dopo molti mesi di lavoro si è giunti ad un risultato di 316 oggetti trans-nettuniani confermati, di cui 139 sono nuove scoper te in quanto mai precedentemente pubblicati. Dato che i TNO totali sono solo 3000, questo nuovo catalogo rappresenta il 10% di tutti i TNO conosciuti. Si tratta di oggetti che sono distanti da noi da 30 a 90 volte la distanza che separa la Terra dal Sole. Inoltre alcuni di questi oggetti hanno orbite estremamente allungate a causa delle quali ad un certo punto saranno lontanissimi, ben oltre Plutone e ben oltre le distanze che oggi li separano dal Sole. fare scoperte simili, come spiega lo stesso ricercatore: "Molti dei programmi che abbiamo sviluppato possono essere facilmente applicati a qualsiasi altro set di dati di grandi dimensioni, come quello che produrrà l'Osservatorio Rubin". |
Post n°2609 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
SCOPERTE SCIENTIFICHEMeno di 10.000 anni fa il Sahara era ricco di laghi e fiumi e i suoi abitanti vivevano di pesca Il campo base dei ricercatori. ©Archivio Missione Sahara Libico Sapienza Universita di Roma In un remoto angolo della Libia sudoccidentale sono state trovate migliaia di ossi di pesci che raccontano come negli ultimi 10mila anni il Sahara si sia progressivamente inaridito, trasformandosi da eden ricco d'acqua in una distesa infinita di sabbie infuocate, cambiando inesorabilmente gli scenari per la vita della fauna selvatica. A rivelare questa nuova importante scoperta è uno studio appena pubblicato sulla rivista scientifica PLOS ONE, coordinato dal Dipartimento di Scienze dell'antichità della Sapienza e svolto in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università degli Studi di Milano e il Royal Belgian Institute of Natural Sciences di Brussels. Come cambiò la dieta degli antichi abitanti Studiando il deposito archeologico del rifugio di Takarkori, infatti, gli scienziati hanno individuato più di 17.500 resti animali, identificati come scarti alimentari grazie ai segni di taglio e di cottura che presentavano; di questi, solo il 19% era costituito da mammiferi, uccelli, rettili, molluschi e anfibi, mentre il restante 80% era formato da fauna ittica. Libico Sapienza Universita di Roma La datazione dei resti ha attestato la graduale riduzione della fauna ittica a favore dei mammiferi: tra quelli datati nel periodo 10.200-8.000 a.C., il pesce rappresentava il 90% del totale. Una quota calata fino al 40% nei resti datati tra il 5.900-4.650 a. C.: questi dati consentono di apprezzare la progressiva affermazione della pastorizia nel Sahara, durante la quale la risorsa ittica ha gradualmente perso importanza, per scomparire intorno ai 5.000 anni fa. Universita di Roma Preziosi indizi dal tipo di pesci trovati Un'analisi più approfondita della tipologia dei pesci presenti ha permesso di delineare ulteriormente le modalità di questa transizione nel corso del tempo: i ricercatori hanno notato, infatti, che i due pesci che costituivano la maggior parte dei resti (pesce gatto e tilapia) erano presenti in concentrazioni molto diverse a seconda del periodo studiato. Se in una fase iniziale la tilapia è risultata la specie prevalente tra le due, i ricercatori hanno registrato nel periodo più recente, un'inversione di questa proporzione e il pesce gatto, che grazie al suo sistema respiratorio è grado di sopravvivere in acque poco ossigenate e a basso fondale, è diventato predominante: questa tendenza rappresenta un indizio prezioso nella ricostruzione del processo di progressivo inaridimento della regione e della sua successiva desertificazione. Fiumi e laghi ormai scomparsi erano collegati al Nilo Tra 10 e 5mila anni fa, infatti, il Sahara era una regione con un paesaggio variegato, che alternava dune sabbiose costellate di piccoli laghi, a fiumi che scorrevano dalle montagne verso ampie pianure coperte da savana. Ed era densamente abitato, sia da animali selvatici, sia da comunità umane, prima di cacciatori-raccoglitori, poi di pastori. «La presenza di specie tipiche dell'Africa orientale ha permesso di ricostruire la progressiva migrazione di pesci dal Nilo al centro del Sahara, avvenuta quando l'ambiente era più umido e offriva delle vie d'acqua tra loro connesse - spiega l'archeologo della Sapienza Savino di Lernia - e questo rende possibile ricostruire l'antico reticolo idrografico della regione Sahariana e la sua interconnessione con il Nilo, fornendo informazioni cruciali sui drammatici cambiamenti climatici che hanno portato alla formazione del più grande deserto caldo del mondo». |
Post n°2608 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet I mattoni fondamentali per la nascita della vita sarebbero arrivati sulla Terra a cavallo di meteoriti Nuove analisi di un meteorite precipitato in Algeria nel 1990 hanno permesso di individuare la presenza, nella roccia spaziale, di una piccola ma completa proteina mai osservata prima sul nostro pianeta. Gli scienziati dell'Università di Harvard l'hanno chiamata emolitina: è composta principalmente da un amminoacido, la glicina, combinato con atomi di ferro, ossigeno e litio, in una configurazione del tutto nuova, per la scienza. È una proteina di origine extraterrestre, anche se la sua scoperta non è una prova di vita extraterrestre: piuttosto, questa molecola potrebbe fornire nuovi indizi sullo sviluppo della vita sulla Terra. PIATTO PRONTO. Già più volte, in passato, sono stati scoperti amminoacidi - i blocchi di base delle proteine - in meteoriti e frammenti di comete precipitati sulla Terra in un lontano passato. Nella struttura chimica delle rocce spaziali sono stati osservati anche i precursori degli amminoacidi, come zuccheri e materiale Ma un conto è trovare questi ingredienti primitivi sparsi qua e là, un altro è ritrovarli già "cucinati" in una struttura complessa e ben organizzata come una proteina. Ancora non è chiaro come l'emolitina si sia assemblata nello Spazio, ma si pensa che le unità di glicina si possano formare sui granuli di polvere stellare, e che le calde nubi molecolari abbiano garantito le condizioni per collegare questi tasselli in catene polimeriche e quindi in proteine.
ENERGIA DISPONIBILE. Una volta piombati sulla Terra, in epoche remote, i gruppi di atomi all'estremità di questa proteina potrebbero aver formato un tipo di ossido di ferro capace di assorbire la luce solare e dividere le molecole d'acqua in atomi di idrogeno e ossigeno, le prime fonti energetiche fondamentali per lo sviluppo della vita. Se la scoperta - pubblicata su arXiv ancora senza revisione - fosse confermata, potrebbe forse essere estesa anche ad altri pianeti potenzialmente abitabili. |
Post n°2607 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet NOTIZIE SCIENTIFICHE Rete cosmica modellizzata al computer osservando muffe melmose 10 Marzo 2020 Spazio e astronomiaI ricercatori hanno usato un database con più di 37.000 galassie per generare un algoritmo con il quale è stata creata un'intricata rete filamentosa che dovrebbe rappresentare la rete di filamenti cosmici realmente esistente (credito: Burchett et al., ApJL, 2020) Nuove conferme dell'esistenza di una rete cosmica che collega tutte le galassie dell'universo sono arrivate da un nuovo studio apparso su Astrophysical Journal Letters. Il nuovo studio ha utilizzato un approccio computa- zionale ispirato ai modelli di crescita della "melma" formata dai funghi mucillaginosi. Si tratta di una struttura su larga scala prevista dalle principali teorie cosmologiche. La teoria principale vede la formazione di questa rete di filamenti interconnessi, separato però da vuoti enormi, formarsi mentre l'universo si espandeva e si evolveva a seguito del big bang. Con l'espansione, la materia veniva distribuita attraverso questa rete che presentava regioni più dense, quelle occupate dagli ammassi di galassie, e regioni meno dense, fatte pressoché di vuoto. Questa rete sarebbe fatta perlopiù di idrogeno molto diffuso e dunque invisibile. Per studiare questa rete cosmica, i ricercatori si sono rifatti alla rete melmosa del Physarum polycephalum, un protista melmoso unicellulare di colore giallo. Questa muffa melmosa in genere cresce sui tronchi in decomposizione o sui rifiuti vegetali, come quelli delle foglie morte sui suoli della foresta, formando masse gialle spugnose sui prati. Questa forma di vita ha da sempre sorpreso gli scienziati per la sua notevole capacità di formare reti interconnesse per la distribuzione di nutrienti. Per visualizzare meglio la rete cosmica su larga scala, Joe Burchett ha seguito i consigli di un altro ricercatore, Oskar Elek, che gli ha suggerito di utilizzare come modello proprio il Physarum per creare il suo algoritmo, poi denominato Monte Carlo Physarum Machine. Per creare l'algoritmo, i due ricercatori hanno utilizzato un database con 37.000 galassie denominato Sloan Digital Sky Survey (SDSS). "È un po 'una coincidenza che funzioni, ma non del tutto. Uno stampo di melma crea una rete di trasporto ottimizzata, trovando i percorsi più efficienti per collegare le fonti alimentari. Nella rete cosmica, la crescita della struttura produce reti che sono, in un certo senso, anche ottimali. I processi sottostanti sono diversi, ma producono strutture matematiche analoghe", dichiara Burchett. La muffa melmosa ha essenzialmente replicato in tre dimensioni la rete di filamenti cosmica compresa la materia oscura, un importante soggetto che da solo rappresenta una buona percentuale della materia dell'universo e che permette a questa rete sostanzialmente di esistere. "Questi risultati non solo confermano la struttura della rete cosmica prevista dai modelli cosmologici, ma ci danno anche un modo per migliorare la nostra comprensione dell'evoluzione delle galassie collegandola ai serbatoi di gas da cui si formano le galassie", dichiara Burchett. |
Post n°2606 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Espansione dell'universo: e se ci trovassimo in una gigantesca bolla di diversa densità? 10 Marzo 2020 Spazio e astronomia Uno nuovo studio sulla velocità con la quale l'universo si sta espandendo sembra risolvere, almeno in parte, le divergenze che fisici e cosmologi hanno ottenuto tentando di misurarla. Il nuovo studio, pubblicato su Physics Letters B, lo fa senza ricorrere ad alcuna "nuova fisica". Attualmente i metodi messi in atto per misurare questa velocità sono due: il primo si basa sullo sfondo cosmico a microonde e sui dati forniti in particolare dalla missione spaziale Planck. Secondo questo primo metodo si ottiene un valore per la cosiddetta "costante di Hubble" di 67,4 (km/s)/Mpc. Ossia l'universo si sta espandendo di 67,4 km al secondo più rapidamente ogni 3,26 milioni di anni luce. Il secondo metodo si basa sulle supernovae che appaiono in maniera sporadica in galassie distanti. Misurando questi forti eventi luminosi, si ha invece un valore della costante di Hubble di 74. Lucas Lombriser, ricercatore della Facoltà di Scienze dell'UNIGE, dichiara: "Questi due valori hanno continuato a diventare più precisi per molti anni pur rimanendo diversi l'uno dall'altro. Non ci è voluto molto per scatenare una controversia scientifica e persino per suscitare l'eccitante speranza che forse stessimo affrontando una 'nuova fisica'". Secondo Lombriser forse queste divergenze sono attribuibili al fatto che alla fine l'universo non è poi così omogeneo come sempre affermato. È sempre stato difficile immaginare, infatti, fluttuazioni, per esempio, relative alla densità media della materia calcolata su volumi migliaia di volte più grandi di una galassia. Proprio per questo Lombriser, nel suo nuovo studio, ha teorizzato l'esistenza di una gigantesca bolla, del diametro di 250 milioni di anni luce, in cui è presente anche la nostra galassia ed in cui la densità dell a materia è significativamente inferiore alla densità nota per l'intero universo. Una cosa del genere avrebbe un impatto sul calcolo della costante di Hubble perché questa stessa bolla includerebbe le galassie a cui di solito si fa riferimento per misurare le distanze. Dunque, stabilendo che questa bolla enorme esiste e stabilendo che la densità della materia all'interno possa essere inferiore del 50% rispetto a quella del resto dell'universo, si otterrebbe un valore per la costante di Hubble che convergerebbe con quello ottenuto utilizzando il primo metodo, quello dello sfondo cosmico a microonde: "La probabilità che ci sia una tale fluttuazione su questa scala va da 1 su 20 a 1 su 5, il che significa che non è la fantasia di un teorico. Ci sono molte regioni come la nostra nel vasto universo". |
Post n°2605 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Ghiaccio su Mercurio in crateri permanentemente ombreggiati ai poli 14 Marzo 2020 Spazio e astronomia, Top newsIl ghiaccio sarebbe presente all'interno dei crateri nei poli del pianeta, in zone permanentemente in ombra (credito: NASA / MESSENGER) Potrebbe esserci davvero del ghiaccio su Mercurio, il pianeta più vicino al Sole nel nostro sistema solare. Nonostante infatti sia difficile credere che del ghiaccio possa essere presente su un pianeta che supera i 400 °C per quanto riguarda le temperature superficiali, un nuovo studio mostra che il ghiaccio potrebbe esistere grazie allo stesso calore del pianeta. Su Mercurio, infatti, ci sono piccole zone in crateri posti ai poli che sostanzialmente non vedono mai la luce del Sole. In queste zone può formarsi del ghiaccio, come spiegano gli scienziati del Georgia Institute of Technology. Il modello sviluppato dai ricercatori vede innanzitutto il calore estremo del pianeta liberare i cosiddetti gruppi idrossilici, minerali presenti nel suolo superficiale del pianeta. Questo processo porta alla produzione di molecole d'acqua e di idrogeno che si sollevano spostandosi intorno al pianeta. La maggior parte delle molecole d'acqua viene scompos scompost a te dalla luce solare oppure si alza molto al di sopra della superficie del pianeta stesso. Tuttavia alcune di queste molecole finiscono per atterrare nelle suddette zone vicino ai poli, zone in ombra permanente proprio a causa della conformazione dei crateri. Non essendoci un'atmosfera su Mercurio, non c'è neanche una trasmissione di aria che possa condurre il calore. Questo significa che queste molecole d'acqua che vanno a poggiarsi all'interno di questi crateri in ombra si ghiacciano permanentemente. "È un po 'come la canzone Hotel California. Le molecole d'acqua possono entrare nell'ombra ma non possono mai andarsene", spiega Thomas Orlando, l'autore principale dello studio. Questo processo arriverebbe a formare fino al 10% di ghiaccio totale presente sul pianeta e potrebbe formare fino a 1013 kilogrammi di ghiaccio in 3 milioni di anni. D'altronde già nel 2011 la sonda spaziale MESSENGER della NASA aveva individuato la presenza di segnali tipici di presenza del ghiaccio intorno ai poli, segnali che indicavano indicava la presenza di ghiaccio "sporco" che si nascondeva all'ombra permanente nei crateri polari, crateri naturalmente formatisi dall'impatto di asteroidi e meteoriti nel passato del pianeta. |
Post n°2604 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Parte progetto PANOSETI per cercare extraterrestri in tutto il cielo visibile 9 Marzo 2020 Spazio e astronomia È stato denominato PANOSETI (Pulsed All-sky Near -infrared Optical SETI) il nuovo progetto di ricerca di vita extraterrestre intelligente che dovrebbe basarsi su una rete di centinaia di telescopi ottici a infrarosso che dovranno indagare in tutto il cielo. Per il momento sono stati inaugurati i primi due telescopi installati presso il Lick Observatory nei pressi di San José, Stati Uniti. Il progetto, portato avanti da ricercatori dell'Università della California a San Diego, di Berkeley e di Harvard, cercherà costantemente ogni notte nel cielo i probabili segnali di vita intelligente all'interno della nostra galassia. La rete di telescopi sarà specializzata nel cercare lampi di luce ottica o infrarossa, ossia segnali pulsanti che si verificano su scale temporali che vanno dai nanosecondi ai secondi. Pulsazioni che possono venire non solo da fenomeni astrofisici, primi fra tutti i cosiddetti lampi radio veloci, ma anche da fonti artificiali e quindi da civiltà intelligenti extraterrestri. La rete di telescopi PANOSETI esploderà dunque l'universo su una scala temporale del miliardesimo di secondo, una scala che non era stata mai esaminata a dovere fino ad ora nel contesto dei progetti SETI. I telescopi del progetto serviranno comunque a scoprire non solo segnali provenienti da extraterrestri ma anche nuovi fenomeni astronomici. "Con PANOSETI osserveremo uno spazio inesplorato per SETI e le osservazioni astronomiche. Il nostro obiettivo è quello di realizzare il primo osservatorio SETI dedicato in grado di osservare tutto il cielo visibile tutto il tempo", dichiara Shelley Wright, astrofisica della UC San Diego e una delle responsabili del progetto. I telescopi permetteranno di controllare grandi aree del cielo per lunghi periodi di tempo, proprio ciò di cui c'è bisogno per trovare segnali molto brevi ma potenti nonché molto rari. L'inizio dello sviluppo del progetto cominciò nel 2018 quando ci si decise di dedicare interi osservatori alla ricerca SETI per cercare nell'intero cielo osservabile, circa 10.000 gradi quadrati. Il progetto finale prevede l'istallazione di centinaia di telescopi per ottenere questo tipo di copertura (ogni singolo telescopio della rete potrà cercare su un'area del cielo di 10 × 10°; per comparazione la Luna, vista dalla Terra, copre mezzo grado). |
Post n°2603 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet. NOTIZIE SCIENTIFICHE ABDragonHOME | SCIENZA | SPAZIo Un buco su Marte: l'ingresso per una base sul Pianeta Rosso L'antica attività vulcanica su Marte ci ha lasciato un'eredità preziosa: tunnel di lava, con tanto di ingresso indipendente, da usare come habitat protetti per i futuri coloni. Marte: un foro sul fondo del cratere apre un passaggio verso un gigantesco tunnel nel fianco di Pavonis Mons, un antico vulcano a scudo sul Pianeta Rosso. | NASA / JPL / U. OF Il 1° marzo sul sito della NASA che ogni giorno ospita una nuova fotografia in tema di astronomia era online un'immagine di Marte che ha attirato particolare attenzione (vedi sopra). Salta subito all'occhio la particolarità di quello scatto, catturato nel 2011 dallo strumento HiRISE del satellite Mars Recon- naissance Orbiter (MRO, della NASA), in orbita attorno al Pianeta Rosso dal 2006: un cratere con un grande buco sul fondo... Non è opera di minatori marziani, ma una sorta di lucernario aperto su di un tubo di lava. Ecco che cosa significa e perché è importante. I tubi di lava sono veri e propri tunnel che si formano quando si produce un colata lavica molto abbondante e molto fluida: nel flusso, la parte superiore della colata può raffreddarsi al punto tale da creare un tubo entro il quale il fiume di lava continua a fluire. Quando poi l'eruzione termina e l'ultima lava è fuoriuscita dal tunnel, rimane il tunnel. Ci sono anche sulla Terra, in prossimità di vulcani che danno luogo a colate di magma molto fluido, come quelli delle Hawaii - o anche l'Etna. Marte: questa immagine in alta risoluzione di un versante di Pavonis Mons, catturata dalla fotocamera HRSC dalla sonda Mars Express (ESA) il 2 ottobre 2004, mostra chiaramente il tracciato superficiale di alcuni tunnel di lava. | ESA/DLR/FU BERLIN (G. NEUKUM) UN TUBO GIGANTESCO. Quella fotografia è stata scattata all'MRO durante un passaggio al di sopra di un vulcano a scudo di Marte, il Pavonis Mons: i vulcani a scudo sono chiamati così perché il loro diametro è enormemente superiore alla loro altezza. Analizzando fotografie di questo genere, i geologi possono identificare strutture come quelle dei tubi di lava, che si snodano per chilometri e chilometri, e grazie alle immagini in alta risoluzione può capitare di identificare dei lucernari: fori sul plafone del tunnel, che si formano quando per qualche motivo il tetto del condotto crolla sul fondo. Terra: un lucernario aperto su di un tubo di lava incandescente, alle Hawaii. | US GEOLOGICAL SERVICE La foto in questione racconta di una struttura sorprendente: il foro ha un diametro di circa 35 metri, mentre la pila di materiale precipitata sul fondo (che non si vede in una comune immagine per Internet) sembra innalzarsi per circa 28 metri. Analisi più approfondite hanno poi permesso di calcolare che il tunnel sotterraneo deve avere una circonferenza di circa 90 metri (28-30 metri di diametro: è gigantesco, molto più grande di qualunque tubo di lava noto sulla Terra.
BASI IDEALI PER I COLONI. I tubi di lava non sono solo fenomeni geologici da ammirare con meraviglia e curiosità, ma anche luoghi di grande interesse per le esplorazioni umane sulla Luna e su altri pianeti. Perché al loro interno potrebbe essere possibile costruire delle basi permanenti, capaci di proteggere i coloni dall'ambiente ostile e dalle radiazioni che provengono dallo Spazio e dal Sole e che, in assenza di un campo magnetico capace di deviarle (com'è il caso di Marte), raggiungono la superficie.
Non solo: non si può escludere che al loro interno possa essersi rifugiata la vita, se mai c'è stata, proprio per trovare riparo dalle radiazioni. Questi tunnel sono, insomma, i luoghi giusti dove fare arrivare uomini, robot e rover per un'esplorazione a tutto campo del Pianeta Rosso. |
Post n°2602 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet NOTIZIE SCIENTIFICHE 19 Aprile 2019 Spazio e astronomiaIllustrazione che mostra le sezioni del pianeta Mercurio compreso il nucleo interno solido (credito: Antonio Genova) Mercurio è caratterizzato da un solido nucleo interno solido e, come la Terra, di tipo metallico. Ad arrivare a questa conclusione è stato Antonio Genova, professore alla sapienza di Roma che ha condotto la ricerca mentre si trovava al Goddard Space Flight Center della NASA a Greenbelt, Maryland. dimensione del nucleo interno solido della Terra. Ciò significa che questa palla solida interna occupa quasi l'85% del volume del pianeta. Si tratta di una parte interna tuttora attiva per la presenza di un nucleo fuso il quale va ad alimentare il campo magnetico del pianeta, comunque debole rispetto a quello terrestre, come specifica lo stesso Genova, il quale aggiunge: "L'interno di Mercurio si è raffreddato più rapidamente di quello del nostro pianeta: Mercurio può aiutarci a prevedere come cambierà il campo magnetico terrestre mentre il nucleo si raffredda". I ricercatori hanno utilizzato i dati della sonda spaziale MESSENGER, entrata in orbita intorno a Mercurio nel marzo del 2011, la cui missione è durata quattro anni. Nello specifico hanno determinato le anomalie gravitazionali di Mercurio e la precisa posizione del suo polo rotazionale (l'asse su cui gira). Inserendo questi dati nello computer, Genova e colleghi hanno regolato i parametri per adattarsi alle modalità di rotazione dello stesso Mercurio e le migliori corrispondenze mostravano che questo pianeta deve avere un nucleo interno solido e molto grande, largo circa 2000 km, che costituisce circa la metà dell'intero nucleo di Mercurio (totale di 4000 km.) |
Post n°2601 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet. NOTIZIE SCIENTIFICHE Terremoti deformano gravità e ciò può essere misurato per rilevarne in tempo distruttività 25 Febbraio 2020 Geologia e storia della Terra Quando avviene un terremoto si propagano sotto terra dei segnali con una velocità vicina a quella della luce. Questi segnali possono essere registrati prima delle onde sismiche le quali, a confronto, risultano molto lente dato che possono viaggiare in media ad 8 km al secondo. I segnali velocissimi provocati dai terremoti sono piccoli, quasi impercettibili, cambiamenti di gravità causati dallo spostamento della massa interna della Terra. signals) e sono già stati rilevati con misurazioni sismiche. Si ritiene che questi segnali potrebbero rivelarsi utilissimi per prevedere, o meglio, rilevare un terremoto prima che avvengano le scosse distruttive oppure prima che arrivino le onde di uno tsunami. Il problema è che questo effetto gravitazionale è debolissimo e quindi difficilmente percettibile. Si pensi che è equivalente a meno di un miliardesimo della gravità terrestre. Questo significa che possono essere misurati solo per i terremoti più grandi e distruttivi. Un team di ricerca ha creato uno nuovo algoritmo proprio per rilevare con maggiore precisione i segnali PEGS. L'algoritmo è stato descritto in un nuovo studio apparso su Earth and Planetary Science Letters. I ricercatori sono riusciti a fare previsioni più accurate sulla forza dei segnali che un terremoto provoca, in particolare quello relativo alla gravità oscillante che ogni terremoto produce. Questa gravità oscillante produce infatti un effetto di forza, a breve termine, sulle rocce e ciò innesca delle onde sismiche secondarie le quali possono essere rilevate prima di quelle primarie, ossia alle onde sismiche scatenate dal terremoto in sé. "Abbiamo affrontato il problema dell'integrazione di queste interazioni multiple per fare stime e previsioni più accurate sulla forza dei segnali", dichiara Torsten Dahm, capo della sezione Fisica dei terremoti e dei vulcani del Centro di ricerca tedesco GFZ per le geoscienze. "Rongjiang Wang ha avuto l'idea geniale di adattare un algoritmo che avevamo sviluppato in precedenza al problema PEGS - e ci è riuscito." In futuro l'algoritmo potrebbe essere utilizzato per capire se un terremoto può scatenare uno tsunami anche se gli stessi ricercatori ammettono che ad oggi gli strumenti di misurazione non sono ancora abbastanza sensibili per ottenere risultati del genere. |
Post n°2600 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet NOTIZIE SCIENTIFICHE. L'arido West americano si sposta sempre più verso est HOMETERRAGEOLOGIA E STORIA DELLA TERRA 14 Febbraio 2020 Geologia e storia della Terra, Top newsIl riscaldamento aumenta l'aridità e sposta i limiti di acqua ed energia dell'evapotraspirazione (credito: DOI: /10.1038/s41467-020-14688-0, Nature Communications) Una nuova ricerca apparsa su Nature Communications mostra che le caratteristiche aree aride e secche del West americano si stanno spostando sempre più verso est anche a causa della diminuzione delle acque sotter- ranee che sta accelerando la tendenza all'essiccazione. Sarebbero infatti circa 119 i milioni di metri cubi di acqua che gli Stati Uniti orientali avrebbero perso secondo i modelli realizzati dagli stessi ricercatori, un quantitativo di acqua sufficiente per riempire un quarto del lago Erie. La causa principale sarebbe naturalmente da addurre al riscaldamento globale in corso, come lascia intendere Reed Maxwell, professore di idrologia presso la Colorado School of Mines ed uno degli autori dello studio: "Anche con un caso di riscaldamento di 1,5 gradi Celsius, è probabile che perdiamo molta acqua sotterranea". Dal punto di vista dell'approvvigionamento dell'acqua, la costa orientale degli Stati Uniti potrebbe nei prossimi decenni iniziare ad apparire come la costa occidentale, qualcosa che risulterà una vera e propria sfida da risolvere. Questo studio è uno dei pochi che prendere in considera- zione la circolazione globale delle acque sotterranee per quanto riguarda il clima terrestre, in particolare per quanto riguarda le tendenze all'essiccazione del suolo. Molto spesso si prendono infatti in considerazione solo i movimenti d'acqua sulle superfici, le tendenze della pioggia e il movimento perpendicolare dell'acqua stessa che dalla parte sottostante può arrivare alla superficie. "Abbiamo chiesto come sarebbe la risposta se includes- simo l'intera complessità del movimento dell'acqua nel sottosuolo in una simulazione su larga scala, e pensiamo che questa sia la prima volta che è stato fatto", riferisce Laura Condon dell'Università dell'Arizona, l'autrice principale dello studio. I risultati mostravano che gli Stati Uniti orientali, rispetto a quelli occidentali, sono molto più sensibili all'abbassa- mento della falda freatica e alla diminuzione delle acque sotterranee, oltre che di quelle superficiali. Forti danni saranno arrecati alla vegetazione oltre che a tutti quegli ecosistemi che fanno ricorso ai corsi d'acqua e ai fiumi, comprese le comunità di esseri umani. Il punto di non ritorno potrebbe essere raggiunto dalle regioni degli Stati Uniti orientali quando la vegetazione inizierà perdere l'accesso alle acque sotterranee poco profonde. "Inizialmente, le piante potrebbero non sperimentare stress perché hanno ancora a disposizione acque sotterranee poco profonde, ma mentre continuiamo ad avere condizioni più calde, possono compensare sempre meno e i cambiamenti saranno più drammatici ogni anno", riferisce la Condon. "In altre parole, le acque sotterranee poco profonde stanno tamponando la risposta al riscaldamento, ma quando si esauriranno, non potranno più farlo" |
Post n°2599 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Infarto, nuovo trattamento con staminali rigenera vasi sanguigni e tessuto cardiaco 14 Marzo 2020 Genetica e biologia cellulare/ Un nuovo studio pubblicato su NPJ Regenerative Medicine descrive la scoperta relativa ad alcune cellule staminali nel corpo umano che potrebbero rivelarsi molto utili per trattare le condizioni che seguono ad un infarto. Queste cellule staminali, denominate cellule cardiopoietiche, possono riportare il muscolo cardiaco in funzione invertendo i cambiamenti causati dall'infarto stesso. Le cellule cardiopoietiche derivano da cellule staminali presenti nel midollo osseo. Andre Terzic, direttore del Centro di medicina rigenerativa della Mayo Clinic, spiega che il cuore non è capace da solo di riparare se stesso a seguito di un infarto perché i cambiamenti apportati dall'infarto stesso sono troppo grandi. La terapia che hanno ideato, basata sulle cellule staminali cardiopoietiche, sembra invertire, quasi in tutto, i cambiamenti apportati da questo tipo di patologie "in modo tale che l'85% di tutte le categorie funzionali cellulari colpite dalla malattia abbia risposto positivamente al trattamento". Kent Arrell, ricercatore cardiovascolare della Mayo Clinic nonché primo autore dello studio, spiega infatti che il trattamento con cellule staminali cardiopoietiche in topi colpiti da infarto provocava un vero proprio sviluppo nonché una crescita di nuovi vasi sanguigni e di nuovo tessuto cardiaco. Oltre alla terapia in sé, questo studio potrebbe rivelarsi utile per comprendere di più su come le cellule staminali possono avere un ruolo rigenerativo e sui meccanismi più reconditi che mettono in atto. |
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