come le nuvole
le guardi e credi di poter parlare di loro, di aver catturato la loro essenza ed ecco che sono altro e ancora altro e non le puoi incasellare, descrivere e neppure toccare...
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Post N° 372Questo racconto partecipa (in forma condensata) alla iniziativa della dolce Elliy, alias Tuttiscrittori ![]()
L’articolo sulla rivista “Belle fuori e levigate dentro” , dall’accattivante titolo “Come essere bio ed appetibili per un lui a dieta da carboidrati” era chiaro e dettagliato. La maschera rigenerante, elasticizzante, nutriente e definitiva “Paris Hilton” doveva essere applicata con fede assoluta nei risultati promessi e lei poteva definirsi tranquillamente una “credente”. Allo yogurt bianco bisognava aggiungere della polpa di anguria ben gelata, schiacciata con una forchetta e poi, così come faceva la Hilton nella foto a colori, quella con indosso un lezioso grembiulino che le copriva a malapena il culo, si doveva energicamente mescolare il tutto con un cucchiaio abbondante di miele d’acacia. Quindi, dopo aver inserito nel lettore il cd di musica chill out allegato alla rivista e “tuo” per la modica cifra di 10 euro (ammazza, però!), distesa per mezzora, gambe all’aria, aspettare fiduciosi che l’intruglio, spalmato sul viso ben deterso, facesse il suo prorompente effetto. In una ottica di ammortizzamento dei tempi morti, la ragazza decise di concedersi anche un impacco all’olio di oliva sui capelli. Indossò pertanto la consueta maglia informe, fedele amica di tutti i suoi esperimenti estetici (quella ricolma di eclettiche macchie di coloranti e creme dagli ingredienti misteriosi), mise ai piedi le coordinate tappine blu a pois rosa, veri must di arte pop (che sua madre aveva osato definire simili ad “allucinazioni da LSD”), avvolse i lunghi capelli nella pellicola trasparente della cucina e si distese ubbidiente, chiudendo gli occhi per meglio concentrarsi sull’oggetto delle sue brame. Per Barbara, ragazza determinata e romantica, il ragazzo in questione era del tutto simile all’ uomo della pubblicità che “non deve chiedere mai” e persino gli sguardi che le scoccava le sembravano provenire, rudi e seducenti, come da sotto il cappello a falde larghe di un Marlboro man, cicca e cavallo compresi. Spesso la notte se lo sognava, e allora lo vedeva con indosso un attillato costumino bianco, mentre insieme ondeggiavano su di un canotto tra due alti faraglioni. In talune altre occasioni oniriche lui sussurrava persino (muscoli al Baby Jhonson Oil ben in vista), “Baby, se tu hai un problema, io potrei essere la soluzione”. Questi erano solitamente sogni piuttosto infuocati. Agli occhi di Barbara il “gringo” aveva un solo handicap: si chiamava Pasquale. Non ricordava nessuna trama di film, né spot pubblicitario, nè strofa di canzone con un qualche riferimento a quel nome. L’unica cosa che le veniva in mente era il De Curtis, in arte Totò, mentre prendeva schiaffoni da uno che lo chiamava Pasquale e non se la prendeva perché, tanto, lui “mica era Pasquale!”. Pur di sedurlo Barbara aveva adottato il collaudato metodo da se medesima denominato alla “Greta Garbo” e ritenuto, da una percentuale significativamente alta delle sue amiche, assolutamente infallibile. Esso si sostanziava in atteggiamenti di finta indifferenza, in arie finto algide, in comportamenti finto disinteressati, in pose plastiche, simil spontanee, ma assunte dopo una accurata ricerca del profilo migliore. Il metodo prevedeva anche sottili messaggi subliminali inviati da mani che accarezzavano languide i capelli, dita passate morbide sulle labbra, gambe accavallate maliziosamente e sguardi assassini i cui sottotitoli, come nel cinema muto, portavano la scritta: “ Baby, com’è che non mi stai ancora baciando?”. Pasquale, come da copione, già mostrava consistenti segnali di cedimento strutturale e quella sera Barbara sperava, grazie a Paris e ai suoi consigli estetici, di sferrare l’attacco finale. Il trattamento tuttavia stava durando già da una decina di minuti, eppure l’ agognato relax, indispensabile alla perfetta levigatura dell’epidermide, era ancora piuttosto di là da venire. C’era troppo caldo e Barbara sentì lo yogurt, frammischiato al miele, scenderle lento ed appiccicoso dietro le orecchie e sul collo. Ciocche di capelli, gocciolanti olio, univano il loro penetrante effluvio con quello dolce dell’ anguria rossa ed iniziò ad avere un po’ di nausea. Sentì allora una certa irritazione montarle lentamente dentro (quasi come Meryl Streep in “She, the devil”). E fu per questo che, quando il campanello suonò, andò ad aprire la porta in versione Jack Nicholson- “Shining” , volgarmente anche definibile “come una furia d’inferno”. Si concesse persino un poco elegante e stentoreo - Ma chi camurria è, a quest’ora? Che fu udito, raccontano le cronache condominiali, fino al settimo piano. Davanti ai suoi occhi increduli, sul pianerottolo, c’era un inatteso Pasquale che, tale quale a George Clooney, senza però il Martini, la guardava “alloccuto” in un momentaneo, surreale, istante di silenzio. Poi, non appena il baldo giovane ebbe realizzato chi fosse colei che, in quel momento, stava interpretando la parte del Mostro della Laguna Nera (per di più affetto da una forma repellente di peste cocomerosa a chiazze rosse), scoppiò in una irrefrenabile risata che travolse, come una ondata di Acquafresch, ogni velleità da Ava Gardner della ragazza. Barbara realizzò con disappunto come, nei paraggi, non vi fosse alcuna tenda di broccato rosso, cui aggrapparsi per dare dignità plastica (alla Eleonora Duse), alla sua disperazione di ex “femme fatale”. |
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