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Messaggi del 27/03/2020

La dieta dei Neanderthaliani..

Post n°2656 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: Focus

Sorpresa, i Neanderthal mangiavano pesce

Trovati resti di cibo di mare in una grotta abitata da Neanderthal 80-100.000 anni fa circa, in Portogallo: cade l'ipotesi che la dieta marinara fosse essenzialmente tipica dei Sapiens.

La dieta dei Neanderthal includeva il pesceIllustrazione - Una famiglia di Neanderthal cucina la selvaggina in una grotta

: una ricerca ha scoperto che mangiavano anche cibo di mare. 

| GORODENKOFF / SHUTTERSTOCK  

Gli uomini di Neanderthal mangiavano le cozze alla brace.

E anche le vongole, i granchi, le orate, i cefali. In una grotta a sud di Lisbona,

un gruppo internazionale di archeologi ha scoperto che la dieta dei nostri cugini

preistorici non si basava solo sulla selvaggina cacciata sulla terraferma. Il menu,

invece, comprendeva anche cibi di origine marina. La sc

operta, pubblicata su Science, è rivoluzionaria: perché modifica l'immagine che

avevamo di questi ominidi, ritenuti a torto meno intelligenti e più arretrati

rispetto ai Sapiens.

Fino a oggi, infatti, i paleoantropologi erano convinti che la dieta a base di pesce

- ricca di omega 3 e di altri acidi grassi che favoriscono un buon sviluppo del

cervello - avesse permesso ai Sapiens di potenziare le proprie capacità cognitive,

il linguaggio e il pensiero astratto, prevalendo così sull'Homo neanderthalensis.

Invece, almeno dal punto di vista della dieta (e degli insediamenti sulle coste) i

Neanderthal lottavano ad armi pari coi Sapiens.


La dieta dei Neanderthal includeva il pesceL'ingresso della grotta di Figueira Brava (Portogallo), oggi a picco sul mare:

circa 100mila anni fa distava un km dalla spiaggia ed era abitata da una comunità

di uomini di Neanderthal. | PEDRO SOUTO

La scoperta è frutto di 10 anni di lavoro da parte di un gruppo di archeologi di

varie nazionalità guidato dal professor João Zilhão (Università di Barcellona, Spagna)

E vede fra i partecipanti anche un italiano, il professor Diego Angelucci, archeologo

dell'Università di Trento. «Per molto tempo», spiega Angelucci, «si è pensato che gli

insediamenti costieri fossero un'esclusiva dell'Homo Sapiens, nell'Africa meridionale.

E che solo i nostri diretti antenati si nutrissero di pesce.»


La dieta dei Neanderthal includeva il pesce

Alcuni dei resti di animali marini trovati dagli archeologi nella grotta di

Figueira Brava: (A) patelle, (B) vongole, (C) granchio, (D) vertebra di

delfino, (E) vertebra di squalo. | AC M. NABAIS, D ANTUNES ET AL.

2000, EJP RUAS

Due convinzioni cancellate dalle campagne archeologiche svolte nella

grotta di Figueira Brava, 30 km a sud di Lisbona: la grotta era frequentata

da neandertaliani fra 106mila e 86mila anni fa, in un'epoca interglaciale

con un clima temperato: la grotta, oggi a picco sul mare, distava all'epoca

oltre 1 km dalla costa.

Gli archeologi hanno trovato, sepolti dalle rocce, resti di pesci, molluschi e

crostacei (con segni di cottura rilevati al microscopio), ossa di uccelli marini

(germani reali, oche, cormorani) e di mammiferi acquatici (delfini e foche).

Come facevano gli ominidi a catturare queste prede? «Resta un mistero»,

risponde Angelucci: «forse usavano giavellotti con punta in selce scheggiata,

ma è probabile che usassero strumenti in legno e fibre vegetali, che non son

o sopravvissuti fino a noi. Va ricordato, comunque, che le coste portoghesi sono

molto ricche di pesce grazie alla circolazione delle correnti dell'Atlantico e alla

presenza di ampi estuari dei fiumi che vi sfociano: qui pescare è relativamente

facile.»

A conferma della loro ingegnosità, c'è un altro dettaglio: le pigne.

I Neanderthal raccoglievano pigne mature dai rami più alti dei pini domestici,

per conservarle nelle grotte.

Quando avevano bisogno di cibo, le avvicinavano al fuoco per aprirle ed estrarne

i pinoli.

.Resta da scoprire come combinassero questi ingredienti per le loro ricette

preistoriche.

26 MARZO 2020 | VITO TARTAMELLA

 
 
 

Il virus dai serpenti o dai mammiferi?

Post n°2655 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli


Cosa significa che il nuovo coronavirus cinese è arrivato dai serpenti (e perché alcuni hanno dubbi)Secondo uno studio condotto da ricercatori cinesi il nuovo coronavirus proviene da serpenti che erano in vendita al mercato di Wuhan. Ma alcuni scienziati hanno qualche dubbio. Ecco perché

coronavirus serpenti(foto: Rhona Wise via Getty Images)

26 morti, cinque città isolate, 830 persone contagiate.

Questi sono i numeri aggiornati al 24 gennaio delle persone colpite dalla nuova

polmonite in Cina, causata da un coronavirus finora sconosciuto (qui i rischi).

Per ora non si tratta di un'emergenza globale, rassicura l'Organizzazione mondiale

della sanità, dato che il problema è circoscritto alla Cina.

Ma gli scienziati si stanno dando da fare in tutti i modi per cercare di avere il

maggior numero possibile di informazioni sull'epidemia.

Uno studio condotto da ricercatori cinesi e uscito il 22 gennaio mostra che il

coronavirus proverrebbe da serpenti e sarebbe il frutto di una ricombinazione

di un coronavirus del pipistrello con un altro coronavirus di origine sconosciuta.

In pratica, i passaggi sarebbero: da pipistrello a serpente e da serpente a essere umano

, senza dimenticare che poi il virus passa da uomo a uomo.

La ricerca è pubblicata sul Journal of Medical Virology.

Ma altri scienziati esprimono dei dubbi sul fatto che l'animale responsabile

sia il serpente e le loro considerazioni sono pubblicate su Nature.

Ecco tutte le ipotesi.

Da dove viene il coronavirus

Il virus appartiene al genere dei coronavirus.

Questi patogeni possono causare un semplice raffreddore ma alcuni sono molto

temibili, come quelli che causarono la Sars provocando quasi 800 morti, e la Mers

almeno 500.

In questo caso si tratta di un virus diverso e nuovo.

Quando si è manifestato, i primi contagiati risultavano tutti assidui frequentatori

di un ampio mercato a Wuhan, il Huanan Seafood Wholesale Market, che vende

sia pesce e frutti di mare, sia animali selvatici vivi, inclusi pipistrelli, marmotte,

rane, ricci, uccelli, serpenti. Per questo l'Organizzazione mondiale della sanità

(Oms) e altre autorità hanno ritenuto che l'epidemia sia partita dal contatto con

 specie animali presenti in questo mercato, che è stato chiuso dal 1° gennaio 2020.

Il coronavirus da serpente

Una volta capito questo, gli scienziati si sono subito messi all'opera per cercare

di capire quale sia l'animale che più probabilmente ha trasmesso il virus all'essere

 umano.

I ricercatori cinesi hanno comparato la sequenza di rna del coronavirus dei pazienti

cinesi con le sequenze di altri 276 coronavirus rintracciati in varie specie animali in

tutto il mondo.

I risultati mostrano che si tratta di un coronavirus affine a quello che causò la Sars e

che il serpente risulta essere il principale serbatoio di questo virus.

Inoltre, si tratta di un virus ricombinante, ovvero il risultato di una combinazione

, una sorta di miscuglio genetico, di un coronavirus del pipistrello con un

coronavirus di origini sconosciute. Infine, secondo i ricercatori è avvenuta quella

che si chiama una trasmissione cross-specie, dove il patogeno salta da una specie

a un'altra e si stabilizza nel nuovo ospite. Lo stesso processo è avvenuto nel caso

della Sars, trasmessa dalla civetta delle palme all'essere umano per poi passare

alla trasmissione uomo-uomo.

I dubbi

Ma alcuni scienziati dubitano dell'ipotesi che la trasmissione del coronavirus

sia stata fra serpente ed essere umano. "Nessuna prova supporta il fatto che i

serpenti siano coinvolti", ha affermato su Nature David Robertson, virologo

dell'università di Glasgow. L'idea di Robertson, riportata sulla prestigiosa rivista,

è che è molto improbabile che il nuovo coronavirus, che sicuramente proviene da

mammiferi (nel nostro caso dal pipistrello), abbia infettato per un periodo un

animale secondario, non mammifero, come il serpente, così a lungo che il genoma

del virus possa risultare modificato. 

"Non ci sono prove coerenti della presenza di coronavirus

, ha aggiunto Paulo Eduardo Brandão, dell'università di San Paolo in Brasile.

Anche secondo Cui Jie, virologo del Pasteur Institute di Shanghai, la provenienza

è da mammiferi, e nel caso della Sars i coronavirus sono stati trovati soltanto in

questa classe di animali, quindi l'ipotesi più probabile è il pipistrello.

Ma il lavoro sul campo e analisi approfondite, che richiedono più tempo, sulle 

gabbie in cui erano tenuti gli animali al mercato di Wuhan, potranno dare una

risposta, secondo i ricercatori. Il tempo, insomma, fornirà un'indicazione più certa.

 
 
 

Altre news sul cv19 dei serpenti.

Post n°2654 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli


Virus Cina: è davvero colpa dei serpenti?Virus Cina: non tutta la comunità scientifica è convinta del legame tra i serpenti e la trasmissione del coronavirus all'uomo.

Serpenti arrostitiSerpenti arrostiti in vendita in un mercato cinese. | SHUTTERSTOCK  

AGGIORNAMENTO AL 24 GENNAIO, ORE 10:50.

 L'ipotesi che i serpenti abbiano fatto da "ospiti secondari"

del coronavirus non convince parte della comunità scientifica.

Come spiega un articolo su Nature, lo studio pubblicato sul 

Journal of Medical Virology ha sollevato critiche e perplessità

nei ricercatori che studiano i coronavirus, e che avevano

analizzato da vicino il virus della SARS.

Il virus in Cina (2019-nCOV) sembrerebbe strettamente

imparentato con il virus della SARS e fa parte di un sottogruppo

di coronavirus, quello dei Betacoronavirus, trasmessi soprattutto

da mammiferi.

Inoltre, storicamente non ci sono prove di nessun coronavirus

ospitato da animali diversi da mammiferi e uccelli.

Anche il metodo utilizzato per chiudere il cerchio sui serpenti è

contestabile.

Una delle strategie di adattamento dei virus consiste nel codificare

proteine usando le stesse triplette di nucleotidi (le unità base di

DNA e RNA) dell'animale ospite. Gli autori dello studio sui serpenti

hanno confrontato i nucleotidi scelti dal 2019-nCOV con quelle

di diversi animali, risalendo così ai rettili.

Tuttavia, è improbabile che il coronavirus, in origine ospitato

dai pipistrelli, abbia infettato un ospite secondario abbastanza

a lungo da mutare di nuovo il suo DNA in modo significativo.

Mentre le autorità locali e internazionali mettono a punto una

strategia per arginare il coronavirus, cercando di contenere il

contagio del virus in Cina, uno studio pubblicato su Journal of

Medical Virology formula un'ipotesi sulla sua origine.

Secondo i cinque ricercatori, autori dello studio, un ruolo importante

nella diffusione del nuovo coronavirus (i cui sintomi, nella prima

fase, vennero associati a una "misteriosa polmonite") sarebbe stato

giocato da serpenti - in particolare il cobra cinese e il bungaro cinese

- che entrano nella dieta di molti cinesi.

Secondo gli scienziati "i serpenti sono i più probabili animali selvatici

serbatoi del virus 2019nCoV (il nome dato al virus dall'Organizzazione

Mondiale della Sanità, ndr)".

Molte persone infettate dal cononavirus, infatti, risulterebbero aver

mangiato animali selvatici acquistati al mercato di Wuhan (ora chiuso),

dove venivano venduti, oltre a frutti di mare, anche pollame, serpenti,

pipistrelli e altri animali da allevamento.

 

Come accadde con le epidemie provocate da SARS e MERS (che

provocarono centinaia di morti), anche con questo 

nuovo coronavirus i primi pazienti hanno dunque acquisito il virus

direttamente dagli animali. Ciò è stato possibile perché il virus stesso,

mentre si trovava nell'ospite animale, deve aver mutato il suo codice

genetico, circostanza che gli ha poi permesso di infettare anche l'uomo.

Alcuni studi sul campo rivelarono poi che la fonte originale di SARS e

MERS era stata il pipistrello e che le civette della palma mascherate

(mammiferi originari dell'Asia e dell'Africa) e i cammelli avevano fatto

da ospiti intermedi tra pipistrelli e umani.

Lo studio del codice genetico di 2019-nCoV ha rivelato che anche in

questo caso il pipistrello potrebbe anche essere all'origine della diffusione

del virus: quest'ultimo sarebbe "passato" ai serpenti (lo confermerebbe

 un'analisi dei codici proteici) per poi arrivare all'uomo.

A supporto di questa ipotesi c'è il fatto che i serpenti sono "cacciatori"

di pipistrelli e che i serpenti stessi venivano venduti nel mercato locale

dei frutti di mare a Wuhan.

 
 
 

Il Cv19 dei serpenti...

Post n°2653 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

Il Coronavirus 2019-nCoV è arrivato all'uomo dai serpentiLo indica l'analisi della mappa genetica

    Redazione ANSA ROMA 29 gennaio 202013:37

    Il virus della Cina è arrivato all'uomo dai serpenti © ANSAFOTOIl virus della Cina è arrivato all'uomo dai serpenti -

    RIPRODUZIONE RISERVATA+CLICCA PER INGRANDIRE

    Il virus cinese 2019-nCoV è arrivato all'uomo dai serpenti:

    sarebbero questi gli animali nei quali il virus, trasmesso dai

    pipistrelli, si sarebbe ricombinato e poi passato all'uomo.

    Lo indica l'analisi genetica pubblicata sul Journal of Medical

    Virology da Wei Ji, Wei Wang, Xiaofang Zhao, Junjie Zai,

    e Xingguang Li, delle università di Pechino e Guangxi.

    La ricerca è stata condotta su campioni del virus provenienti

    da diverse località della Cina e da diverse specie ospiti. 

    Come è accaduto in passato con i virus dell'influenza aviaria

    e con la Sars, anche questa volta l'indice è puntato sui

    mercati di animali vivi molto comuni in Cina, dove accanto

    agli animali allevati nelle fattorie e ai pesci si vendono animali

    selvatici, come serpenti e pipistrelli.

    "I risultati della nostra analisi evoluzionistica suggeriscono

    per la prima volta che il serpente è il più probabile animale

    selvatico serbatoio del virus 2019-nCoV", scrivono i ricercatori.

    Le analisi genetiche aggiungono così una tessera fondamentale

    al mosaico della composizione genetica del virus 2019-nCoV,

    nel quale finora era chiaramente riconoscibile solo la sequenza

    della parte di virus ereditata dai pipistrelli e identificata fin

    dall'inizio come appartenente alla famiglia dei coronavirus, la

    stessa che comprende il virus della Sars, comparso nel 2002,

    e della Mers, del 2015; restava da risolvere il mistero della

    provenienza dell'altra metà del virus.

    Adesso è chiaro che il virus 2019-nCoV è un mix di un

    coronavirus proveniente dai pipistrelli e di uno che arriva dai

    serpenti e che da questi ultimi sarebbe passato agli esseri umani,

    adattandosi al nuovo ospite e acquisendo la capacità di

    trasmettersi da uomo a uomo. Ricombinandosi geneticamente

    nei serpenti, quindi, il nuovo virus ha fatto il cosiddetto 'salto di

    specie', acquisendo nuovi recettori che gli permettono di legarsi

    alle cellule del sistema respiratorio umano. "Le nuove informazioni

    ottenute dalla nostra analisi evoluzionistica - rilevano i ricercatori

    - sono molto importanti per il controllo dell'epidemia causata dalla

    polmonite indotta dal virus 2019-nCoV".

    RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

     
     
     

    Notizie sulla famiglia CV19..

    Post n°2652 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

    Fonte: articolo riportato dalle Scienze.

    06 febbraio 2020Comunicato stampa

    Coronavirus 2019-nCoV: la più grande meta-analisi di

    tutti i genomi sequenziati

    Fonte: Università di Bologna

    © Agf/Science Photo Library RF Realizzata all'Università di

    Bologna, conferma l'origine del virus nei pipistrelli e mostra

    una bassa eterogeneità: il virus è poco mutabile.

    Ma individua anche un punto di elevata variabilità

    La più grande meta-analisi realizzata di tutti i genomi finora

    sequenziati del coronavirus 2019-nCoV conferma la sua origine

    nei pipistrelli e mostra una bassa eterogeneità: il virus è poco

    mutabile.

    Al tempo stesso è stato però individuato un punto di elevata

    variabilità nelle proteine del virus, con l'esistenza di due

    sottotipi virali.

    Lo studio, pubblicato sul Journal of Medical Virology, è stato

    guidato da Federico M. Giorgi, ricercatore di bioinformatica al

    Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie dell'Università di Bologna.
     
    I dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità indicano che il

    coronavirus 2019-nCoV ha infettato fino ad oggi 24.554 persone,

    con 492 decessi confermati.

    Questo nuovo studio ha analizzato i genomi dei 56 coronavirus

    finora sequenziati da vari laboratori nel mondo, inclusi quelli

    derivanti dai due pazienti ricoverati in Italia, all'Istituto nazionale

    per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani: si tratta dello

    studio più esteso di genomica comparativa per questo nuovo virus

    finora realizzato.
     

    Albero filogenetico dei coronavirus analizzati nello studio.

    La linea blu raggruppa le sequenze del neocoronavirus 2019-nCoV

    umano.

    Evidenziate anche le sequenze del coronavirus di pipistrello

    (Bat CoV) e, a distanza evolutiva più elevata, dei virus responsabili

    per le patologie umane SARS e MERS

    I ricercatori hanno confermato la probabile origine del coronavirus

    da una variante animale: il parente più stretto dei virus isolati

    in queste settimane corrisponde infatti alla sequenza EPI_ISL_402131

    di un coronavirus di Rhinolophus affinis, un pipistrello asiatico

    di medie dimensioni, rinvenuto nella provincia dello Yunnan (Cina).

    Il genoma del nuovo coronavirus umano condivide almeno il 96,2%

    di identità con il suo probabile progenitore nel pipistrello, mentre si

    discosta molto di più dal genoma del virus umano responsabile

    della SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome), con una

    somiglianza dell'80.3%.
     
    I ricercatori hanno inoltre scoperto che tutti i coronavirus umani

    sequenziati fino ad oggi sono molto simili fra di loro, anche se

    provenienti da regioni diverse della Cina e del mondo: tutti i genomi

    ottenuti dai pazienti infettati dall'inizio dell'epidemia condividono

    un'identità di sequenza superiore al 99%.

    "Il virus è poco eterogeneo e mutabile: un dato ottimistico", spiega

    Federico M. Giorgi. "Il fatto che la popolazione virale sia uniforme

    ci dice che un'eventuale terapia farmacologica dovrebbe funzionare

    su tutti".
     
    Lo studio ha però anche identificato per la prima volta un singolo

    punto di elevata variabilità nelle proteine del virus, con l'esistenza

    di due sottotipi virali.

    Questi differiscono per un singolo aminoacido in grado di cambiare

    sequenza e struttura nella proteina accessoria ORF8, una componente

    del virus che non è ancora stata caratterizzata.
     
    Lo studio è stato pubblicato sul Journal of Medical Virology con il

    titolo "Genomic variance of the 2019-nCoV coronavirus".

    Gli autori sono Federico M. Giorgi, ricercatore al Dipartimento di

    Farmacia e Biotecnologie dell'Università di Bologna, e Carmine

    Ceraolo, studente della laurea internazionale in Genomics

    dell'Università di Bologna.

     
     
     

    La bomba atomica in Iran.

    Post n°2651 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

    Fonte: articolo riportato dalle Scienze

    10 febbraio 2020

    Quanto tempo servirebbe all'Iran per costruire una bomba atomica?

    di Davide Castelvecchi/Nature

    Centrale nucleare di Bushehr, in Iran

    (© IIPA via Getty Images) Con un accordo internazionale

    seriamente in pericolo, le capacità dell'Iran di costruire

    armi nucleari stanno di nuovo aumentando.

    Tuttavia non ci sono prove solide che il paese stia lavorando

    attivamente verso questo obiettivo o che sia già in grado di

    farlo velocemente

    L'Iran ha accumulato 1200 chilogrammi di uranio arricchito,

    più che raddoppiando la scorta che aveva appena tre mesi fa,

    secondo le dichiarazioni fatte il 25 gennaio di un alto funzionario

    dell'Organizzazione iraniana per l'energia atomica.

    Basterebbero per costruire una bomba atomica, se l'uranio

    venisse ulteriormente raffinato per renderlo adatto a un uso

    militare, con un processo che potrebbe richiedere solo due o

    tre mesi, dice David Albright, esperto di politica nucleare

    all'Institute for Science and International Security di Washington.

    Ma la costruzione di armi vere e proprie richiederebbe molto

    più tempo, aggiunge.

    Se fosse confermata, la velocità con cui aumentano le scorte

    di uranio dell'Iran "cambia radicalmente le cose", aggiunge

    Albright.

    Ma lui e altri avvertono che non ci sono prove che l'Iran stia

    cercando di costruire una bomba, almeno non ancora.

    Nelle ultime settimane, le tensioni tra Iran e Stati Uniti sono

    cresciute.

    Il 3 gennaio, un attacco con droni degli Stati Uniti ha ucciso

    Qasem Soleimani, l'architetto chiave dell'influenza militare

    regionale dell'Iran.

    In risposta l'Iran ha lanciato missili contro le basi statunitens

    i in Iraq.

    Il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l'accordo del

    2015 tra l'Iran e sei potenze globali che ha limitato le sue

    capacità nucleari in cambio della revoca delle sanzioni economiche,

    è ora in grave pericolo.

    Il presidente statunitense Donald Trump si è ritirato dall'accordo

    nel maggio 2018, e nel maggio dello scorso anno l'Iran ha

    annunciato che avrebbe ripreso l'arricchimento dell'uranio.

    "Nature" ha interpellato alcuni esperti di nucleare per scoprire

    in quanto tempo l'Iran può costruire una bomba e se è probabile

    che questo accada.

    L'Iran ha cercato di costruire armi nucleari in passato?

    Costruire armi nucleari è costoso e richiede competenze tecniche,

    come l'arricchimento dell'uranio. L'isotopo fissionabile uranio-235,

    che costituisce meno dell'uno per cento dell'uranio naturale,

    deve essere separato dall'uranio-238, che è di gran lunga l'isotopo

    più comune.

    L'Iran ha una forte tradizione nel campo della fisica e ha un

    programma nucleare attivo da decenni.

    Il paese ha sempre sostenuto che si trattava di un programma

    a scopi puramente pacifici, come la produzione di isotopi per

    uso medico.

    Ma all'inizio degli anni duemila, secondo valutazioni dei servizi

    segreti statunitensi e di osservatori internazionali, l'Iran sembrava

    avere un programma rapido e intensivo per costruire almeno cinque

    bombe a fissione all'uranio.

    Attorno al 2005, i rapporti dell'Agenzia internazionale per l'energia

    atomica (o IAEA, da International Atomic Energy Agency) delle

    Nazioni Unite suggerivano che l'Iran avrebbe potuto lavorare attiva-

    mente alla costruzione di un arsenale nucleare.

    Sarebbe una violazione del Trattato di non proliferazione nucleare

    (o TNP, da Non-Proliferation Treaty) del 1968, che l'Iran ha firmato.

    Nel 2003, cedendo alle pressioni internazionali, il paese ha accettato

    di ridurre drasticamente, ma non completamente, le sue attività

    nucleari.

    L'accordo del 2015 ha ridotto le capacità nucleari dell'Iran?

    Al 2015, il paese disponeva di scorte per 11 tonnellate di esafluoruro

    di uranio arricchito fino al 20 per cento di uranio-235. L'uranio per

    uso militare deve essere arricchito al 90 per cento.

    L'uranio è comunemente processato come gas esafluoruro di

    uranio, che viene separato per isotopi in centrifughe ad alta velocità,

    e l'Iran aveva più di 10.000 di queste centrifughe.

    Quando nel luglio 2015 è stato firmato il JCPOA, gli esperti avevano

    stimato che il paese era lontano mesi, forse settimane, dalla

    produzione di uranio per uso militare.

    Ma il JCPOA ha costretto l'Iran a spedire la maggior parte

    delle sue scorte all'estero e a mettere in naftalina la maggior

    parte delle sue centrifughe. L'obiettivo era in parte allungare

    di almeno un anno il cosiddetto breakout time, cioè il tempo

    necessario all'Iran per accumulare materiale fissile sufficiente

    per una bomba.

    L'accordo ha anche sottoposto l'Iran a un rigoroso regime di

    ispezioni dell'IAEA. Negli anni successivi, l'agenzia ha

    periodicamente riferito che l'Iran stava rispettando pienamente

    l'accordo.

    Il JCPOA è stato anche una "grande vittoria" per gli sforzi di

    non proliferazione globale, dice Seyed Hossein Mousavian,

    che era il portavoce del gruppo di negoziazione nucleare

    dell'Iran nel 2003.

    Più di 200 scienziati nucleari hanno lavorato per anni sui

    dettagli tecnici", dice Mousavian, ora esperto di politica

    nucleare alla statunitense Princeton University.

    Di conseguenza, dice, il regime di ispezione dell'Iran è più

    dettagliato di quello descritto nel TNP, che potrebbe rendere

    l'accordo del 2015 un precedente e un modello per i futuri

    accordi di disarmo.

     
     
     

    Notizie sui rifiuti radioattivi.

    Post n°2650 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

     

    29 gennaio 2020

    L'inaspettata corrosione dei fusti nucleari

    © Chromorange Photostock / AGF Una simulazione

    delle condizioni di stoccaggio dei rifiuti nucleari ha

    evidenziato un processo accelerato di corrosione

    sulla superficie di contatto tra l'acciaio dei fusti e il loro

    contenuto radioattivo.

    La scoperta mette in discussione i progetti di depositi per

    scorie a elevata attivitàI metodi stoccaggio a lungo termine

    delle scorie nucleari potrebbero essere meno affidabili e

    duraturi di quanto ritenuto.

    Il loro punto debole, finora sottovalutato, è la corrosione dei

    fusti di acciaio inossidabile che viene accelerata, in ambiente

    acquoso, dal contatto con le scorie contenute negli stessi fusti.

    L'allarme è stato lanciato da uno studio pubblicato su "Nature

    Materials" da Xiaolei Guo e colleghi dell'Ohio State University

    a Columbus, negli Stati Uniti, che richiama l'attenzione sulla

    necessità di riconsiderare attentamente l'interazione tra i diversi

    materiali che si progetta di usare in questo delicato campo di

    gestione delle scorie radioattive militari e civili.

    Questi nuovi risultati riguardano in particolare lo smaltimento

    definitivo dei rifiuti radioattivi di elevata attività, cioè quelli

    che rimarranno pericolosi per gli esseri umani e per l'ambiente

    ancora per centinaia di migliaia di anni.

    Quasi tutte le nazioni con attività nucleari hanno in progetto lo

    stoccaggio in siti geologici profondi.

    Questo metodo, considerato da alcuni esperti uno dei più sicuri,

    prevede l'immagazzinamento in appositi siti che, per le loro

    caratteristiche intrinseche, garantirebbero un isolamento dalle

    attività umane e una stabilità su tempi molto lunghi.

    Prima di essere accumulate, le scorie a elevata attività sono

    trattate, poi imprigionate nel vetro o nella ceramica e infine

    sigillate in contenitori di acciaio inox per impedirne l'interazione

    con l'ambiente.

    Il problema è che gli attuali standard di sicurezza di questi

    metodi di stoccaggio valutano la corrosione dei singoli gruppi

    di materiali in modo indipendente, trascurando le potenziali

    interazioni tra materiali diversi che si trovano a contatto nei

    fusti.

    Guo e colleghi hanno considerato l'interfaccia tra la superficie

    interna dei fusti di acciaio e le scorie e ne hanno studiato la

    corrosione in condizioni di deposito simulato per 30 giorni.

    Hanno scoperto così che la corrosione di vetro e ceramica è

    notevolmente accelerata proprio nell'area di contatto tra

    scorie e acciaio inossidabile.

    Un deposito per i rifiuti radioattivi

    di Giovanni Zagni e Davide Maria De Luca

    In sostanza, con il raffreddamento delle scorie depositate in

    un ambiente acquoso, fenomeni corrosivi localizzati dell'acciaio

    dei fusti potrebbero far percolare acqua al loro interno, nello

    spazio confinato tra la superficie di acciaio e la massa vetrosa.

    La dissoluzione dell'acciaio genera cationi metallici, ovvero

    ioni metallici con carica elettrica positiva, che vanno incontro a

    idrolisi, producendo protoni.

    Questi aumentano fortemente l'acidità locale, che a sua volta

    rinforza la corrosione dell'acciaio e provoca quella del materiale

    vetroso e di conseguenza la liberazione delle specie radioattive.

    Un processo molto simile si verifica anche nella ceramica.

    Gli autori sostengono che un simile effetto di promozione

    della corrosione potrebbe, a lungo andare, portare al rilascio

    di materiale radioattivo nell'ambiente.

    Questo rischio, finora trascurato, dovrebbe essere considerato

    attentamente nelle valutazioni dei materiali destinati allo

    stoccaggio delle scorie. (red)

     
     
     

    Come si difonde il contagio da cv.19

    Post n°2649 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

    Fonte: articolo riportato dalle Scienze

    17 marzo 2020Comunicato stampa

    Modelli matematici per la previsione della diffusione dell'epidemia COVID-19

    Fonte: Cnr-Iac

    Kateryna Kon/Spl Una ricerca dell'Istituto per le applicazioni del calcolo del

    Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iac) sta analizzando su base giornaliera

    l'evolversi della diffusione dell'epidemia di COVID-19 in Italia.


    In questi ultimi giorni, una ricerca dell'Istituto per le applicazioni del calcolo del

    Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iac), condotta da Giovanni Sebastiani in

    collaborazione con Marco Massa dell'Imperial College di Londra, sta analizzando

    su base giornaliera l'evolversi della diffusione dell'epidemia di COVID-19 in Italia

    . I dati utilizzati sono quelli ufficiali resi disponibili dalla Protezione Civile.

    La strategia adottata prevede lo studio del fenomeno di diffusione del contagio

    attraverso modelli e metodi matematici e statistici di diverso tipo.


    Il primo approccio utilizza modelli parametrici e, in particolare, quello geometrico

    e quello logistico, che caratterizzano tipicamente l'evoluzione delle epidemie.

    In alternativa, è stato considerato un modello matematico a "compartimenti",

    usualmente utilizzato in epidemiologia. Alle tradizionali categorie, i "suscettibili"

    di essere infettati, gli infetti, i guariti e i deceduti, si affiancano ora i ''portatori sani''

    , non rilevabili dai dati, ma ben presenti sul territorio.

    Per questi due approcci, i dati aggregati a livello di provincia a disposizione sono

    sufficienti per stimare i parametri dei modelli ed effettuare previsioni sulle principali

    caratteristiche del fenomeno di diffusione dell'epidemia, ad esempio la durata,

    la percentuale di infetti e di morti.

    I principali risultati ottenuti analizzando i dati fino al 16 marzo hanno permesso

    di rilevare negli ultimi giorni una seppur modesta diminuzione del tasso di crescita

    della frazione di contagiati osservati in Lombardia.

    A livello di provincia, questo accade per cinque delle sei più colpite: Bergamo,

    Brescia, Cremona, Lodi e Milano, mentre per Pavia non c'è sinora evidenza di

    una diminuzione del tasso. Tra 6 o 7 giorni ci aspettiamo di vedere una significativa

    riduzione del tasso di crescita, dovuto alle misure di limitazione della mobilità

    contenute nel decreto ''Io resto a casa'' dell'11 marzo.


    Stesse considerazioni possono essere fatte a partire dai risultati delle regioni del

    centro Italia non confinanti con la Lombardia: Toscana, Umbria, Marche, Lazio

    ed Abruzzo.

    Per le regioni del Sud, escluse Basilicata e Molise, dove i numeri sono ancora ridotti,

    si osserva un aumento del tasso di crescita avvenuto dopo una precedente diminuzione.

    Tale aumento è purtroppo avvenuto 3-4 giorni dopo l'esodo dal Nord al Sud

    dell'8 marzo, giorno dell'approvazione del decreto che istituiva la zona rossa in Lombardia.

    Probabilmente, gli effetti dell'esodo hanno influito negativamente sul contagio.

    Infine, analizzando i dati disponibili finora secondo il primo approccio, si stima

    che la stabilizzazione della frazione dei contagiati si avrà in un intervallo compres

    o tra il 25 marzo e il 15 aprile.

    Queste stime - va evidenziato - sono soggette a grande incertezza a causa di vari

    fattori in gioco e vanno ricalibrate di continuo a seconda dei dati disponibili e dei

    cambiamenti nei comportamenti individuali a seguito dei decreti governativi.

     
     
     

    Rewind materials..

    Post n°2648 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

    Fonte: artcolo riportato dalle Scienze

    29 ottobre 2019Comunicato stampa

    Rewind Materials, modifiche reversibili su materiali magnetici

    Fonte: Cnr-Iom©iStock/Anna Bliokh Modificare la forma di un oggetto

    e poi tornare indietro è possibile.

    Questo il risultato di uno studio svolto da un gruppo di

    ricercatori provenienti da diverse realtà di ricerca, pubbliche

    e private: l'Istituto officina dei materiali del Consiglio

    nazionale delle ricerche (Cnr-Iom), il Sincrotrone Elettra,

    l'università di Milano, il Politecnico di Milano, l'Istituto di

    Nanoscienze di Modena l'azienda nanotec, A.P.E. Research,

    spin-off del Cnr. Il lavoro è stato pubblicato e compare sulla

    copertina di "Advanced Electronic Materials"

    Sembra che sia possibile modificare la forma di un oggetto,

    e poi tornare indietro alla sua forma iniziale.

    O almeno questa è una delle più futuristiche applicazioni di

    uno studio condotto da un gruppo di scienziati attivi nel mond

    della ricerca e in quello industriale, e recentemente pubblicato

    su "Advanced Electronic Materials".

    "Si tratta di attivare un processo reversibile, attraverso il

    quale modifichiamo le proprietà morfologiche di un oggetto

    sulla base di semplici impulsi elettrici provenienti da un pc

    o da uno smartphone", spiega Piero Torelli dell'Istituto officina

    dei materiali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iom).

    In particolare il fenomeno qui studiato prevede la possibilità

    di creare delle 'terrazze' di altezze diverse in un materiale

    magnetico. Ma questo cosa vuol dire?

    "Esponendo un materiale speciale (appartenente alla classe

    dei multiferroici) a un campo elettrico è possibile modificarne

    la superficie, in modo da creare su di essa degli scalini di altezza

    di circa 100nm.

    Questi scalini poi possono essere cancellati invertendo la tensione

    del campo, ottenendo una superficie piatta e pronta per la

    successiva applicazione", conclude Piero Torelli.  

    Grazie alle diverse specializzazioni dei vari partner della ricerca

    è stato possibile usare differenti tecniche per l'analisi di questi

    materiali.
    "Sono stati impiegate le risorse di crescita, nanofabricazione,

    caratterizzazione di superficie e spettroscopia con luce di sincro-

    trone dell'infrastruttura NFFA (Nano Foundry and Fine Analysis)

    presso il Cnr-Iom, il microscopio a forza atomica (Afm) pe

    r misurare la morfologia del campione e ottenerne un'immagine

    tridimensionale.

    Infine il microscopio ottico è stato usato per misurare in tempo

    reale il cambiamento della superficie", spiega Stefano Prato,

    uno degli autori e il fondatore di A.P.E. Research.

    La ricerca si inserisce nel campo dei materiali magnetici

    ulabili ma la scoperta delle modifiche morfologiche è innovativa

    e apre nuove prospettive in un campo già molto ricco di possibili

    applicazioni tecnologiche.

    In particolari i risultati raggiunti aggiungono una nuova possibilità

    nella progettazione di dispositivi magnetici a controllo elettrico.

     
     
     

    Sullo squalo bianco...

    Post n°2647 pubblicato il 27 Marzo 2020 da blogtecaolivelli


    12 febbraio 2020

    Comunicato stampa

    Il grande squalo bianco abita il Mediterraneo da almeno

    3,2 milioni di anniFonte: Università di Bologna

    Uno dei reperti storici dello squalo bianco in laboratorio

    (© Università di Bologna) Un gruppo internazionale di

    ricercatori guidato dall'Università di Bologna è riuscito a

    ricostruire la complessa storia evolutiva di questo grande

    predatore dei mari confrontando i dati genetici ottenuti

    dall'analisi di reperti storici come denti, mascelle e vertebre.

    Ma dai risultati emerge anche che la popolazione

    mediterranea è oggi a rischio di estinzione

    ANIMALI GENETICA

    Il grande squalo bianco nuota nelle acque del Mediterraneo

    da almeno 3,2 milioni di anni, molto più a lungo di quanto

    ipotizzato finora.

    E la popolazione presente oggi nel Mediterraneo è genetica-

    mente più simile agli squali bianchi che abitano l'Oceano

    Pacifico rispetto ai loro vicini dell'Oceano Atlantico.

     Partendo dall'analisi di reperti custoditi nei musei e trofei

    storici, un gruppo internazionale di ricercatori guidato da

    studiosi dell'Università di Bologna è riuscito a sequenziare

    il DNA della popolazione di squali bianchi presenti nel

    Mediterraneo ricostruendo, con un approccio che combina

    genetica e modelli matematici, la loro inusuale storia evolutiva.

    E lanciando un allarme per la loro possibile estinzione.

    Lo studio è stato pubblicato sul "Journal of Biogeography". 

    "La storia evolutiva delle popolazioni di squalo bianco è molto

    complessa: un caso peculiare che ha dato vita ad una serie

    di popolazioni stanziali distribuite attorno al globo, tra cui la

    popolazione di squali bianchi del Mare Nostrum, che è unica

    nel suo genere", spiega Agostino Leone, ricercatore

    dell'Università di Bologna, primo autore dello studio.

    "Gli squali bianchi oggi presenti nel Mediterraneo, però,

    mostrano un tasso di variabilità genetica molto basso, e

    questo potrebbe indicare un gruppo di esemplari molto

    piccolo, in pericolo di estinzione". 

    REPERTI STORICI E DNAIl grande squalo bianco (nome

    scientifico Carcharodon carcharias) è il più grande pesce

    predatore esistente sul pianeta: può arrivare a superare

    i 6 metri di lunghezza per oltre una tonnellata di peso.

    Oggi se ne possono trovare esemplari al largo del Sudafrica,

    dell'Australia e della Nuova Zelanda, del Giappone e del

    Nord e Sud America, oltre che nel Mediterraneo.

    Nonostante però sia un animale iconico, protagonista di

    film e documentari di grande successo - dal celebre

    "Lo squalo" di Spielberg in avanti -, la sua storia è ancora

    poco conosciuta. Lo squalo bianco del Mediterraneo, in

    particolare, è stato fino ad oggi poco studiato, a causa di una

    popolazione che nell'ultimo secolo è molto diminuita, cosa

    che ha reso difficile trovare esemplari da analizzare.

    Per superare questo problema, i ricercatori protagonisti di

    questo nuovo studio hanno allora pensato di rivolgersi ai

    musei e alle collezioni private italiane che custodiscono

    reperti storici di squali bianchi come denti, mascelle e

    vertebre risalenti agli ultimi due secoli.

    Grazie a nuove tecnologie che permettono lo studio del

    genoma antico, gli studiosi sono così riusciti a ricostruire

    sequenze del DNA mitocondriale di diversi squali bianchi

    del Mediterraneo da confrontare con quelle delle altre

    popolazioni presenti sul pianeta.

     "Questi nuovi dati ci hanno permesso di osservare la

    diversità biologica della popolazione mediterranea di

    squalo bianco", dice Agostino Leone. "Analizzando e

    confrontando sequenze di DNA di esemplari diversi, siamo

    riusciti a calcolare che la popolazione di squali bianchi del

    Mediterraneo ha iniziato ad accumulare le mutazioni che

    l'hanno differenziata dalle altre popolazioni globali intorno

    a 3,2 milioni di anni fa, smentendo così le credenze passate

    sulla colonizzazione del Mediterraneo da parte di questa

    specie solo a partire da circa 450 mila anni fa". 

    DAL PACIFICO AL MEDITERRANEO

    Un'origine così antica - molto più antica di quanto si pensava

    fino ad oggi - ha permesso inoltre di confermare che lo squalo

    bianco del Mediterraneo è più simile agli squali bianchi che

    abitano l'Oceano Pacifico rispetto a quelli del vicino Oceano

    Atlantico.

    Un'affinità che si può spiegare solo ricostruendo il lungo percorso

    di colonizzazione di questo grande predatore attraverso gli oceani.

     Secondo gli studiosi, la popolazione di squali bianchi che oggi

    vive nel Mediterraneo discenderebbe da esemplari provenienti

    dall'Oceano Pacifico, che passarono nell'Atlantico attraverso il

    canale del Centro America prima della formazione dell'Istmo di

    Panama, arrivando poi anche nel Mediterraneo.

    Quando però circa 3,5 milioni di anni fa la nascita dell'Istmo di

    Panama chiuse il canale tra Nord e Sud America, l'Oceano

    Atlantico subì forti cambiamenti climatici che portarono

    all'estinzione di molte specie marine, tra cui probabilmente anche

    lo squalo bianco.

    L'Atlantico si sarebbe quindi ripopolato di squali bianchi solo in

    tempi recenti, probabilmente grazie a migrazioni di esemplari

    dal Sudafrica: da qui la differenza genetica attuale con gli squali

    bianchi del Mediterraneo. 

    C'è infine un altro aspetto, molto preoccupante, emerso dallo

    studio del DNA dello squalo bianco del Mediterraneo: il basso

    tasso di variabilità genetica tra esemplari diversi.

    Un dato che suggerisce la presenza di una popolazione molto

    piccola e quindi in pericolo di estinzione. "

    La popolazione mediterranea di squalo bianco è probabilmente

    una piccola comunità in pericolo", conferma Agostino Leone.

    "È molto importante mettere in campo azioni per salvarla:

    la sua scomparsa sarebbe senza dubbio molto dannosa per

    gli equilibri ecologici del Mediterraneo e per la già precaria

    situazione a livello globale di questi maestosi predatori del

    mare".

     I PROTAGONISITI DELLO STUDIO

    Lo studio è stato pubblicato sul Journal of Biogeography con il

    titolo "Pliocene colonization of the Mediterranean by Great White

    Shark inferred from fossil records, historical jaws, phylogeographic

    and divergence time analyses".

    La ricerca è stata realizzata da un gruppo internazionale di studiosi

    coordinati da Fausto Tinti, Alessia Cariani e Agostino Leone del

    Laboratorio di Genetica e Genomica delle Risorse e dell'Ambiente

    Marino (GenoDREAM) del Dipartimento di Scienze Biologiche,

    Geologiche e Ambientali dell'Università di Bologna.

    Per l'Università di Bologna hanno collaborato inoltre studiosi del

    Museo di Anatomia Comparata e del Dipartimento

    di Beni Culturali. 

     
     
     

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