Creato da: MICHELEALESSANDRO il 15/07/2012
PREISTORIA UMANA E TRADIZIONALISMO INTEGRALE

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POPOLAZIONI ATTUALI E POPOLAZIONE ANCESTRALE / KHOISANIDI ED ETIOPICI

Post n°12 pubblicato il 12 Agosto 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Abbiamo visto come nelle analisi genetiche vi siano modi diversi di costruire gli alberi evolutivi, il che dipende anche e soprattutto dall’ipotesi di partenza della maggiore uniformità, o meno, del tasso di mutazione generale.

Dal punto di vista del DNA mitocondriale (trasmesso per via materna) e del cromosoma Y (presente nei soli individui di sesso maschile) i ricercatori che partono dall’assunto – come abbiamo visto, tuttaltro che certo – di un tasso di mutazione costante in tutte le popolazioni mondiali, sembrano poter individuare nei Khoisan la popolazione attuale che può essere considerata come la più diretta discendente della popolazione protoafricana ancestrale e quindi, in un’ottica afrocentrica, di quella mondiale. Se però tra Africa ed Asia si preferisce piuttosto dare maggior importanza, ad esempio, alla popolazione con il mtDNA più simile alla media di tutte le popolazioni mondiali, come abbiamo già visto sembrerebbe essere l’Asia la più probabile culla primordiale; in tal caso, la notevole divergenza dei Khoisan andrebbe spiegata come il risultato di una specifica accelerazione nella velocità di mutazione di quel particolare gruppo.

Riformulata in altri termini, la questione può, a nostro avviso, essere quindi riassunta nella seguente domanda: quelle popolazioni attuali nelle quali i genetisti ritengono di poter ravvisare un maggior numero di mutazioni intervenute rispetto al gruppo ancestrale, vanno considerate più antiche di tutte le altre, in quanto separatesi prima dal tronco comune (nella prospettiva di un tasso costante di mutazione per tutti) o, invece, vanno considerate piuttosto come quelle che, rispetto ad altre odierne, si sono geneticamente allontanate di più dai progenitori comuni (nella prospettiva di un tasso di mutazione variabile, che nel loro caso avrebbe accelerato il ritmo evolutivo) ?

Comunque, la popolazione singolarmente “più mutata” verrebbe rappresentata, nell’albero genetico, come un ramo a parte, staccatosi in un punto molto vicino alla radice della struttura e particolarmente lungo, raffigurato come parallelo ai rami delle altre popolazioni (se scegliamo l’ipotesi della maggior “antichità”) o nettamente divergente in direzione laterale (se scegliamo l’ipotesi della maggior “devianza”); ma, in ogni caso, riteniamo ci sia da chiedersi quanto un ramo geneticamente “lungo” – perché, pur sempre, portatore di un maggior numero di mutazioni rispetto ad altri – possa effettivamente aiutarci a capire quale possa essere stato l’aspetto della popolazione ancestrale rispetto a quelle odierne. Ad esempio, Nicholas Wade ammette significativamente che anche africani ed australiani, che considera popolazioni molto antiche in quanto rappresentano i rami più lunghi dell’albero genetico delle popolazioni mondiali (quindi nella prospettiva di un tasso evolutivo grossomodo costante per tutti), potrebbero differire considerevolmente dalla popolazione ancestrale che ha generato tutti noi.

La posizione genetica dei Khoisan è per Cavalli Sforza intermedia tra quella degli  africani e degli asiatici occidentali, ed il ricercatore ci segnala comunque come questi (analogamente anche ai Pigmei, dei quali parleremo più avanti) si ritrovino a “deviare dal tipo africano principale”; di conseguenza, dal suo punto di vista, le popolazioni boscimanoidi non appaiono come le migliori candidate per rappresentare oggi l’erede più diretto dei protoafricani ancestrali, propendendo piuttosto per una loro origine derivante da un’antica ibridazione (forse di 20.000 anni fa).

In generale però Cavalli Sforza riconosce che, per molti aspetti, due ipotesi diverse come l’ibridazione e la discendenza diretta da un gruppo ancestrale possano portare ad evidenze genetiche molto simili.

In effetti questo è un punto significativo, che apre la strada ad una serie di considerazioni a nostro avviso di particolare importanza: potrebbe infatti essere plausibile considerare particolarmente vicine a quelle originarie altre popolazioni che invece per Cavalli Sforza sono solo il prodotto di un incrocio.

Sappiamo che per il genetista italiano, oltre ai Khoisan, una possibile origine da ibridazione può aver interessato anche gli Etiopi e, allargando la scala, anche gli Europei tutti. Per questi ultimi, ricordiamo che la relativa brevità del ramo che li rappresenta nel suo albero filogenetico viene spiegata in prima battuta con l’ipotesi di un’origine per incrocio tra 1/3 di geni africani e 2/3 di geni orientali; ma, esplicitamente, Cavalli Sforza ammette per gli europei attuali anche un’ipotesi opposta, ovvero che, invece di essere il risultato di un’incrocio, siano molto simili alla popolazione ancestrale.

Comunque, l’ipotesi di considerare alternativamente i koisanidi, gli etiopi, o gli europei come raggruppamenti odierni particolarmente vicini a quella che fu l’antica protoumanità, a nostro avviso andrebbe vagliata alla luce di quanto può dirci anche l’antropologia classica, sia in termini storici che in termini geografici.

Per quanto riguarda le popolazioni khoisanidi, per le fasi più recenti del Paleolitico Superiore sembrerebbero attestate forme boscimanoidi su una superficie, rispetto a quella occupata attualmente, ben più vasta, ovvero dalla zona del Capo fino all’alto corso del Nilo; và però detto che non risulterebbero essere stati ritrovati ulteriori elementi chiaramente riconducibili al particolare tipo khoisanide di età superiore ai 20.000 anni, né tantomeno in territori al di fuori del continente africano.

Probabilmente una maggior estensione temporale e geografica sembrano mostrare gli elementi etiopici: se per alcuni antropologi tale varietà sarebbe riconducibile ad un meticciamento relativamente recente tra europoidi e negroidi, vi è qualcun altro (ad esempio il Vallois) che si chiede se – in linea con l’ipotesi sopra espressa – più che il risultato di un incrocio, essa non possa piuttosto rappresentare il residuo di un ceppo ancestrale non ancora differenziatosi né nel senso bianco, nè nel senso nero; ciò, oltretutto, spiegherebbe perché il tipo generale degli etiopici si presenti in una forma così diversa da quello dei mulatti, che sono invece, notoriamente, degli incroci. Secondo tale interessante ipotesi, dei meticciamenti negli etiopici sarebbero poi intervenuti comunque, ma solo in un secondo momento, modificandone in diversi punti la varietà, in modo da avvicinarla in parte ai neri ed in parte ai bianchi.

Quello etiopico sembra dunque essere uno snodo piuttosto importante nella storia umana, anche se la sua origine può forse essere ricondotta, a sua volta, ad un insieme ancora più ampio e generalizzato, appunto quello europoide, se è vero che, ad esempio per Renato Biasutti, il gruppo etiopico può essere interpretato come originariamente europoide dalla pelle chiara e dalla provenienza eurasica settentrionale (cosa peraltro ammessa anche per gli Ottentotti, che hanno anch’essi conservato la pelle chiara).

Nel prossimo post cercheremo di passare rapidamente in rassegna gli elementi che sembrano portare in questa direzione.

 

 

 
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POPOLAZIONI ATTUALI E POPOLAZIONE ANCESTRALE / PALEOEUROPOIDI

Post n°13 pubblicato il 13 Agosto 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Proseguiamo sulla linea del post precedente, in particolare sul significato antropologico sia dei reperti antichi che dei gruppi viventi e di quanto tutto ciò può chiarirci in merito all’aspetto della popolazione umana primordiale.

Per rimanere in Africa, segnaliamo che ritrovamenti come quelli di Boskop o di Oldoway sono stati considerati protoetiopici, ma anche più specificamente avvicinati allo stesso tipo di Cro-Magnon (quello di Boskop in particolare da Giuffrida Ruggeri, che peraltro nega decisamente, in termini generali, la presenza di qualsivoglia elemento negroide in Cro-Magnon); diversi sono stati gli  antropologi che hanno ipotizzato per l’Africa del sud e del sud-est un popolamento cromagnoide, o comunque di vecchie forme paleoeuropidi, risalente anche a 20-30.000 anni fa e quindi antecedente a quello dei boscimanoidi stessi. Tale ipotesi, peraltro, sembrerebbe recentemente confermata dall’analisi del cranio di Hofmeyr (Sud Africa) che lo daterebbero a circa 36.000 anni fa e ne evidenzierebbero un aspetto molto più simile ai reperti risalenti al Paleolitico superiore europeo, piuttosto che a quelli recenti sudafricani ed europei. Per restare nell’area dell’Africa australe, ricordiamo che per Vittorio Marcozzi elementi europoidi possono, quanto meno, essere entrati come componenti di popolazioni a suo parere dalla probabile origine mista, come i cafridi dell’Africa sud-orientale o i malgassidi del Madagascar.

Ma in generale, per l’Africa tutta, Bernatzik conclude che, data la mancanza di crani negridi fino a dopo il mesolitico (argomento già trattato in uno dei post precedenti), in tempi più antichi il continente nero tenderebbe sempre più a rivelarsi come un territorio di europoidi.

Se usciamo dall’antropologa africana e guardiamo verso altri continenti, Steve Olson ammette, in merito alla generale presenza in Asia, Australia ed America di frequenti tratti apparentemente europoidi tra popolazioni non “bianche”, che il fenomeno può essere spiegato con il mantenimento delle caratteristiche originarie delle genti uscite dall’africa nord-orientale (l’autore si pone comunque nell’ambito della teoria “Out of Africa”) che avrebbero poi generato  tutte le popolazioni del resto del mondo dopo la traversata della zona medio-orientale. E’ comunque notevole sottolineare come tali caratteristiche iniziali sarebbero, quindi, proto-europoidi anche in chi si muove comunque in un’ottica afrocentrica. In altri casi, a tali elementi se ne sarebbero invece sovrapposti ulteriori di carattere più marcatamente mongoloide che però, notiamo noi, sono necessariamente meno arcaiche; va infatti ricordato che le specificità delle popolazioni “gialle” sono, quasi unanimemente, riconosciute avere un’origine nettamente più recente (ad esempio, il cranio cinese di Ciu Cu Tien risalente a cira 15-20.000 anni fa non mostra alcuna somiglianza con gli attuali orientali).

Via via che ci allontaniamo dall’Africa, per il subcontinente indiano è significativo che diversi autori (Bernatzik, Pullè, Eickstedt, Weinert) concordino sul fatto che i gruppi umani più arcaici ivi stanziati, come i veddoidi, siano fondamentalmente dei paleoeuropoidi. Probabilmente allo stesso raggruppamento dovrebbe fare riferimento anche Biasutti che segnala analoga origine per i paleoindidi (ricordiamo che molto spesso in ambito antropologico la classificazione tassonomica viene effettuata secondo denominazioni che possono sensibilmente variare da autore ad autore). Per Vittorio Marcozzi elementi europoidi entrano nella composizione di popolazioni dalla probabile origine mista quali gli gli indo-melanidi del deccan.

La presenza di vecchie forme europoidi viene rilevata anche in Indocina e nel sud-est asiatico; se per Vallois la razza indonesiana o protomalese è una razza gialla a caratteri estremamente attenuati, è tuttavia significativo il fatto che egli stesso ne rilevi l’affinità con le popolazioni europee, tant’è che ricorda come taluni l’abbiano addirittura inclusa nel ramo della razza mediterranea. Ma forme paleoeuropoidi vengono anche individuate in Melanesia ed in Polinesia, e diversi antropologi hanno ritenuto di poter classificare i polinesiani in toto tra gli europoidi.

Più a sud, gli stessi Australoidi vengono incasellati da Weinert come paleoeuropoidi essi stessi e, da diversi antropologi, considerati quanto meno appartenenti alla stessa linea centrale degli europoidi, rispetto a quelle più “laterali” e specializzate rappresentate da negroidi e mongoloidi.

Virando verso nord e superando l’area orientale densamente popolata – ma in tempi relativamente recenti – dalle popolazioni gialle, troviamo nel settentrione dell’Asia tutta una serie di gruppi che evidenziano caratteristiche, quali il colore degli occhi e della pelle, riscontrabili quasi unicamente presso gli europoidi settentrionali. Di particolare interesse è il ramo paleosiberiano, che per Vallois è annoverabile tra le razze gialle, ma con caratteri mongoloidi estremamente attenuati ed una certa affinità con i bianchi; a suo avviso sarebbe il risultato di un antico meticciamento tra bianchi e gialli primitivi (questi, forse giunti da sud), ma non possiamo non rilevare come invece per alcuni antropologi i paleosiberiani rappresentino piuttosto una vecchia forma intermedia ed indifferenziata tra mongoloidi ed europoidi, riproponendo anche in questo caso la doppia opzione, analogamente a quanto visto in ambito africano per gli Etiopi, tra la summenzionata ipotesi di meticciamento primitivo, ed una di origine diretta da un tronco ancestrale paleoeuropoide che, in Asia, stava appena iniziando a differenziarsi verso i mongolidi propriamente detti.

Ed in tale contesto è notevole anche il caso degli Ainu del Giappone settentrionale e delle isole Curili, per i quali l’ipotesi dell’ibridazione sembrerebbe ancor meno probabile, a vantaggio piuttosto della precoce separazione da un tronco principale paleoeuropeo. E’ stato rilevato che alcuni caratteri degli Ainu li farebbe, a parere di qualche studioso (soprattutto da Sternberg e Werth), avvicinare ai tipi australiani, ma altre caratteristiche più simili a quelle nord-europee inclinerebbero maggiormente per una classificazione più chiaramente paleoeuropoide; il giapponese Matsumoto parla infatti di “ainu-caucasici pre-mongolici”, mentre per Biasutti gli Ainu rappresentano un residuo di quelli che definisce “Pre-Europidi”, che segnala in tempi preistorici enormemente più diffusi di quanto gli Europidi non lo fossero all’inizio dell’evo moderno. Anche Vallois concorda sugli Ainu come gli ultimi rappresentanti di quelle arcaiche popolazioni bianche che anticamente occupavano il nord della Siberia, senza soluzione di continuità con la stessa Europa.

Infine, per il continente americano, sul cui popolamento dedicheremo in futuro una trattazione più specifica, per ora segnaliamo che Deniker designa come razza Paleo-americana quella degli amerindiani considerati più arcaici e privi di caratteristiche mongoloidi, presupponendo anzi antichi rapporti con forme australoidi ed europoidi. Biasutti, nella sua classificazione, preferisce piuttosto parlare direttamente di Pre-Europidi (ai quali avvicina il ritrovamento europeo di Combe-Capelle), mentre riteniamo opportuno ricordare come gli amerindiani più meridionali, i Fuegini, che probabilmente sono annoverabili – proprio per la loro posizione geografica – tra le popolazioni più antiche arrivate in America, presentino anch’essi caratteristiche che li accostano chiaramente al tipo europoide.

In effetti, più che al Cro-Magnon, sembrerebbe proprio il già citato ritrovamento europeo di Combe-Capelle il tipo fisico al quale non è azzardato avvicinare un gran numero di popolazioni mondiali tra quelle che abbiamo rapidamente passato in rassegna; l’antropologo Giuffrida-Ruggeri considera l’ “Homo aurignacensis” (appunto, il Combe-Capelle) quale rappresentante di un ramo umano più meridionale, nel quale far rientrare ad esempio popolazioni come Ainu, Protoetiopici, Vedda, Australoidi, Dravidi ecc.., mentre individua in Cro-Magnon un ceppo più occidentale .

In definitiva, quale sintesi si può trarre da tutti questi elementi ?

Certamente non che la popolazione ancestrale avesse lo stesso aspetto degli europoidi attuali (europei, nordafricani, asiatici occidentali); però, a nostro avviso, vi sono chiari indizi che un aspetto “simil-europoide” sembra essere presente sul pianeta fin dai tempi più antichi, sebbene in forma ancora sfumata ed arcaica rispetto a come si presenta oggi, apparendo quasi come una base di partenza per tutte quelle popolazioni non ancora chiaramente indirizzate verso la direzione negroide o mongoloide (realtà più specializzate che emergeranno solo successivamente). Tale aspetto, oltretutto, emerge un po’ ovunque nel mondo, anche – e questo ci sembra particolarmente significativo – in sedi lontanissime da quelle storiche occupate dalla cosiddetta “razza bianca”. Ed infine, possiamo concludere che oggi tale definizione, quello di “razza bianca”, nel senso più ampio la si voglia intendere, identifica un raggruppamento che appare alquanto eterogeneo ed esteso, nel quale probabilmente risiedono componenti, oltre che della massima arcaicità, anche piuttosto diversificate e sulle quali dovremo tornare in seguito.

 
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I PRIMI PASSI DELLA POPOLAZIONE ANCESTRALE – AFRICA, AUSTRALIA ED EURASIA

Post n°14 pubblicato il 18 Agosto 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Cercheremo ora di gettare uno sguardo generale sulle primissime tracce lasciate in varie parti del mondo dalla popolazione ancestrale del nostro Manvantara, dopo che nel post precedente abbiamo avanzato qualche ipotesi su quelli che potrebbero esserne stati i probabili elementi fisico-razziali di base. In ogni caso, anche se generici tratti “anatomicamente moderni”, o tecnologie ad essi associabili, sono riscontrabili già negli antichi ritrovamenti africani di Klasies, mediorientali di Skhul / Qafzeh, arabi di Jebel Faya, cinesi di Liujiang ed australiani di Kununurru – tutti databili attorno, o anche più, di 100.000 anni fa – vari ricercatori ipotizzano che le facoltà culturali completamente “moderne” e la piena adeguatezza dello sviluppo cognitivo a livello neurologico (quindi non riconoscibili attraverso i reperti scheletrici), può essere apparsa non prima di 40-50.000 anni fa, ovvero contemporaneamente all’inizio della fase preistorica denominata Paleolitico Superiore. In effetti, viene rilevato che proprio attorno a tale data l’aspetto materiale degli oggetti e dell’arte prodotta iniziano a cambiare rapidamente e da più parti è stato proposto che il mutamento osservato può essere collegato anche all’inizio delle prime forme di linguaggio complesso (curiosamente, lo stesso lasso di tempo venne proposto anche dal glottologo Alfredo Trombetti per la differenziazione, a partire da una base comune, di tutte le lingue mondiali); sulla cosa sembrerebbe peraltro concordare anche il genetista tedesco Svante Paabo in base all’analisi di alcuni specifici geni deputati a regolare la funzione del linguaggio.

E’, questo, un punto di vista chiaramente evoluzionista, in quanto tende comunque a mettere in relazione, in linea ascendente, le forme umane più recenti con quelle più antiche, ma la data nella quale per i ricercatori si manifestò quella che viene considerata una nettissima discontinuità evolutiva ci sembra particolarmente significativa per una serie di ragioni che di seguito si chiariranno.

Infatti, è più o meno attorno a 50.000 anni fa – o, quanto meno, difficilmente prima – che, come vedremo, si possono collocare, in varie aree  del mondo, i più antichi eventi, reperti diretti ed attestazioni culturali attribuibili con una certa sicurezza a Homo Sapiens Sapiens e che rientrano nell’ambito del presente Manvantara iniziato 65.000 anni fa (ricordiamo che quanto invece è collegabile a datazioni ancora più antiche ricade, dal nostro punto di vista, in cicli umani precedenti a quello attuale, e quindi esce dai limiti della presente ricerca).  

Per quanto, ad esempio, riguarda l’Africa, se escludiamo la cultura sudafricana di Howiesons Poort, collocabile circa 60-65.000 anni fa (le cui caratteristiche pienamente “moderne” non trovano unanimità tra gli studiosi, anche per le enigmatiche modalità della sua scomparsa, in quanto soppiantata da una tecnologia più arcaica), possiamo ricordare i ritrovamenti in Marocco di Dar-es-Soltane e Temara, situabili a circa 40-50.000 anni fa, o forse anche un po’ di più ma, anche qui, senza il generale consenso dei ricercatori. In un periodo analogo, sotto l’aspetto genetico, Cavalli Sforza ipotizza un flusso migratorio avvenuto dall’Asia occidentale all’Africa tra i 60.000 e i 40.000 anni fa, anche se tale stima andrebbe analizzata assieme all’evidenza di un probabile spopolamento che, per il territorio nordafricano, Klein segnala tra 40.000 a 20.000 anni fa.

Per l’Europa disponiamo di qualche elemento in più. Fino a qualche anno fa, i più antichi ritrovamenti riconducibili al Paleolitico Superiore, e quindi collegabili alla presenza di uomini anatomicamente moderni, erano considerati i siti di Bacho Kiro e Temnata in Bulgaria, datati ad oltre 40.000 anni fa, suggerendo un’ingresso di popolazioni dal medio oriente attraverso la penisola balcanica; in questo quadro si può forse inserire anche il sito ungherese della grotta Istallosko, nei monti Bukk, con punte di cultura aurignaziana valutate attorno a 42.000 anni fa. Successivamente, però, il quadro è stato reso meno chiaro da datazioni similari emerse anche per altri ritrovamenti europei, come la mandibola di Cavern Kent dell'Inghilterra sud-occidentale (tra 44.000 e 41.000 anni fa), quelli della Baia di Uluzzo in Puglia (tra 45.000 e 43.000 anni fa, precedentemente ritenuti neandertaliani), di Fumane in Veneto (40.000 anni fa) e di Magrite in Belgio (tra 43.000 e 41.000 anni fa). Inoltre, tra 45.000 e 40.000 anni fa è stata osservata un intrusione rapida di gruppi aurignaziani cromagnoidi verso ovest lungo le rive settentrionali del Mediterraneo, fino ad arrivare in Spagna dove i siti di El Castillo e Romanì vengono fatti risalire ad un periodo compreso tra 43.000 e 41.000 anni fa. In altre aree appartate dell’Europa nord occidentale, vi sono prove di industrie associabili all’Uomo di Neandertal (Castelperroniano, Uluzziano) che addirittura, in rapporto a quelle aurignaziane, risulterebbero più recenti.Più verso oriente, nella Russia europea, ritrovamenti di antichità valutata tra 50.000 e 35.000 anni fa a Starosel’e, e di circa 45.000 anni fa a Kostenki, fanno in definitiva desumere che, per tutta l’area europea in generale, non sia azzardato considerare la possibilità di retrodatare la comparsa di Homo Sapiens Sapiens anche a 50.000 anni fa.

In Medio Oriente le prime manifestazioni collegabili al Paleolitico Superiore sono situabili tra 50.000 e 47.000 anni fa, in siti quali Boker Tachtit in Negev e El Wad sul Monte Carmelo, dove sono state rinvenute lame ricavate dalle locali schegge musteriane (cioè attribuibili a popolazioni neandertaliane). Una analoga industria basata sulle lame sarebbe anche riscontrabile a Ksar Akil in Libano (42-44.000 anni fa).

Proseguendo verso il centro eurasiatico, ricordiamo i reperti di Diarra-i-Kur in Afganistan, collocabili tra 50.000 e 35.000 anni fa ed i resti riconducibili a Homo Sapiens Sapiens, di circa 43.000 anni fa, rinvenuti presso i monti Altai, a nord del bacino di Tarim; più ad est ancora, segnaliamo lo scheletro trovato nel 2003 nella grotta di Tianyuan, vicino a Pechino, che avrebbe un’età compresa tra i 38.500 e i 42.000 anni e lo collocherebbe tra i più antichi dell’Asia orientale.

Più a sud, nello Sri-Lanka in prossimità di Balangoda (grotta di Batadomba), si segnalano ritrovamenti forse databili a 34.000 anni fa, mentre nel sud-est asiatico quelli di Niah Cave nel Borneo vengono posti tra 50.000 e 35.000 anni fa; per la Nuova Guinea, Lewin valuta molto scarse le prove archeologiche di una presenza umana anteriore a 45.000 anni, mentre la glottologa Johanna Nichols stima tra i 40.000 ed i 45.000 anni l’età della famiglia linguistica indopacifica e di quella australiana.

E proprio in Australia possiamo ricordare i ritrovamenti di Willandra Lakes, situabili tra 50.000 e 35.000 anni fa, e quello del Lago Mungo, recentemente ridimensionato a  42.000 anni fa (dagli iniziali 60.000) ma particolarmente interessante per le implicazioni genetiche che ne sono derivate, data l’impossibilità di ricondurlo a linee mitocondriali africane. Un buon compromesso potrebbe fissare a circa 46.000 anni fa l’arrivo di Homo Sapiens Sapiens in Australia, anche vista la massiccia estinzione di tutti i mammiferi più grandi che in quel momento sembra essersi verificata nel continente, probabile conseguenza di un’intensa attività di caccia praticata dall’uomo.

Ma è soprattutto per il continente americano che, come vedremo nel prossimo post, stanno emergendo elementi interessanti che sembrerebbero rimettere in discussione le ipotesi più consolidate sulla tempistica del suo popolamento.

 

 
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I PRIMI PASSI DELLA POPOLAZIONE ANCESTRALE – AMERICA E…BERINGIA

Post n°15 pubblicato il 24 Agosto 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Come concludevamo nel post precedente, in tempi recenti si è alquanto ravvivato il dibattito attorno ai tempi ipotizzati per il primo popolamento del continente americano da parte di Homo Sapiens Sapiens; ciò essenzialmente sulla base di ritrovamenti che presenterebbero datazioni anteriori a quelle attribuite alla cultura Clovis, di circa 12.000 anni fa, e a lungo ritenuta la più antica d’America.

Va innanzitutto ricordato che la via principale di questo popolamento dev’essere stata costituita dall’istmo di terra, allora emerso, che ora è costituito dallo stretto di Bering, stretto braccio di mare che divide la Siberia orientale dall’Alaska; sono state ipotizzate anche vie migratorie alternative, sulle quali ora non è però il caso di soffermarci e che eventualmente tratteremo in seguito.

In ogni caso, è stato valutato che tale istmo emerso – denominato “Beringia” – dovette essere alquanto esteso, rendendosi geologicamente percorribile in un arco di tempo sul quale la letteratura propone date abbastanza differenziate, i cui limiti più larghi sarebbero collocabili tra i 72.000 ed i 14.000 anni fa.

In merito ai reperti rinvenuti in America, ve ne sono diversi tra quelli incompatibili con la teoria del popolamento Clovis, ma i più antichi che vogliamo qui ricordare sono costituiti dal bambino di Taber, nel Canada occidentale, risalente forse a 40.000 anni fa, il sito di Topper nella Carolina del Sud, abitato forse già 50.000 anni fa (ma la data è contestata) ed i resti rinvenuti a Pedra Furada in Brasile, anch’esso di circa 40.000 anni fa. Sulla base di tali elementi, non è quindi più azzardato collocare, da parte di un settore sempre più consistente della comunità scientifica, l’inizio del popolamento continentale ad opera dei primi Paleoamericani attorno a 40-50.000 anni fa; datazione forse confermata (pur con tutte le riserve già espresse in merito all’interpretazione dei dati di origine molecolare) anche dalla “distanza genetica” delle genti americane rispetto a quelle del vecchio mondo, che situerebbero il momento di ingresso in America attorno ai 43.000 anni fa, o anche da valutazioni di carattere glottologico, che porterebbero Johanna Nichols a stimare in non meno di 45.000 anni l’età linguistica del “Nuovo” Mondo.

Se quindi il popolamento di tutto il continente è stato così arcaico, ne consegue che anche la presenza umana nella stessa Beringia deve esserlo stata almeno altrettanto; possono certamente essere esistite anche vie alternative di ingresso in America, ma comunque una elevata antichità della presenza umana alle latitudini più elevate sembrerebbe confermata anche in via diretta dal sito forse più antico di tutto il continente, quello di Old Crow, nel nord Yukon in Canada (posto oltre al circolo polare artico), dove sono stati rinvenuti reperti risalenti ad almeno 50.000 anni fa.

In effetti la Beringia, della quale Old Crow avrebbe potuto senz’altro far parte, è stata ipotizzata, soprattutto da parte di studiosi russi, come una terra estremamente estesa; visti gli attuali bassi fondali del Mar Glaciale Artico, che a nord della Siberia e dell’Alaska presenta in media profondità inferiori ai 200 metri (lo zoccolo continentale del mare dei Ciukci e dello stretto di Bering ha addirittura una profondità massima di 45-55 metri), un’enome area posta tra la penisola del Taymir ed il Canada sarebbe anticamente risultata emersa per effetto della glaciazione in atto ed il conseguente abbassamento del livello marino planetario. Ma anche considerando i valori generali della temperatura mondiale, al tempo meno elevati rispetto ad oggi, e la vicinanza geografica al polo nord, sembrerebbe che la Beringia, sorprendentemente, godesse di condizioni climatiche temperate – comunque migliori di quelle attuali dello stretto di Bering – con temperature estive superiori ai 10 °C e la presenza di una consistente vegetazione composta da abeti, betulle e pioppi la cui presenza, più a nord dei loro limiti attuali, indicherebbe che persistettero lunghi periodi di clima più caldo ed umido di quanto lo sia oggi. La cosa sembrebbe confermata anche dal fatto che nella limitrofa Siberia orientale, tra il fiume Lena e lo stretto di Bering, il fenomeno glaciale fu molto ridotto - come anche in Alaska e Yukon - presentando solo ghiacciai sui rilievi montani e peraltro di modesto spessore.

Sta in effetti prendendo sempre più corpo l’idea che il ruolo giocato da quest’area in tempi preistorici sia stato molto più importante di quello di semplice punto di passaggio dall’Eurasia all’America; infatti, con il nome “Out of Beringia” è stato recentemente denominato un modello secondo il quale viene presa in considerazione l’eventualità che popolazioni rimaste stanziali in zona per un lasso non trascurabile di tempo, abbiano ivi subito un processo piuttosto marcato di diversificazione genetica, per partire solo in un secondo momento, ed a scansioni diverse, verso mete più meridionali, sia in direzione orientale che occidentale. E’ evidente come, pur con tutte le già menzionate riserve sulle datazioni attribuite alle varie mutazioni genetiche umane, dal nostro punto di vista – “boreale” – tale ipotesi risulti comunque estremamente interessante; ed anche tenendo presente come la teoria “Out of Beringia” in effetti non si ponga mai in reale alternativa alla “Out of Africa”, ma ne sottolinei al massimo una funzione di “centro di smistamento” – importante, ma pur sempre secondario – a nostro avviso cià non toglie che ci troviamo davanti ad un’ipotesi comunque non trascurabile di “culla” umana posta a latitudini significativamente elevate che prima, a quanto ci risulta, non erano mai state teorizzate dalla moderna ricerca scientifica.

Nel prossimo post rimarremo saldamente nel Nord del mondo con una serie di ulteriori considerazioni tratte ancora dalla letteratura scientifica che però serviranno, più in là ancora, ad introdurre anche argomenti di ordine diverso.  

 
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UN’ARTIDE ANTICAMENTE TEMPERATA ?

Post n°16 pubblicato il 26 Agosto 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Dalla Beringia, con la quale avevamo concluso il post precedente, spostandoci verso occidente troviamo ancora alcune evidenze di presenza umana di età paleolitica a latitudini piuttosto elevate, anche se meno antiche di quelle di Old Crow nello Yukon.

In Siberia orientale il sito di Berelekh, posto a 70° gradi di latitudine, risalirebbe a 30.000 anni fa e dimostrerebbe che il delta del fiume Yana un tempo doveva essere più caldo di oggi, con vegetazione tale da sostenere erbivori di grossa taglia e quindi anche l’insediamento umano. Più ad ovest, Klein segnala ritrovamenti situabili tra 20.000 e 35.000 anni fa nel bacino del Lena ed altri siti, riconducibili al Paleolitico Superiore (però di antichità non meglio specificata), all’intersezione tra i monti Urali ed il Circolo Polare Artico. Altre fonti citano inoltre una presenza umana risalente a 40.000 anni fa nella Finlandia nord-orientale ed ancora in Siberia oltre il circolo polare, ma andrebbero sottoposte ad ulteriori verifiche per definire meglio le aree in questione. Infine, nella penisola di Kola in territorio russo, ricordiamo che nel 1997 il ricercatore Valerij Diomin rinvenne reperti risalenti forse a 20.000 anni fa.

Ma anche a prescindere dagli insediamenti umani, dal punto di vista ambientale e di quanto può essere osservato dall’analisi dei terreni, della paleovegetazione e delle faune presenti, sembrerebbe confermato che durante l’ultimo massimo glaciale (circa 20.000 anni fa) non fossero glacializzate né la penisola di Jamal né gran parte della penisola del Tajmyr, e quindi è probabile che non lo siano state nemmeno durante le fasi meno acute del wurmiano; inoltre, ancora più a nord di queste penisole siberiane, sono state ritrovate zanne di mammuth risalenti ad un periodo tra i 25.000 ed i 19.000 anni fa, segnalando quindi indirettamente la presenza di un ambiente temperato, adatto alla presenza umana. Evidenze simili, ed anche più antiche, sono state riscontrate all’estremo nord della Norvegia, oltre al Circolo Polare Artico, dove sono emerse ossa di lupo ed orso databili forse a 42.000 anni fa, in una zona che invece si pensava stabilmente occupata dalla calotta glaciale. Tra le varie isole del Mar Glaciale Artico che durante il Wurm sembrano non aver subito alcun raffreddamento rilevante, presentando anzi una vegetazione ed una fauna compatibile con un clima temperato, è probabile si possa inserire anche la Groenlandia settentrionale (peraltro, dal significativo nome di “terra verde”) che pare aver beneficiato delle stesse favorevoli condizoni climatiche a partire da circa 50.000 anni fa.

Le temperature sorprendentemente calde, rispetto ad oggi, rilevate durante l’ultima glaciazione su vari settori costieri ed insulari dell’Artide, sono ovviamente connesse a quelle che furono le condizioni idrografiche del Mar Glaciale: in conseguenza del generale abbassamento del livello marino, il bacino dovette essere molto più chiuso di quanto non sia già oggi perché, oltre a mancare del tutto lo sbocco verso l’Oceano Pacifico per la presenza della Beringia, anche nella zona di contatto con l’Oceano Atlantico vi fu probabilmente una vasta area di terre allora emerse nel quadrante posto tra Groenlandia, Islanda, Faroer e forse Scandinavia (area che successivamente, in concomitanza con un periodo relativamente più freddo, forse verificatosi tra circa 40.000 e 30.000 anni fa, iniziò progressivamente ad inabissarsi, concludendo tale movimento forse attorno ai 6-7.000 anni fa; è un argomento sul quale avremo modo di tornare in futuro). Varie analisi del fondale del Mar Glaciale Artico evidenzierebbero, infatti, che al tempo il bacino risultava essere chiaramente temperato, almeno in prossimità delle coste siberiane, norvegesi e groenlandesi; inoltre, è stato osservato che la superficie marina artica non può essere stata ininterrottamente coperta, come oggi, da una compatta banchisa polare, perché in tal caso non si sarebbe potuta verificare l’evaporazione acquea necessaria ad alimentare le precipitazioni nevose alle alte latitudini che hanno creato e mantenuto le grandi coltri di ghiaccio delle calotte.

Delle calotte glaciali, poi, è stata notata la distribuzione fortemente asimmetrica ed eccentrica rispetto al polo nord attuale, tanto da far ritenere alcuni studiosi che ciò potesse essere indicativo di una variazione, nel corso del tempo, della posizione geografica del polo (ipotesi sostenuta da Hapgood e da Wirth ma non da Tilak, e che qui ci limitiamo solo ad accennare senza ulteriori sviluppi); in effetti vi furono aree completamente glacializzate a latitudini relativamente basse, mentre altre, come abbiamo visto, apparentemente non ne vennero mai interessate, pur a latitudini molto elevate, probabilmente per una serie di fattori di carattere altimetrico, topografico o di prossimità al mare. A titolo di esempio ricordiamo in nordamerica, tra Illinois e Minnesota, una zona di 26.000 kmq che, pur completamente circondata dalla coltre del Wisconsin, rimase sempre libera dai ghiacci. Calotte, quindi, dallo sviluppo estremamente irregolare ed i cui margini possono anche aver favorito, come forse avvenne nell’Asia nordorientale, la creazione di aree circoscritte favorevoli all’insediamento e, per qualche periodo, all’isolamento umano, ma in condizioni diverse da quelle della tundra attuale, che costringe gli odierni cacciatori di renne in un paesaggio estremamente spoglio e quasi senza vegetazione, al contrario di quello che sembra essersi presentato nel paleolitico superiore.

Dal punto di vista paleoclimatologico, la glaciazione wurmiana è stata suddivisa in varie fasi sulla base delle analisi isotopiche dell’ossìgeno. Lo stadio n. 3 (da 59.000 anni fa a 24.000 anni fa) secondo Klein deve aver offerto temperature relativamente miti ed, in quest’arco di tempo, Clark segnala tra 40.000 e 50.000 anni fa l’interstadiale (intervallo particolarmente temperato) denominato Laufen / Gottweig; ancora più specificatamente, Brezillon indica il periodo di Peyrards, tra 44.000 e 42.000 anni fa, che sembra corrispondere all’oscillazione climatica calda di Laufen.  

A nostro avviso è singolare che tale lasso di tempo, per le datazioni già riscontrate nei post precedenti, sembrerebbe potersi sovrapporre alla transizione tra Paleolitico medio e Paleolitico superiore, o, quantomeno, evidenziare un momento particolarmente favorevole per la circolazione di gruppi umani ad elevata latitudine, in aree ancora emerse ma magari non più, o non ancora, glacializzate e quindi inaccessibili.

 

 
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VERSO L'INIZIO DEL CICLO

Post n°17 pubblicato il 29 Agosto 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Come abbiamo visto, durante la glaciazione wurmiana le zone artiche paradossalmente beneficiarono di condizioni climatiche migliori di quelle attuali, tali da permettere insediamenti umani alle alte latitudini che non sembrano essere stati solo di breve durata, o di carattere occasionale.    

Se ora andiamo a riesaminare le datazioni che, nei post precedenti, abbiamo riassunto per i più antichi ritrovamenti in tutto il mondo, collegabili a Homo Sapiens Sapiens nel nostro Manvantara (iniziato, lo ricordiamo, circa 65.000 anni fa), noteremo un dato essenziale: i siti africani, in effetti, non risultano essere sostanzialmente più antichi di quelli di altre zone del mondo.

Almeno, non di quelli riferibili alla Beringia.

Ricordiamo ancora che ogni eventuale ritrovamento anteriore al suddetto limite temporale va considerato attinente ad un Manvantara precedente al nostro, e quindi relativo ad un’altra umanità, separata dalla nostra da una cesura piuttosto netta che, secondo Renè Guenon, non deve aver consentito alcun passaggio verso il nostro ciclo; a questo proposito, crediamo sia particolarmente significativo che anche la scienza ufficiale ipotizzi sia avvenuto – in un momento quasi coincidente con l’inizio del presente Manvantara – un evento traumatico di dimensioni planetarie, la cosiddetta “Catastrofe di Toba” (l’eruzione, circa 70.000 anni fa, di un supervulcano nell’isola di Sumatra), le cui conseguenze geoclimatiche dovettero essere tali da ridurre l’umanità del tempo ai minimi termini, fino quasi a provocarne l’estinzione.

Quindi, se guardiamo “al di qua” dell’inizio del nostro ciclo, e ricordiamo che prove veramente decisive, sia di tipo genetico, fossile o archeologico sull’origine africana di Homo Sapiens Sapiens non ve ne sono (assieme al fatto che la provenienza delle popolazioni negroidi continua tuttora a rimarere un mistero antropologico), a nostro avviso non è azzardato collocare nella zona artica il punto di origine dell’attuale umanità, peraltro in conformità con quanto sembrano dirci molti dei miti primordiali di tutto il mondo.

Oltretutto, è plausibile che il modello di un’origine boreale delle prime migrazioni umane si strutturi in modo notevolmente diverso da quello immaginato dalla teoria “Out of Africa”. Questo, infatti, prevede l’ipotesi di piccoli gruppi di migranti che si sarebbero spinti sempre più lontano dall’Africa, portando con sé solo una frazione della variabilità genetica globale, in gran parte però rimasta nel continente-madre fino ai giorni nostri. Al contrario, nell’ipotesi boreale, a nostro avviso non sarebbero stati solo pochi uomini a lasciare la zona originaria – la Beringia ? – attorno a 50-52.000 anni fa, ma ne sarebbe uscito un numero molto maggiore, probabilmente a causa di un primo evento geoclimatico che in quel periodo colpì la zona artica (sul quale torneremo più avanti), in modo da spopolarla in larga misura. Ma se per l’Africa, come abbiamo visto, le attuali evidenze genetiche, che vengono lette a sostegno dell’origine umana, potrebbero risultare falsate da meccanismi di carattere demografico (p.es. una elevata densità di popolamento intervenuta in tempi mediamente recenti) è chiaro che una simile distorsione interpretativa non può verificarsi per le attuali aree artiche, quasi del tutto disabitate o ripopolate in tempi più recenti di quelle africane, peraltro non da popolazioni ivi originatesi, ma adattatevi solo da qualche millennio; è, ad esempio, il caso degli Inuit, di evidente origine mongolide e quindi non particolarmente antica.

In altre parole, vogliamo dire che l’Artide attuale non può più rivelare chiare tracce genetiche del suo passato, perché nel corso del tempo è stata sottoposta ad una dinamica demografica (che più avanti approfondiremo) riassumibile nello schema:

antropogenesi => forte spopolamento iniziale (probabilmente in più fasi) => ulteriore spopolamento successivo => scarso ripopolamento recente.

E’ quanto, ad esempio, è stato già constatato, su scala più ridotta, con le migrazioni paleolitiche da est verso l’Europa, le cui tracce si sono praticamente perse a causa delle varie fasi della glaciazione wurmiana, che hanno causato una massiccia dislocazione di popolazioni verso sud ed il conseguente rimescolamento dei relativi dati genetici.

Ma se ormai, a livello molecolare, forse ben poco può essere ricostruito nel nord del mondo, qualche evidenza generale di carattere bioantropologico ancora permane, se è vero che, ad esempio, Giuffrida-Ruggeri negò l’ipotesi di un origine tropicale dell’uomo propendendo invece per una zona nettamente più boreale, rilevando un   miglior adattamento umano ai climi meno caldi (e che dovrebbero corrispondere all’ambiente nel quale venne alla luce, o dove rimase immerso per un periodo non breve). Impostazione che sembrerebbe di recente confermata (Le Scienze – ottobre 2005) anche dal fatto che, al contrario di quanto finora sembrava stabilmente acquisito, i nostri diretti antenati avrebbero evidenziato, rispetto alle popolazioni neandertaliane, migliori attitudini a fronteggiare il clima rigido dell’Europa glaciale; e ciò anche in considerazione dell’assenza di siti di cultura mousteriana a nord dei 45 gradi di latitudine, mentre invece ritrovamenti riconducibili al Paleolitico Superiore sono stati rinvenuti fin’oltre al circolo polare artico.

Ma da uno sguardo generale sulle datazioni dei ritrovamenti riferibili a Homo Sapiens Sapiens nel mondo, emerge a nostro avviso anche un altro importante elemento di riflessione: l’assenza, in pratica, di reperti collocabili tra 65.000 e 52.000 anni fa, ovvero nella primissima fase del nostro Manvantara.

Questo lasso di tempo dovrebbe in effetti corrispondere al momento veramente primordiale della nostra umanità e a nostro avviso non è casuale che tale assenza di siti archeologici copra un periodo di circa 13.000 anni, ovvero quello che nelle varie tradizioni è stato definito come “Grande Anno”; questo, corrisponde alla metà della durata del ciclo precessionale terrestre e, come Renè Guenon ricorda, nelle varie mitologie assume spesso un’importanza particolarmente significativa, in misura anche maggiore del ciclo precessionale completo di 26.000 anni. Il "Grande Anno", segnalato anche da Gaston Georgel nel suo importante libro “Le quattro età dell’Umanità”, rappresenta una fondamentale modalità di suddivisione del Manvantara, in quanto costituisce precisamente un quinto della sua durata totale.

L’assenza di reperti umani da 52.000 a 65.000 anni fa corrisponde quindi al 1° Grande Anno del nostro Manvantara, ovvero alla prima metà esatta dell’Età dell’Oro; per tentare di comprendere le motivazioni che potrebbero essere la causa di tale evidenza, dovremo fare un passo indietro e, con i prossimi post, iniziare a svolgere, per quanto ci è possibile, qualche analisi sulle primissime fasi della genesi umana.  


 

 
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LA DISCONTINUITA' DELL'ETA' DELL'ORO

Post n°18 pubblicato il 16 Settembre 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Nei post precedenti abbiamo accennato al fatto, segnalato da Renè Guenon e confermato da alcune interpretazioni dei Purana, che l’Età dell’Oro si sarebbe protratta per circa 25-26.000 anni. Tale periodo, che nella tradizione indù viene chiamato anche Satya (o Krita) Yuga, ebbe quindi una durata molto lunga, ma non rappresentò necessariamente una parentesi statica nella storia umana; il metafisico francese, infatti, in varie occasioni ebbe modo di sottolineare come, in ciascuna delle quattro età del Manvantara, vi è la possibilità di operare ulteriori significative suddivisioni interne, a partire da quella nelle due relative metà. Il Satya Yuga, quindi, non sfugge a questa regola ed anzi è rimarchevole il fatto che risulti composto esattamente da due “Grandi Anni” di quasi 13.000 anni ciascuno.

E’ stato inoltre rilevato che il transito da un Grande Anno a quello successivo è sempre contraddistinto da un violento cataclisma che quindi, per l’Età dell’Oro, deve aver avuto luogo in corrispondenza della sua metà, attorno a 52.000 anni fa. Anche da considerazioni legate al “ciclo avatarico” di Vishnu (ciclo che suddivide il Manvantara totale in dieci parti uguali di 6.500 anni, ciascuna collegata ad una particolare “discesa” sulla terra del Principio per il ristabilimento della legge divina) lo stesso evento traumatico viene ricordato nel momento del passaggio dal secondo Avatara (Kurma), al terzo (Varahi), quando dovettero verificarsi importanti modificazioni della geografia boreale, un movimento dal polo artico ad una zona più nord-orientale (la già incontrata Beringia ?) e, come ipotizza anche Gaston Georgel, una primissima ondata migratoria verso zone meno settentrionali del pianeta.

Ciò che ne seguì, originò quella che per Guenon fu la sede del centro spirituale primordiale di questo Manvantara, la citata Varahi o “Terra del Cinghiale”, dalle marcate caratteristiche solari: il fatto però che fosse collegata non al primo ma al terzo Avatara di Vishnu, ci fa ritenere più corretto collocare Varahi non nella fase aurorale ed indistinta, veramente iniziale, del nostro ciclo umano, ma invece nel secondo Grande Anno, ovvero tra 52.000 e 39.000 anni fa.

Di conseguenza, riteniamo che ciò ponga il tema di una certa discontinuità interna dell’Età dell’Oro, in coerenza con il fatto che, come detto sopra, essa appare chiaramente divisibile in due parti uguali; e l’ambito dal quale, a nostro avviso, si può iniziare a svolgere qualche considerazione in tal senso, è quello della “condizione iniziale” dei tempi primordiali, genericamente da tutti i popoli ricordata con rimpianto (la cosiddetta “nostalgia delle origini” rilevata da Mircea Eliade), che però è opportuno suddividere in due ben distinte situazioni esistenziali, spesso invece confuse tra loro.  

Una fase è quella nella quale si ha memoria di una relativa facilità nei contatti tra l’uomo e le forze divine, con le quali, da un lato, si comunicava ad esempio scalando una montagna, salendo su un albero o su una liana per recarsi negli spazi celesti, mentre dall’altro, erano gli stessi numi che frequentemente scendevano sulla terra ed incontravano gli uomini; tale situazione ad un certo punto dovette però interrompersi, generalmente per quella che Mircea Eliade definisce come “pecca rituale”. A nostro avviso, tale fase suggerisce che, anche quando i collegamenti con il sovra-mondo erano integri, esistevano comunque riti ed azioni volte “tecnicamente” a mantenerli; quindi uomini e dei che, pur in contatto, erano per certi versi già divisi – costituendo due diverse entità – dalla necessità dell’azione rituale che, contemporaneamente, statuiva anche una reciproca alterità. Questa è la fase nella quale presumibilmente regna Kronos, reggente aureo, diurno ed “incivilitore” per eccellenza, che secondo noi dovrebbe riguardare la seconda metà del Satya Yuga (cioè il secondo Grande Anno).

Un’altra fase, anteriore a quella di Kronos, talora invece affiora nel ricordo indistinto e confuso di un momento di innocenza, di felicità ma anche di libertà e di potenza, uno stato primordiale paragonabile, da un lato, ad una pienezza irradiante, da un altro, paradossalmente, a quello del “vuoto” che occupa il Centro della Ruota, “motore immobile” aristotelico, Polo spirituale ed impassibile non coinvolto nel movimento periferico, ma purtuttavia ad esso necessario. O affiora in miti nei quali il limite tra umano e divino sembra ancora non essere ben marcato, o magari la convivenza è stretta, costante, fino quasi all’identificazione reciproca. E’, questa, la prima fase, aurorale ed indifferenziata del nostro Manvantara – e quindi, a nostro avviso, relativa al primo Grande Anno – che oltretutto, dal punto di vista della Tradizione Romana, sembrerebbe essere simboleggiata dal dio Giano, il dio degli inizi, entità per certi versi notturna, enigmatica.

Inizieremo quindi, da qui e per i prossimi post, ad esporre alcune considerazioni attorno al primo Grande Anno del nostro Manvantara, relativo all’arco di tempo che all’incirca intercorse tra 65.000 e 52.000 anni fa.

 

 
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IL POLO

Post n°19 pubblicato il 17 Settembre 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Abbiamo visto che per il primo Grande Anno appare piuttosto nebulosa la questione di quale tipo di uomo / divinità possa esserne considerato il soggetto centrale (è un discorso che approfondiremo più avanti), mentre invece maggiormente definite sembrano essere le caratteristiche cosmologiche del “luogo” ad esso collegato.  

Quello che vi corrisponde nella Tradizione Cristiana – ovvero, il Paradiso Terrestre – non è situato in un “altrove” metafisico, ma, come Frithjof Schuon ci ricorda, si trova nella stessa dimensione corruttibile che occupiano noi stessi; e nell’ottica “boreale” qui seguita, non ci sembra intanto azzardato proporre un primo paralleo tra la vasta terra di Eden, descritta nella Bibbia come un’immensa ed arida steppa (nella quale Dio pianta un giardino circoscritto), e la tundra nordica meno ospitale.

Ma sono soprattutto caratteristiche legate all’altezza e alla polarità del luogo primordiale, che si segnalano.

Per restare alla tradizione biblica, è la dimora di Yahweh stesso a trovarsi su un monte “all’estremo limite del settentrione”, mentre nella cultura indiana (induista e buddista) il supremo dio Varuna dimora sulla sommità del monte Sumeru, che si erge in mezzo ad una foresta incantevole; il Sumeru è il centro della terra paradisiaca primordiale, Ilavrita, e la residenza della divinità è bianca, come bianca, completamente, è descritta la stessa altissima montagna, che nella tradizione indiana viene anche denominata Meru. Non si può escludere che le descrizioni della foresta, o del giardino piantato da Dio, possano avere un carattere simbolico, come pure l’aspetto candido indicato per le montagne settentrionali, o anche il fatto che tradizionalmente il punto collegato all’idea di centralità è anch’esso di colore bianco (almeno visto dall’esterno ed in quanto origine della manifestazione cosmica); non ci sentiremmo però nemmeno di escludere, ad un livello più basso ed immediato, anche una certa relazione di questa caratteristica cromatica con il bianco della calotta polare.

L’idea di centralità assoluta rimanda, quindi, non soltanto ad una terra genericamente posta a latitudini molto elevate, ma a quella ancor più precisamente definita dallo stesso Polo, raffigurato come chiodo del mondo da certe popolazioni siberiane, o dagli Etruschi immaginato come il fulcro del pianeta e ritenuto quindi sede degli dei. E’ evidente che a ciò si ricollega Guenon, quando ricorda il particolare punto geografico dal quale nei tempi primordiali si poteva vedere il sole fare il giro completo dell’orizzonate senza tramontare – citando anche Omero che parla della Tula iperborea posta là “dove sono le rivoluzioni del sole” – o quando segnala che è sempre il simbolismo polare ad essere anteriore a quello genericamente solare.

Guenon ritenne, invece, tutto sommato secondaria la questione di un eventuale spostamento del polo terrestre nel corso del tempo (ipotesi che venne proposta, per il periodo wurmiano, da studiosi quali Koeppen e Wegener) né, a quanto ci risulta, ebbe modo di affrontare la specifica questione della sua glacializzazione, o meno. In effetti, i dati in merito sembrano essere piuttosto contraddittori e, a parte quelli, già esposti, di vaste aree artiche che godettero in tempi antichi di un clima più favorevole di quello attuale, sulla situazione geoclimatica del Polo Nord tra 52.000 e 65.000 anni fa ci sentiamo solamente di ritenere piuttosto improbabile l’eventualità che non sia stato interessato dal fenomeno glaciale; ciò, sia per il fatto di essere indiscutibilmente il punto terrestre a minor irraggiamento solare nell’arco dell’anno, sia perché l’intervallo temporale costituito dal primo Grande Anno si situa in un periodo anteriore a quello del già citato interstadiale Laufen, che dovette essere, questo sì, relativamente caldo.

Ma se sulle antiche condizioni climatiche dello specifico punto polare non riteniamo sussistere elementi sufficientemente solidi per formulare delle ipotesi convincenti, sembrano invece esservi maggiori indizi sulla sua posizione, o, meglio, sulla posizione dell’asse terrestre, rispetto al piano dell’eclittica. Molti dati tradizionali, tra i quali i Purana indù ed il latino Ovidio, ripresi anche da Julius Evola e Renè Guenon, segnalano infatti che durante l’età dell’oro non esistevano ancora le stagioni, ma un perpetuo clima da “eterna primavera”; tale situazione dovette evidentemente essere la conseguenza di una posizione assiale perpendicolare rispetto al piano orbitale della terra, garantendo in questo modo al nostro pianeta condizioni equinoziali per tutto l’anno. Il susseguirsi delle stagioni dovette inziare solo a partire dalla successiva età dell’argento, posta sotto il regno di Zeus, per effetto di un traumatico mutamento antropo-cosmico che per Guenon corrisponde alla “Caduta dell’Uomo”, ovvero la perdita definitiva del Paradiso Terrestre e l’inizio della storia post-edenica (databile, secondo la prospettiva qui seguita, circa 39.000 anni fa, cioè al termine del secondo grande anno del Manvantara).

Con tale situazione astronomica, il Polo dovette quindi trovarsi in una condizione di continua luce crepuscolare, forse tale da non oscurare la vista delle costellazioni celesti ma tuttavia senza l’esperienza di una vera notte, e con lo zenith coincidente al polo dell’eclittica solare: probabilmente quanto di più vicino, su questo piano dell’esistenza, all’idea di perennità, di tempo “sospeso”.

 

 

 
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L’IMMAGINE DI DIO E L’ANDROGINE PRIMORDIALE

Post n°20 pubblicato il 18 Settembre 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Quale tipo di coscienza può aver avuto l’Essere posto al centro di un Cosmo così strutturato ?

Per quanto possiamo sforzarci di immaginare, forse fu una coscienza che non implicava nemmeno la separazione soggetto-oggetto o quella Io-Dio; verso una divinità, cioè, che come Evola spesso sottolinea, viene oggi quasi sempre “teisticamente” concepita del tutto esterna a sé. Ma una coscienza di questo tipo, così lontana da quella odierna, non può non richiamare anche l’idea di un Uomo radicalmente diverso da quello attuale. Non è un caso, infatti, che il Mito parli spesso di “Immortali” che un tempo soggiornavano al centro del mondo, mentre Mircea Eliade rileva ovunque tradizioni secondo le quali l’uomo sarebbe divenuto mortale solo da un certo momento in poi.

Nel mondo greco, Platone segnalava infatti che “un tempo la nostra natura non era affatto identica a quella che possediamo ora, ma di tutt’altro genere” e per Esiodo la razza dell’Età dell’Oro, sorprendentemente longeva, “viveva come dèi”; al mito di una felice umanità primordiale si sovrappose quello degli Iperborei, che per Perecide appartenne alla razza dei Titani, mentre Erodoto li definiva “uomini trasparenti”. Nella cosmologia indotibetana, come ricorda Titus Burckhardt, l’uomo venne inizialmente creato con un corpo fluido, mutabile e trasparente, mentre in altri miti appare luminoso e sonoro, anticamente volava sopra la terra e solo in un secondo tempo discese in basso, divenendo opaco. In Cina Li-Tze accennò a “uomini trascendenti” e dalle “ossa deboli”, mentre nella gnosi islamica Henry Corbin evidenzia la presenza del tema del paradiso iperboreo, nella quale viene significativamente chiamato “Terra delle anime”. Molti sono quindi gli accenni al fatto che la corporeità dell’Uomo primordiale di inizio Manvantara fosse diversa da quella attuale – cosa peraltro sottolineata da tutti i principali autori tradizionalisti – in quanto non ancora “materializzatosi” definitivamente e quindi anche arduo a rinvenire oggi sotto forma di resti ossei. L’elemento fondamentale, cioè, è che il corpo venne assunto solo più tardi, come ricorda Julius Evola il quale, citando Plotino ed Agrippa, evidenzia l’audacia dimostrata dall’Uomo nell’assumere una veste materiale, momento a partire dal quale, tuttavia, egli iniziò a soggiacere alla paura, cadendo da una precedente fase di libertà e di potenza.

Ma è possibile cercare di ricostruire, almeno a grandi linee, i percorsi che portarono l’Uomo dalla sua prima nascita a questo risultato ?

E’ un interrogativo non privo di difficoltà, che cercheremo di approcciare facendo un rapido excursus tra gli accenni, a nostro avviso più significativi, presenti nelle varie tradizioni, verificando se vi sono ulteriori elementi a conferma di quanto sopra accennato.

Iniziando dalla tradizione cristiana, molte delle considerazioni che proporremo prenderanno ovviamente spunto, direttamente o indirettamente, dal libro della Genesi, nel quale, com’è noto, la creazione dell’uomo viene narrata in due modalità diverse, una volta nel primo, ed un’altra nel secondo capitolo. Nel primo, l’atto creativo viene effettuato direttamente e “ad immagine e somiglianza” di Dio, mentre, nel secondo, ciò si attua in modo apparentemente meno immediato, ovvero plasmandolo con polvere del suolo ed insufflandovi l’alito di vita. Al di là del significato di questa doppia narrazione, sul quale torneremo più avanti, è il concetto di “immagine divina” che a nostro avviso può rappresentare un utile punto di inizio per alcune considerazioni, soprattutto in rapporto al tema della corporeità del primo Uomo.  

Tra le varie riflessioni antropologiche dei principali pensatori di matrice cristiana, ci sembra infatti particolarmente significativa l’idea, elaborata già dagli “alessandrini” (Clemente Alessadrino, Origene, S.Atanasio, ecc…) che l’Uomo – Adamo – fosse stato generato ad “immagine di Dio” non nella sua parte corporea e mortale, ma in quella spirituale ed immortale, definita in greco come “nous”. Anche Gregorio di Nissa seguì una linea analoga, distinguendo due diversi momenti creativi: uno unitario “ad immagine di Dio” e relativo all’ “uomo intelligibile” – da cui l’analogia di questo stato con quello angelico – ed un altro sessualmente diversificato nei corpi ed attinente all’ “uomo sensibile”, creatura passionale ed irrazionale. Analogamente, anche per Jakob Bohme, Adamo nacque con due corpi, dei quali uno fu quello dell’angelo (il corpo celeste) e l’altro, almeno virtualmente, corrisponde a quello dell’uomo terrestre, che però si manifesterà solo in un secondo momento; ed è evidente che il corpo terrestre può concepirsi solo nella dualità dei sessi. Nello stesso solco si situarono fondamentalmente anche pensatori quali Meister Eckhart, Giovanni Scoto Eriugena, Onorio di Ratisbona, mentre, in ambito non prettamente cristiano, ci sembra interessante ricordare anche similari concezioni mandaiche che accennano all’immagine archetipica dell’uomo, corrispondente ad un Adamo celeste che precedette di millenni la plasmazione dell’Adamo terreno.

In effetti, va sottolineato che la facoltà di “intelligere”, ovvero di “cogliere dall’interno senza mediazioni”, corrisponde al citato “nous”, ed è la parte più alta del composto umano, dove cioè risiede eminentemente la dignità dell’uomo ed è precisamente qui che egli è essenzialmente uguale a Dio. Quindi, in definitiva, quando si parla di creazione dell’Uomo “ad immagine e somiglianza di Dio” non ci si riferisce ancora, almeno per una parte importante dei pensatori di matrice cristiana, ad un Essere corporeo e grossolanamente materiale, ma al suo superiore principio spirituale.

Questo Adamo del primo capitolo della Genesi, che cristallizza in sé un’immagine divina, svolge quindi un ruolo direttamente celeste, ed infatti è stato osservato che può essere identificato all’Uranos della tradizione greca e a Yahweh di quella ebraica; ma anche al Giano dei Latini, vista la sua funzione di  “Axis mundi” (dagli evidenti rimandi polari) e di fonte originaria del genere umano. Anche in Leopold Ziegler, l’Uomo primordiale in pratica corrisponde a Dio stesso, analogamente a Jakob Bohme che vede in lui la manifestazione diretta del Creatore e nella quale Adamo di fatto contemplava la sua stessa luce.

Un ulteriore tratto essenziale di questo primo Adamo, già accennato tra le righe, è quello della sua androginia, enunciato nel passaggio biblico “maschio e femmina li creò”.

Per Platone l’Essere originario era di forma sferica e nel Simposio ne parla come di un’entità che, avente in sé sia il maschio-sole che la femmina-terra, era posto sotto la tutela della Luna. Origene e Gregorio di Nissa individuarono nell’Adam Qadmon della Cabbala ebraica l’essere la cui androginìa viene successivamente persa a causa della separazione di Eva (concetto sul quale torneremo più avanti). Analogamente, nei testi tradizionali indù si cita una casta primordiale “Hamsa” corrispondente all’Uomo ancora integro e solo successivamente polarizzatosi nei due sessi. E’ però chiaro che tale bisessualità primordiale deve essere interpretata in chiave metafisica ed immateriale, non banalmente organico-corporea, come esplicitamente sottolineato da Frithjof Schuon. Anche Mircea Eliade osserva che quello dell’Androgine fu lo stato dell’indifferenziazione primordiale, antecedente all’individualizzazione umana ed alla separazione di Eva da Adamo, il che, in effetti, può ben conciliarsi con il tipo di coscienza, “non distintiva”, che più sopra ipotizzavamo per l’Essere degli inizi. Peraltro, Eliade segnala anche come, significativamente, nelle stesse mitologie australiane si ritrovi l’idea, simile a quella platonica, dell’uomo primordiale di forma sferica, come peraltro il totem ancestrale “Kuruna” dal quale questi provenne.       

 

 

 
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IL DEMIURGO

Post n°21 pubblicato il 21 Settembre 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

 

L‘immagine di Dio e l’androginia del primo Uomo sono i due punti che, nel primo capitolo del Genesi, ci sono sembrati particolarmente significativi per iniziare a sviluppare le nostre analisi; poi, com’è noto, vi sono diversi ed ulteriori elementi di carattere antropogenetico che vengono esposti anche nel secondo capitolo. Senza voler entrare nel merito dei vari studi tesi a comprendere le motivazioni letterarie di tale ripetizione narrativa (come ad esempio quelli basati sugli stili di redazione dell’Antico Testamento e sulle modalità di composizione di un materiale che, in origine, dovette essere alquanto eterogeneo), qui ci interessa soprattutto tentare di cogliere, per quanto ci è possibile, le realtà più profonde adombrate dalla lettera scritta, anche alla luce di altre fonti tradizionali.

Una considerazione che, ad esempio, ci è sembrata di notevole interesse sulla natura dello iatus tra il primo ed il secondo capitolo del Genesi, è quella che lo ha interpretato come lo spazio temporale (o a-temporale ?) durante il quale si verificò la caduta dell’angelo Lucifero, evento in relazione al quale, inoltre, per Leopold Ziegler si sarebbe generata la materia.

La caduta dell’angelo e l’azione “diabolica” da esso effettuata – dal greco “diaballo”, il cui significato è pressappoco “colui che divide, che si mette di traverso” – implica l’ingresso in campo dell’ambivalente figura demiurgica che appunto, come Guenon ricorda, produce prima di tutto la “divisione”, situazione alla quale tutti noi ora non possiamo sottrarci, in quanto egli è di fatto il “Principe di questo mondo”.

Dovremo quindi sviluppare una serie di considerazioni piuttosto articolate in merito alle figure mitiche coinvolte che, come vedremo, spesso sembreranno confondersi, sovrapporsi tra loro, ed effettuare azioni apparentemente contrastanti ed ambivalenti.

L’elemento di partenza che in ogni caso ci sembra vada preliminarmente sottolineato è che vi è la possibilità di una doppia visuale.

La prima è, come abbiamo visto, quella relativa ad una coscienza primordiale ed unitaria, dove soggetto ed oggetto, principio e manifestazione, non si distinguono, ed un Uomo, evidentemente molto diverso da quello attuale, conserva ancora intatta e connaturata la facoltà spirituale di “intelligere”, ovvero di cogliere le verità ed i fenomeni “dall’interno”, senza la necessità di alcuna mediazione sensoriale.

La seconda, propria alla nostra condizione attuale ed ordinaria, è invece la visuale separativa soggetto-oggetto o, cosmologicamente, principio-manifestazione: su questo piano, ne deriva quindi la prospettiva di un Principio supremo e trascendente, la cui immagine è costituita dall’Androgine Primordiale, in pratica un aspetto della sua manifestazione. Mircea Eliade ricorda che lo stato primordiae ed androginico era quello precedente alla “individualizzazione” e quindi se, con Guenon, interpretiamo tale termine come sinonimo di manifestazione “formale”, allora l’Androgine può essere inteso come pertinente alla manifestazione “informale”, analoga a quella angelica, di carattere universale e “sovra individuale”. Tale immagine appare androginica ma anche, come in un gioco di rifrazioni ottiche, a sua volta “principiale” in rapporto ai livelli più bassi della manifestazione stessa. Se ora, per effetto dell’anzidetta “divisione demiurgica”, con la relativa ed inevitabile prospettiva duale alla quale dobbiamo sottostare, poniamo l’osservazione dal punto di vista della manifestazione, il Principio primo viene colto solo come uno dei due poli dell’Essere (per esempio, raffigurato nella coppia indù Purusha – Prakriti), e quindi tale visuale porta con sé la correlativa definizione di un, per così dire, “spazio” mediano, e la connessa possibilità di una doppia attualizzazione. Doppia possibilità che dalla potenza demiurgica viene percorsa “contemporaneamente” ed a-temporalmente, perché altrimenti non risulterebbe “ambivalente” da un’osservazione esterna, come lo è la nostra. Oppure possiamo ricorrere ad un’altra rappresentazione di questo concetto: un “aspetto” del Demiurgo segue una strada, l’altro “aspetto” ne percorre l’altra, itinerari obbligati e connaturati a questo livello di esistenza che, ripetiamo, deve necessariamente soggiacere alla prospettiva duale. Per fare un paragone in ambito “microcosmico” (ma pensiamo che l’analogia possa essere attinente), ciò accade anche nell’uomo, come ricorda Coomaraswamy, nel rapporto tra il Sé immortale, centrale e principiale e tutta quella serie di “soffi” (i “marut”) che da esso dipendono e che corrispondono ad altrettante facoltà visive, uditive, pensanti ecc.., le quali compongono quella che è al fine la nostra “anima”: avviene cioè che i Marut possono obbedire al Principio che li regge, ma possono anche ribellarvisi. Nello stesso ordine di considerazioni si pone quella che per Bohme è l’ambivalenza del serpente, che tra le sue possibilità ha quella di essere sia una vergine celeste, ma anche un simbolo di femminilità maligna; pure Julius Evola ci fornisce uno spunto in tale direzione, quando ad esempio ricorda che alcune leggende celtiche identificano i divini “Tuatha de Danann” agli angeli caduti o discesi dal cielo col Graal: spiriti condannati a precipitare sulla terra perché colpevoli di aver seguito Lucifero o perché rimasti neutrali al momento della sua ribellione. Ebbene, una fonte celtica definisce i Tuatha de Danann, significativamente e contemporaneamente, “dèi e falsi dèi”, mentre altri testi celtici cristianizzati non esitano a definirli addirittura “demoni”.

Ugo Bianchi in definitiva ci ricorda come la figura che in ambito etnologico è stata definita “demiurgo-trickster” non vada confusa o ridotta a quella di un’essere puramente distruttore e diabolico, trattandosi invece di un personaggio che piuttosto presenta aspetti “prometeico-epimeteici”: in sé è notevolmente ambivalente, spesso maligno e animato da spirito di rivalità, ma a lui si fanno risalire pure elementi dell’esistenza umana oggi essenziali ed imprescindibili.

Ecco quindi rapidamente tratteggiate le due vie percorse dal Demiurgo: una è quella nella quale egli non si riconosce come immagine del Principio e guarda solo “separativamente” a sé stesso. L’altra invece è quella nella quale guarda e riconosce l’Androgine come diretta immagine del Principio, identificandosene e prendendolo a modello.

Le esamineremo, più nel dettaglio, una alla volta.

 

 

 
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LA VIA NEGATIVA DEL DEMIURGO

Post n°22 pubblicato il 26 Settembre 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Renè Guenon ricorda che Dio ordinò agli angeli di adorare l’Essere primordiale e prototipico – che nella tradizione islamica è l’Uomo Universale – nella sua forma, anche qui definita sferica, raffigurante la manifestazione totale; ma, come già dicevamo, e sottolinea anche Titus Burckhardt, l’Uomo Universale non è realmente separato da Dio perché rappresenta il suo volto nell’insieme delle creature. Il ribelle si rifiutò quindi di venerare l’immagine divina che era in Adamo, pur partecipando di quella globalità, giacchè Bohme ricorda infatti che gli angeli hanno anch’essi forma umana, oltretutto rappresentata in modo supremo dal più bello, Lucifero. La ribellione angelica si configura quindi come pura negazione, come il non accettare di conformarsi, pur facendone parte, a quel “Tutto” fatto “a immagine e somiglianza di Dio”: Lucifero sembra quindi agire come colui che non vuole ammettere di appartenere a un dato ordine della Manifestazione e nega obbedienza ad un ruolo assegnato nell’economia cosmica, preferendo piuttosto affermare la propria individualità. Ma nel momento in cui Lucifero sceglie la sua esistenza distintiva e non subordinta al Principio primo per il tramite dell’immagine divina, cade.

In merito all’invidia luciferica verso Adamo, Coomaraswamy propose un’interessante corrispondenza “microcosmica” tra Adamo e lo Spirito e tra Satana e l’Anima, rappresentando quest’ultima, nell’ambito del ternario Spirito-Anima-Corpo, la parte mediana (analoga alla Psyche greca), che Guenon ci ricorda appartenere al dominio della manifestazione formale o individuale, ancorchè “sottile” e non grossolana come la corporeità pesante. In effetti, anche dal Corano ci perviene uno spunto simile, in quanto il rifiuto di inchinarsi davanti ad Adamo, da parte dell’angelo chiamato Iblis, ne determina la caduta e la trasformazione in un “Jinn”, ovvero in un essere della categoria dei “Geni”, entità immateriali che Burckhardt segnala appartenenti al mondo psichico, intermedio.

Ma l’azione “diabolica”, oltre ad essere gravida di conseguenze a livello cosmologico, contemporaneamente prepara anche sul piano antropologico le condizioni della successiva caduta umana; Onorio da Ratisbona e Leopold Ziegler vedono infatti il processo discendente generale svilupparsi per tappe, concludendosi con l’evento definitivo che porterà l’uomo a perdere il paradiso edenico (e nel quale, non a caso, il Serpente è una delle creature già ivi presenti).

Secondo tradizioni successive a Cristo, raccolte e commentate da diversi autori, tra i quali Julius Evola e Mircea Eliade, gli angeli ribelli vengono avvicinati ai “figli di Dio”, o “figli di Elohim” (e, in questo contesto interpretativo, certa letteratura siriaco-ebraica identifica gli angeli caduti anche con gli enigmatici “Veglianti”),  che si unirono alle “figlie degli uomini”, evento che nel Genesi viene narrato appena nel sesto capitolo; altrove, Evola identifica gli angeli ribelli con i Nephelin (Giganti), i Titani ellenici e, ancora, “coloro che vegliano” con gli uomini che anticamente furono “gloriosi” (citati sempre nel sesto capitolo del Genesi) leggendo tale fase “gloriosa” come quella aurea ed androginica-primordiale. Una chiave di lettura, quella evoliana, che quindi sovrappone i vari attori sulla scena, ponendo di fatto l’accento sull’unità di fondo di queste entità, evidentemente narrate nelle varie fonti tradizionali secondo aspetti e prospettive diverse, ma mai irriducibilmente separabili l’una dall’altra.

Viene però da chiedersi, in questo contesto, a chi corrispondano le “figlie degli uomini”, dal momento l’umanità nella forma attuale non esiste ancora.

A tale quesito, Evola risponde che tali enti femminili sono interpretabili con la stessa potenza degli angeli ribelli, potenza che può etimologicamente essere collegata alla “potenzialità” materiale – tradizionalmente sempre di segno femminile – contenuta in essi stessi (materialità che probabilmente appartiene al livello “sottile”, visto che anche per Guenon i “Veglianti”,  corrispondenti agli angeli ribelli, sono forze che appartengono al mondo intermedio); ma non è solo Evola che percorre questa via interpretativa, anche altri autori hanno visto, nell’unione dei figli di Elohim con le figlie degli uomini, la materializzazione progressiva dell’entità adamica sottile ed incorporea.

Pur essendo narrato appena nel sesto capitolo del Genesi, che si pone dopo l’uscita dall’Eden e già lontano dall’età dell’oro, è quindi probabile che l’evento di questa unione possa riguardare, su un diverso piano ontologico e cioè a livello “sottile”, situazioni di inizio Manvantara; ma ciò non toglie che analogamente l’evento possa essersi riprodotto in un secondo tempo e ad un livello più basso, questa volta però tra attori diversi, seppur in qualche modo corrispondenti a quelli iniziali. Frithjof Schuon infatti ci ricorda che l’età dell’oro fu in effetti tale proprio per questa sua continua apertura tra l’alto ed il basso, per questa comunicazione non ancora interrotta con il mondo sottile, e che, quindi, poteva con facilità “produrre” questo genere di accadimenti.

Ed in effetti, come metodo generale di analisi, Guenon rileva come sia del tutto normale che nei testi tradizionali un elemento particolare possa essere preso a prototipo di un insieme più ampio, come anche può succedere il caso inverso, ovvero che dal caso più generale si vada per analogia verso il più specifico e particolare.

 

 

 

 
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IL CONTROVERSO TEMA DEI GIGANTI

Post n°23 pubblicato il 29 Settembre 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Nel post precedente abbiamo descritto la via “negativa” del Demiurgo, quella nella quale – riassumendo – l’Angelo non riconosce l’immagine del Principio e guarda solo separativamente a sé stesso, rivolgendosi / congiungendosi alla sua sola potenza, che in ambito tradizionale è sempre considerata di segno “femminile”; qui evidentemente corrisponde a Lucifero, che così viene a cadere ad un livello più basso di manifestazione, la quale, per utilizzare i termini guenoniani, è ora “formale” o individuale, ancorchè “sottile”, cioè attinente al mondo intermedio. Di questo ambito intermedio, Lucifero diviene quindi un’entità demonica, e la sua caduta genera contemporaneamente il mondo della materia, in tutte le sue estensioni, che verrà ripresa più avanti.

Ma, a margine della via negativa del Demiurgo, riteniamo opportuno soffermarci ancora un attimo sul tema dell’unione dei “figli di Dio” con le “figlie degli uomini”.

Come sappiamo, tale connubio tradizionalmente porta all’origine dei “Giganti”: siccome però va detto che, nella letteratura generale, tali entità sono state interpretate nei modi più disparati, è lecito interrogarci ora su chi avrebbe potuto corrispondervi dal punto di vista storico-antropologico.

A nostro avviso, un’utile spunto per tentare una risposta può indirettamente arrivare dall’osservazione di Frithjof Schuon, che rileva come il rifiuto di Lucifero di inchinarsi davanti ad Adamo potrebbe aver prodotto la creazione anticipata di una forma parodistica dell’uomo; il pensatore perennialista si riferisce alla scimmia, ma riteniamo che il concetto si potrebbe estendere anche alle forme antropoidi subumane che erroneamente la visuale evoluzionista considera la base dalla quale l’attuale umanità si sarebbe elevata.

Probabilmente nella stessa direzione possono andare anche altri episodi tramandati nel corpus tradizionale di vari popoli, come ad esempio quello, ricordato da Ugo Bianchi, presente nelle mitologie dei nativi americani, dove il Coyote (che riveste un ruolo demiurgico) tenta di imitare la Divinità che ha creato l’uomo, riuscendo però solamente a produrre esseri deformi. Schuon nota inoltre la notevole concordanza tra un altro mito amerindiano, nel quale il Grande Spirito generò l’uomo in fasi successive, distruggendo però ogni volta quanto fatto in precedenza perché ne derivavano creature abnormi, con quanto presente del Saura-Purana indù, dove si rileva che nella fase aurorale di ogni nuova creazione emergono dapprima le più infime forme viventi, derivanti dal “tamas”. Tamas è infatti il più basso dei tre “gunas” (le fondamentali qualità costitutive della manifestazione nel sistema filosofico indù Samkhya; le altre due sono “rajas” e “sattwa”) che, anche per Evola, caratterizza tutto ciò che è inerte potenzialità: probabilmente, la stessa potenzialità insita nel “femminile” che ebbe a determinare la caduta luciferica e della quale il lato oscuro è rappresentato dalle creature teriomorfe e mostruose che nei miti vengono sempre collocate nei tempi aurorali. Dal canto suo, Julius Evola aggiunge infatti come gli organismi antropoidi sub-umani avrebbero rappresentato i “primi vinti” nel processo antropogenetico, in quanto popolazioni apparse fin da subito “degenerescenti” perché travolte da queste “potenzialità animali” che l’Uomo primordiale recava in sé.             

Qualche altro autore ha inoltre osservato come i mitici Giganti potrebbero corrispondere alle specifiche popolazioni neandertaliane, in quanto la parola “gigante” andrebbe in questo caso interpretata non in senso letterale, ma piuttosto per enfatizzare concetti quali forza e coraggio (o, forse, anche prossimi a “brutalità”, o “forza elementare” ?), dal momento che in greco la parola si esprime con il termine “kyklops”.

Rileviamo peraltro che un’interpretazione dei Giganti in chiave “subumana” – almeno in questo contesto e senza per forza doverne escluderne una ulteriore – potrebbe forse fornire anche una spiegazione all’accenno, in verità rimasto sempre piuttosto oscuro, che nel sesto capitolo del Genesi testualmente recita “C’erano sulla terra i giganti a quel tempo, e anche dopo…”; ovvero, nel momento in cui l’episodio dell’unione tra i figli di Dio e le figlie degli uomini viene posto su un piano crono-ontologico più recente e post-edenico, i biblici Giganti “antecedenti” rappresenterebbero, in questo caso, il risultato dell’unione precedentemente avvenuta, come sopra ipotizzato, sul piano “sottile”.

Tale interpretazione, infine, potrebbe anche avere una qualche relazione con i frequenti miti, in effetti alquanto paradossali, come sottolineato anche dall’antropologo Massimo Centini, di esseri sub-umani storicamente precedenti l’umanità attuale, che tuttavia sembrano essere stati particolarmente esperti nelle arti magiche, almeno nelle tecniche più grossolane di manipolazione delle forze naturali; non andrebbe cioè esclusa l’ipotesi di alcuni rudimenti “operativi” trasmessi dagli angeli ribelli alla loro imperfetta discendenza – e magari conservati ad un livello basso, “stregonesco” – che tuttavia avrebbe rappresentato una primissima stratificazione culturale, poi indirettamente passata anche ai nostri antenati Sapiens. Angelo Brelich, forse in relazione ad una tale possibilità, accenna infatti alla natura contemporaneamente sovrumana e subumana della figura del Trickster, mentre, d’altro canto, ci sembra degno di nota e convergente nella stessa direzione, il fatto che nell’arte medievale raffigurazioni di uomini dalle spiccate caratteristiche semianimalesche vennero spesso accostate a Satana.

 

 

 
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LA VIA POSITIVA DEL DEMIURGO

Post n°24 pubblicato il 07 Ottobre 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Come dicevamo più sopra, esiste per il Demiurgo non solo la possibilità della ribellione e della conseguente caduta luciferica, ma anche quella dell’azione in piena conformità al superiore Principio spirituale che lo regge.

E’, questa, la prospettiva nella quale, in ambito cristiano, si sottolinea come Dio, nella creazione, sembra servirsi dell’ausilio di entità subalterne, facendo anche ipotizzare a Meister Eckhart che l’uso della persona plurale nel passo genesiaco “facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” rappresenti una chiara indicazione dell’intervento di angeli intermedi tra il Principio e gli enti inferiori. Anche in ambito extra-cristiano sono numerosi in ogni tradizione i riferimenti ad un Demiurgo creatore del cosmo e dell’uomo. Ci limitiamo a ricordare, ad esempio, il serpente Ofione, detto anche Borea, presente sia nel mito ebraico che in quello egiziano (ed altrove inserito nella stirpe dei Titani), del quale ci sembra significativa sia la sua natura ofidica, in questo caso evidentemente non malefica, che il nome Borea, dai chiari rimandi nordico-polari. Anche i nativi australiani ricordano gli Antenati Mitici che, durante il “Dreamtime”, non generarono la realtà attuale dal nulla ma, operando appunto in modo demiurgico, trasformarono un materiale preesistente, informe ed indifferenziato (“masse semiembrionali di bambini sviluppati a metà”) per creare l’uomo qual è oggi. Degno di particolare nota, ci sembra pure il mito dei Mordvini, per i quai fu proprio lo stesso Sajtan, qui chiaramente visto nel suo aspetto “benevolo”, a creare l’uomo.

Ora, quindi, la potenza demiurgica guarda e riconosce l’Androgine come diretta immagine del Principio, e sovente ciò avviene fino al punto di identificarsi / sovrapporsi ad esso, se è vero che, ad esempio, nei complessi sistemi gnostici accade che il primo Adamo, quello pre-fisico, spesso presenta caratteristiche demiurgiche egli stesso. In un’altra versione di questi, è l’entità chiamata Sofia-Zoe che crea l’Adamo “psichico”, denominato anche Eva o Afrodite, da cui il rapporto con la bisessualità. Nell’articolata antropogonia gnostica trovano posto anche un Adamo “pneumatico”, parte spirituale più vicina al Principio, e l’Adamo “terrestre”, che si manifesterà più tardi ancora, ma è proprio la figura di Sofia-Zoe che ci sembra particolarmente interessante in quanto presenta attributi femminili rispetto a Dio (in quanto sua “manifestazione”), ma contemporaneamente androginici rispetto all’umanità. Fu probabilmente questa situazione di equidistanza tra una fisicità non ancora completatasi ed una uranicità non più assoluta, in quanto ormai rivolta verso il mondo, che orientò Platone a porre l’Androgine sotto la tutela della Luna, a metà strada tra Cielo e Terra, e ciò forse anche per la sua già segnalata “relativa” femminilità in rapporto al Principio supremo. La stessa traccia interpretativa ci sembra ravvisabile nei passi evoliani dedicati agli enigmatici Nephelin: in alcune situazioni questi assumono chiaramente le vesti dei “caduti”, secondo la linea demiurgica discendente descritta nei post precedenti, mentre invece altrove, ad esempio nello stadio in cui anticamente furono gli “uomini gloriosi” citati nel sesto capitolo del Genesi, corrispondono tout-court alla “razza originaria, potente e divina, androginica” della paradisiaca età aurea.  

Ma il Demiurgo non è tale se non posto in relazione ad una materia prima da plasmare. Come dicevamo più sopra, tale materia, che corrisponde alla “terra” utilizzata da Dio per modellare Adamo nel secondo capitolo del Genesi, è quella che nel frattempo è venuta a crearsi con la contemporanea caduta luciferica. Anche in ambito extra-biblico si trovano significative analogie sull’origine di questo primario elemento di base. Ad esempio, Mircea Eliade ci ricorda come, nel mito greco, gli uomini sarebbero stati creati utilizzando le ceneri dei Titani folgorati da Zeus nel momento conclusivo della “titanomachia”; a rigore, andrebbe detto che tale episodio dovrebbe collocarsi solo alla fine dell’età dell’oro ed inaugurare la sua reggenza che, successiva a quella di Kronos, tradizionalmente segna il passaggio all’età dell’argento. Ma, come ebbe modo di notare anche Ugo Bianchi, nel Mito il riferimento a “Zeus” molto spesso è del tutto generico e quindi può riguardare fatti anteriori al suo effettivo avvento; ciò, riteniamo, secondo una trasposizione analoga a quella dei “Figli di Dio”, che nel Genesi appaiono appena al sesto capitolo, ma purtuttavia, come abbiamo visto, potrebbero rappresentare (anche) eventi ben precedenti. Eliade ricorda anche altri miti, di origine mesopotamica, nei quali la materia prima della quale sarà poi costituito l’uomo è, pure qui, di natura demoniaca: è il caso del sangue di Kingu, che anticamente era stato uno dei primi Dei ma poi era divenuto il capo della fazione dei Demoni, e la cui analogia con la figura del Lucifero caduto ci sembra piuttosto chiara.

Ora però il Demiurgo estrinseca l’aspetto “positivo” e pienamente conforme al Principio, apparendo come un suo mero strumento per la creazione antropo-cosmica: in tale visuale corrisponde a “Ruach”, il biblico soffio divino (assimilabile anche all’indù “Hamsa”, mitico cigno-veicolo di Brahma e sul quale torneremo più avanti) che, agendo sulla materia primordiale, costruisce l’Adam Ha-Rishon immortale, “principio” dell’uomo sensibile. Ma la presenza dell’anzidetto elemento materiale, pone ora l’intervento demiurgico al livello della manifestazione che, per utilizzare le categorie guenoniane, è quello “formale” o “individuale”, ancorchè secondo noi, ancora “sottile” e non grossolano: prendendo a modello l’Androgine bisessuato, viene quindi plasmato il sottostante Adamo del secondo capitolo del Genesi, il quale, non a caso, Leopold Ziegler ricorda essere ancora “unico della sua specie e non accoppiato”. Per Titus Burckhardt questo “soffio vitale”, esso stesso costituito di materia sottile, appartiene al mondo intermedio posto tra Cielo e Terra, “vento” che – associato anche al Mercurio – nel proprio ventre porta il germe spirituale: rispetto al Principio trascendente ricopre quindi una funzione passiva e ricettiva, esattamente come riceve ed “assume” l’immagine androginica.

In tale prospettiva, Evola segnala come in ambito gnostico il mondo del Demiurgo rivesta infatti carattere femminile (più sopra avevamo accennato alle caratteristiche di Sofia-Zoe) di cui la “mercurialità” è senz’altro un carattere distintivo. Ma il mondo animico, come ci ricorda Guenon, può assumere, a seconda del punto di vista dal quale lo si considera, gli attributi dell’essenza o quelli della sostanza, il che gli conferisce una parvenza di duplice natura; e, quindi, la potenza demiurgica appare nello stesso momento attiva e formatrice in rapporto al complesso della sottostante manifestazione formale in tutte le sue estensioni. Tale concetto, in rapporto al particolare caso dell’antropogenesi, è probabilmente riassunto nell’idea, sempre originante dalle correnti gnostiche, che il Demiurgo creò sia il corpo umano, sia la sua forma sottile, indicata come Psychè, ovvero l’anima. Quindi, per la sua posizione intermedia, è il Demiurgo stesso a rappresentare l’Anima del ternario composto dalla sovrastante immagine archetipica androginica, che simboleggia lo “Spirito”, e dal sottostante Adamo terrestre che ne è il “Corpo”; come dicevamo, però, questo “corpo” consta di un elemento sostanziale che nell’Adam Ha-Rishon viene definito “polvere” sottile e che anche a parere di Leopold Ziegler non può ancora corrispondere a quello attuale e solidificato.

 

 

 

 
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L'UMANITA' PROTOTIPICA

Post n°25 pubblicato il 13 Ottobre 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

L’esegesi biblica si è spesso soffermata sul significato della formazione di Adamo con polvere della terra, descritta nel secondo capitolo del Genesi.

Significativamente – come concludevamo nel precedente post – da più parti si è sottolineano come tale plasmatura non debba essere intesa (non ancora, almeno) nel senso dell’elemento corporeo dell’uomo, evidenziando come siano piuttosto precisi i riferimenti all’utilizzo non della parte grossolana e “spessa” della terra (’adamah), ma del suo stato più leggero (‘afar): a quell’elemento, cioè, più puro e “meno materiale” della materia stessa che secondo il Talmud fu preso dal Centro del mondo, sul monte Sion. Per Jakob Bohme, a costituire la parte sostanziale di Adamo, “uomo virginale” plasmato a perfetta immagine di Dio, fu infatti la “terra paradisiaca” che in lui assume un valore “quintessenziale”, tradizionalmente associabile all’elemento “Etere”. Anche per Schuon è l’etere stesso – quinto elemento – che di fatto rappresenta l’uomo primordiale, l’uomo come tale, e questa “protomateria sottile” costituisce il punto di partenza del mondo corporeo, che si estende senza soluzione di continuità dagli stati più sottili ed impalpabili a quelli più opachi, densi e pesanti. Renè Guenon ricorda come l’etere, elemento nel quale l’azione del guna Sattwa si estrinseca al massimo grado, rappresenti, nel suo ordine, la “non-manifestazione” principiale e cosmologicamente l’idea del Centro, mentre, nei confronti del mondo corporeo, ne costituisca il principio più immediato per il tramite degli altri quattro elementi classici (Aria, Fuoco, Acqua, Terra); nello stato di indifferenziazione primordiale, Guenon segnala inoltre come l’etere contenga in potenza tutti i corpi e la sua stessa omogeneità lo renda capace di ricevere tutte le possibili forme nelle loro varie modificazioni.

Ma il metafisico francese ricorda anche come l’etere corrisponda, in ambito indù, alla casta primordiale Hamsa (il cui nome è analogo a quello del cigno e del soffio divino, già più sopra incontrati), ovvero la prima “razza” unitaria, che anche Julius Evola riconosce essere anteriore ad ogni successiva differenziazione. Le caratteristiche chiaramente auree di tale super-entità originaria, collegata al primo grande anno del Manvantara – e della quale nessuna delle attuali popolazioni umane può considerarsi erede diretta – erano tali che Hamsa, dal punto di vista delle caste tradizionali, presentasse una situazione di perfetto equilibrio dei tre gunas, sintetizzando nel contempo, a livello superiore, le funzioni delle due più importanti caste sottostanti, ovvero quella sacerdotale (brahmana) e quella guerriera (kshatriya).

Questi due poteri, nell’ambito mitologico della Tradizione Romana, vengono ancora da Guenon ricordati e riassunti nella figura unitaria di Giano che, come  notavamo, regnò in un periodo antecedente a quello di Saturno; emblematizzati nei simboli del cinghiale (sacerdoti) e dell’orso (guerrieri), anche secondo altri autori furono dominati ed armoniosamente conciliati dalla divinità bifronte, prima della loro separazione / polarizzazione che ebbe luogo in un momento sicuramente posteriore (ed il cui significato verrà approfondito in seguito).

Nel mito ellenico un analogo ricordo di tale fase primordiale ed unitaria, oltre al già citato Androgine platonico, è rappresentato dalla prima delle cinque razze riportateci da Esiodo, ovvero quella aurea, beata ed immortale, che al termine del suo ciclo venne mutata in una compagine di demoni epictonii (ma non nell’accezione negativa veicolata dal Cristianesimo); furono entità che, divenute invisibili per gli uomini delle ere successive – ma non costrette ad un soggiorno sotterraneo – sono descritte con caratteristiche sicuramente benigne e, in qualche modo, “protettive” nei confronti di una più recente umanità “ordinaria”. Julius Evola le identifica ai già incontrati Veglianti, evidentemente anch’essi considerati non nel loro aspetto “infero”, ma in quello positivo.

Il ricordo di questa prima umanità esiodea si sovrappone e si avvicina, secondo vari studiosi tra cui Ugo Bianchi, a quella menzionata nel filone mitologico facente capo al Titano Prometeo, che secondo alcune versioni ne sarebbe anche il plasmatore, assumendo quindi quelle caratteristiche pienamente demiurgiche più sopra descritte. E’ stato notato come l’umanità prometeica appaia informe, prototipica e “non terrestre”, risultando sottoposta a delle condizioni di esistenza diverse da quelle attuali; ma sarà proprio Prometeo, intermediario-separatore con gli Dei superiori, che per mezzo dei suoi atti, spesso maldestri e fraudolenti, creerà tutta una serie di conseguenze che finiranno con il condurre quell’umanità ancora mitica alla situazione attuale. Da un’esistenza indistinta ed una vita in comune con le entità divine, si arriverà quindi alla separazione ed alla definizione dei rispettivi ruoli nell’incontro di Mecone; dopo questo cruciale evento, come punizione per i sotterfugi del Titano, le divinità superiori invieranno all’uomo Pandora – la prima donna – ad ulteriore conferma del fatto che l’umanità prometeica viveva in una condizione probabilmente analoga a quella androginica già altrove descritta.

In definitiva, sulla base degli elementi raccolti, quali conclusioni possiamo trarre in merito al primo Grande Anno del nostro Manvantara ?

A nostro avviso, la più importante è che raffigurazioni quali l’Adamo plasmato di polvere sottile, la casta Hamsa sostanziata di etere, la prima razza immortale di Esiodo, l’informe umanità prometeica, ecc... rappresentano diverse immagini per definire una stessa realtà di fondo: quella di un’umanità – se così possiamo già definirla – non ancora fisicizzata secondo i canoni odierni e quindi praticamente impossibile da rinvenire sotto forma di resti fossili. Resti che infatti, nel periodo tra  65.000 e 52.000 anni fa, o latitano del tutto, o sono fortemente controversi.

Dall’unità primordiale, prototipica ed androginica del primo Grande Anno si passerà quindi alla dualità maschio-femmina: ciò costituirà indubbiamente uno degli eventi di maggior discontinuità nella storia arcaica dell’Uomo, contrassegnando il passaggio al secondo Grande Anno del nostro Manvantara come, più nel dettaglio, avremo modo di vedere nei prossimi post.   

 

 

 
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IL SECONDO GRANDE ANNO: GENERALITA' MACROCOSMICHE

Post n°26 pubblicato il 22 Dicembre 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Gli avvenimenti e le figure mitiche relative al secondo grande anno del Manvantara sembrano essere state ancora più articolate ed intrecciate di quelle relative al primo, esteso tra 65.000 e 52.000 anni fa.

A livello macrocosmico, come già accennato in precedenza, sappiamo che il Satya (o Krita) Yuga, composto esattamente da due grandi anni, non dovette essere un periodo statico nella storia umana: attorno a 52.000 anni fa – momento in cui avvenne anche il passaggio al terzo avatara di Vishnu (Varahi, il Cinghiale) – si verificarono, infatti, importanti e repentine modificazioni dell’assetto boreale, confermate da carotaggi ed analisi dei ghiacci dell’Artide che evidenzierebbero mutamenti climatici avvenuti nell’arco di un tempo molto breve, forse soli 3-5 anni.

Dalla forma incorporea del primo grande anno, si passò così, secondo i percorsi che in seguito esporremo, ad un tipo umano analogo a quello odierno, che, come abbiamo segnalato in precedenza, nell’arco dai 52.000 ai 39.000 anni fa sembrerebbe ben attestato in diverse aree del pianeta; di conseguenza è evidente che le caratteristiche climatiche di questo Paradiso Terrestre dovettero essere adatte all’insediamento antropico secondo i canoni attuali.

Come detto, non possediamo sufficienti elementi per sostenere, contrariamente ad altre aree ad elevata latitudine, l'ipotesi della deglacializzione dello specifico punto polare, anche per il fatto che è molto controversa la questione se questo, nel corso del tempo, abbia o meno subito degli spostamenti in rapporto alla crosta terrestre; lasciando quindi per scontata l'ipotesi scientifica attuale, ovvero quella della sua totale glacializzazione, ne consegue che la posizione dell'area che avrebbe ospitato la prima forma umana simile alla nostra, doveva necessariamente essere eccentrica o circumpolare. Sulla base dei dati già esposti, riteniamo che, a tal proposito, particolare importanza ebbe il settore eurasiatico nord-orientale (la già incontrata Beringia ? Non ci sentiremmo però di escludere anche altre zone ad elevata latitudine), divenendo probabilmente quella che per Guenon fu la sede del centro spirituale primordiale di questo Manvantara: la citata Varahi o “Terra del Cinghiale” che, come è stato notato, si collega ora al ciclo saturniano.

Vi sono alcuni rimandi nella letteratura tradizionale che sembrerebbero confermare una non perfetta polarità e “centratura” del paradiso iperboreo rispetto all’asse terrestre (di cui l'Albero della Vita è chiaramente il simbolo): un’interpretazione attenta delle parole della Bibbia vede, ad esempio, il giardino primordiale posto nella parte orientale della regione detta “Eden”, terra peraltro definita come un'immensa ed arida steppa, quindi come se il giardino rappresentasse una sotto-zona di nicchia all'interno di un'area più ampia e, di per sé, alquanto inospitale (la vasta tundra artica ?). Inoltre, secondo il mito babilonese, gli alberi della vita e della conoscenza non erano posti precisamente al centro della terra primordiale, bensì collocati sulla sua soglia orientale, da dove sorge il sole; ed anche nello stesso testo biblico l’indicazione “nel mezzo” di Eden, per quanto riguarda la posizione degli stessi alberi, secondo vari studiosi rappresenterebbe una citazione molto approssimativa, da ritradurre con un più generico “in”.

Passando ora dagli aspetti di carattere geografico a quelli legati alla temporalità, ci sembra significativo l'accenno di Platone, che nel “Politico” descrive una condizione del cosmo governato da Kronos, il cui scorrere era talmente lento da sembrare quasi immobile. La nostra ipotesi è che l'estrema lentezza avvertita nel secondo grande anno potrebbe corrispondere al primo avvìo del fenomeno precessionario, forse iniziatosi proprio in relazione ai rivolgimenti geoclimatici avvenuti alla fine del primo grande anno e di cui Kronos rappresenterebbe appunto la simbolizzazione; bisogna subito chiarire che non si può parlare della nota “precessione degli equinozi” in senso stretto in quanto, con l'asse terrestre ancora perpendicolare, le stagioni non esistevano ancora, ma ciò non toglie che il lento movimento conico dell’asse terrestre attorno a sè stesso potrebbe essere sorto anche prima della sua inclinazione rispetto al piano dell'eclittica. Di ciò può forse esserne conferma il collegamento, evidenziato da qualche autore, tra vari simboli riconducibili al fenomeno della precessione e la tartaruga Kurma, il secondo avatara di Vishnu, e la cui discesa si pone quindi ben all'interno del Satya Yuga, cioè prima dell'avvento delle stagioni. 

Il passaggio di 52.000 anni fa, inoltre, può forse riferirsi alla discontinuità spirituale, ricordataci anche da Julius Evola, intervenuta tra una prima fase polare, puramente uranica, immutabile e siderea, come lo è la luce delle stelle fisse, ed una fase successiva, nella quale il posto del Cielo viene ora preso dal Sole: il nostro astro è sempre fonte di luce, ma questa non viene più colta solamente in sé stessa, bensì in relazione ad un suo riflesso manifestato, più basso. Ci sembra un'immagine che, a livello cosmologico, ben può simboleggiare la polarizzazione maschio-femmina, questa tradizionalmente associata alla Luna che infatti, in rapporto al Sole, senz'altro può essere considerata un corpo più basso, che oltretutto ne riflette la luce. La separazione maschio-femmina è quindi il punto fondamentale attorno al quale ruoteranno le vicende del secondo grande anno: è sia causa che effetto dell’avvento di un certo tipo di coscienza (messa in analogia con il monte Olimpo), coscienza che nel precedente stato androginico comprendeva tutto, mentre ora si polarizza nella condizione duale instauratasi tra soggetto osservante ed oggetto osservato. La stessa dualità nella quale lo Zohar segnala che ebbe i suoi esordi la storia dell'umanità, cioè quando Dio tolse una costola ad Adamo.

Per fare un'analogia a livello cosmologico, il passaggio dall’unità androginica alla dualità maschio-femmina ci sembra esattamente corrispondente a quella che, da una posizione geograficamente assiale, sempre illuminata e con il Sole che vi gira attorno senza mai tramontare, si passa all’alternanza giorno-notte, propria ad una sede che, pur sempre posta ad elevata latitudine, ora però non corrisponde più precisamente al Polo Nord.

Come dicevamo all’inizio, i riferimenti e le figure mitiche riconducibili agli eventi avvenuti nel secondo grande anno, a nostro avviso sono particolarmente intrecciati e passibili di molteplici chiavi di lettura, che cercheremo di delineare, in termini più generali, nei prossimi post.

 

 

 
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CONCETTI PRELIMINARI - PARTE 1

Post n°27 pubblicato il 24 Febbraio 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Come dicevamo nel post precedente, la separazione maschio-femmina è l’evento fondamentale che segna il passaggio dal primo al secondo grande anno del Manvantara; tuttavia, a dispetto della sua formulazione apparentemente banale, vedremo che tale evento implicherà una serie di risvolti piuttosto articolati.

Su tutto, inoltre, andrà considerato che, come Julius Evola opportunamente segnalò, i simboli tradizionali sono intrinsecamente polivalenti e quindi passibili di una pluralità di interpretazioni.

Crediamo quindi che sia opportuno evidenziare, in via preliminare, alcuni punti metodologici, inerenti alla struttura generale di tutta la trattazione ed applicabili ad ogni livello, che dovremo tenere sempre ben presenti per poter collocare nel giusto contesto i vari concetti che man mano incontreremo; nello specifico, ci è sembrato che tali elementi fossero fondamentalmente quattro.

 

Il primo punto, già in parte sfiorato nei post precedenti, è quello relativo alla moltiplicazione di significato della stessa denominazione (p.es. “Adamo”), o anche alla pluralizzazione, con vari nomi, della stessa figura; il tutto, comunque, poi applicato su piani diversi. Ad esempio, abbiamo visto come nei miti gnostici si parli di ben tre “Adami”, l’Adamo pneumatico, l’Adamo psichico e l’Adamo terrestre, dove il primo potrebbe forse corrispondere all’immagine androginica diretta, il secondo alla parte sottile della manifestazione formale, ed il terzo all'uomo ormai completamente fisicizzato. In probabile analogia alla tripartizione gnostica, anche nella tradizione ebraica sussistono, come Guenon ci ricorda, tre diversi aspetti dell’uomo, definiti come Adam, Aish e Enosh: qui forse si potrebbe considerare Adam come l’Uomo universale e l’asse verticale che collega tutti i centri di tutti i diversi gradi dell’esistenza, mentre gli altri due – per i quali, a differenza di Adam, si può parlare più propriamente di aspetti prettamente “umani” e che, da un punto di vista “geometrico”, si pongono entrambi sul piano orizzontale – corrispondono rispettivamente all’uomo “intellettuale” e all’uomo “corporeo”. La tradizione ebraica, inoltre, menziona tre diverse spose di Adamo (nello specifico, Naamah, Hawwa e Lilith), forse in una qualche relazione con la menzionata suddivisione ternaria del maschio, dove una sposa si potrebbe ipotizzare corrispondere a ciò che nella tradizione indù è Prakriti in rapporto a Purusha (quindi con la coppia Prakriti-Purusha in analogia all’Uomo Universale), un’altra sposa potrebbe essere analoga all’insieme psico-fisico (manifestazione formale o individuale) in rapporto al maschio visto come elemento universale ed a-formale, ma tuttavia già manifestato del Principio, mentre infine l’ultima sposa potrebbe essere il lato corporeo in rapporto all’uomo visto ora come elemento sottile, interpretato nel suo aspetto essenziale. Di passata, notiamo anche come nel mito greco la primordiale femmina umana appaia invece come una figura unica, Pandora, che in quanto donna “prima” è stata avvicinata simultaneamente sia a Lilith che ad Eva, mentre invece per Adamo si è proposta un’analogia con l’entità, sdoppiata, costituita dai fratelli Prometeo – Epimeteo. Per terminare con questo primo punto, ricordiamo infine che la polarizzazione maschio-femmina è stata avvicinata, in ambito indù, alla polarizzazione dei gunas Sattwa / Rajas ed in corrispondenza all’enuclearsi, a partire dalla primordiale supercasta Hamsa, delle due caste successive Brahmana / Kshatriya; nella presente ottica della pluralizzazione dei significati, la specifica analogia proposta, per tale evento, con la polarizzazione dei gunas Sattwa / Rajas, potrebbe a nostro avviso collocarlo sul piano dell’Adamo inteso nel suo significato più alto – quello “pneumatico”, secondo la visione gnostica – anche se vi è naturalmente la possibilità di interpretare, come vedremo, la polarizzazione delle caste anche su di un piano sottostante.

 

Un secondo punto che abbiamo costantemente notato, e che potrebbe forse essere una conseguenza della pluralizzazione semantica e di livello descritta nella parte sopra, è stato quello di una frequente intercambiabilità di significato tra il concetto di maschile e di femminile. Partendo dall’alto per arrivare alla corporeità, possiamo dire che già per il termine “spirito” Evola ebbe a notare come questo spesso presentasse tratti non ben definiti, in quanto nel cristianesimo non sembra femminile quando sovrasta le acque (Antico Testamento) o quando feconda la Vergine, mentre invece in ebraico ed aramaico, inteso come come “ruach”, presenta genere femminile; anche nel termine greco per spirito vi è corrispondenza al prana indù nel senso di forza vitale, che quindi verrebbe più istintivo connotarlo anche qui in senso femminile. Sul livello animico (in questo caso, probabilmente collegabile al summenzionato Adamo psichico) Guenon significativamente segnalò, in termini generali, come esso possa assumere, a seconda del punto di vista dal quale lo si considera, gli attributi dell’essenza o quelli della sostanza, il che gli conferisce una parvenza di duplice natura; e, per tentare un’analogia, ricordiamo che ad esempio nei miti gnostici l’Adamo psichico viene chiamato, esso stesso, anche Eva o Afrodite. Anche nell’interpretazione di alcuni aspetti della tradizione indù possiamo incontrare casi di tale intercambiabilità maschio/femmina: ad esempio, nel mito delle due entità animiche simboleggiate dai due uccelli sull’albero, ovvero Jivatma, passiva e legata al corpo, ed Atma, attiva e distaccata, secondo Valsan esse sarebbero entrambe – quindi anche Jivatma – di sesso maschile, mentre invece in altri autori, come ad esempio Jakob Bohme (che sottolinea la virilità del fuoco e la femminilità dell’acqua) questa sembra essere considerata, direttamente o indirettamente, di sesso femminile in quanto acqueo-lunare. Ma l’evenienza di una tale intercambiabilità maschio/femmina sembra potersi applicare anche sul più basso livello materiale se, ad esempio, è vero che Enosh, l’uomo “corporeo” sopra ricordato nella tradizione ebraica, molto significativamente viene associato alla “Vita”, aspetto che normalmente si affianca, invece, ad Eva (che è “la Vivente”).  

 

 

 
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CONCETTI PRELIMINARI – PARTE 2

Post n°28 pubblicato il 25 Febbraio 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Continuiamo dal post precedente:

 

Un terzo punto che ci è sembrato rappresentare una costante significativa, alla luce della quale poter interpretare aspetti importanti delle vicende che vedremo, è stato quello relativo alla doppia modalità di estrinsecazione del femminile. Sotto questo aspetto, Julius Evola infatti ci ricorda che la forza mercuriale, femminile, sottostante alle leggi del mondo sublunare dei cambiamenti e del divenire è un principio di identificazione ed immedesimazione che, disgiunta dal centro ed abbandonata a se stessa, sarebbe un’impulso cieco a cadere verso il basso; segnala inoltre come la prima fase della manifestazione si caratterizzi dal liberarsi incontrollato della potenza femminile ridestata – fase discendente o promanativa – momento che procederà fino ad un limite contrassegnato da un punto di equilibrio. Di conseguenza, posto che l’elemento mercuriale ricordato da Evola è relazionabile al concetto di espansione ed in generale al Raja Guna (avevamo già accennato in precedenza alla teoria indù dei tre gunas), la nostra interpretazione è che la fase promanativa possa corrispondere, sulla base di alcuni elementi che più in là avremo modo di esporre, alla figura di Lilith; di contro, la fase in cui la femmina appare invece più stabile ed “ancorata” al principio maschile, potrebbe essere accostata ad Eva. A nostro avviso tale “doppiezza” femminile potrebbe presentare una certa, parziale, relazione anche con l’accenno di Filone di Alessandria, che definì come maschile il regno del tutto privo di differenziazione sessuale (Nous, Logos, Dio stesso), mentre come “femmina” il sottostante regno materiale il quale però, a sua volta, reca in sé la polarità maschio-femmina; concetti, questi ultimi, che andrebbero quindi relativizzati, come già segnalato nel punto precedente. Ma la duplicità femminile trova forse un'analogia ancora più stretta con quella messa in campo dalla figura demiurgica, già ricordata precedentemente e, come vedremo, inquadrabile a più livelli. Lo stesso Jakob Bohme tocca l’argomento, rimarcando significativamente l’ambivalenza del serpente, che può essere visto sia come vergine celeste ma anche come simbolo di femminilità maligna; serpente che peraltro Guenon ricorda essere uno dei simboli dell’Anima Mundi, i cui due aspetti, contemporaneamente essenziali e sostanziali a seconda del punto di osservazione, vengono  opportunamente messi in luce dal metafisico francese. E pure il mito iranico forse reca un'analoga traccia, se vi si narra che l’uomo primordiale Gayomart ebbe come spose due regine, una bianca ed una nera. In definitiva, riteniamo che in teoria tale doppia dinamica possa essere applicata al femminile su ogni piano ed in ogni situazione essa venga considerata, peraltro tenendo presente come gli aspetti schematicamente definibili – in termini generali – come “Eva” o come “Lilith” di una data femmina, non necessariamente debbano coincidere con quelli di un'altra, relativa ad un piano diverso.

 

Un quarto ed ultimo punto di complessità riguarda infine il rapporto che si instaura tra maschile e femminile, nel senso che questo ci è sembrato essere declinato secondo due modalità non perfettamente coincidenti. Una prospettiva è quella che per comodità definiremo “verticale/principiale”, nella quale il maschio si situa chiaramente su un piano soprastante a quello della femmina, mentre l'altra, che chiamiamo “orizzontale/correlativa”, è quella nella quale il maschio sembra invece porsi sullo stesso piano della femmina, “rappresentando” così, sul livello più basso, il principio soprastante. La visione principiale è quella che, ad esempio, pare emergere quando si evidenzia che la donna è stata fatta ad immagine dell’uomo, esattamente come l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio; d'altro lato, invece, sembra proporsi un'ottica di tipo più correlativo quando ad esempio al maschile ed al femminile sembrano farsi cosmologicamente corrispondere il Sole e la Luna, rappresentati in una modalità che sembrerebbe quasi “orizzontale”. Paradossalmente, un'unica immagine potrà forse illustrare ulteriormente entrambe le prospettive, ovvero quella del triangolo iniziatico, ricordata da Guenon, con le diverse funzioni collegate alle sue varie componenti: il Brahatma, che ne rappresenta il vertice, il Mahanga la sua base ed il Mahatma lo spazio intermedio, quale vitalità cosmica ed “Anima Mundi” degli ermetici. Al Brahatma appartiene la pienezza dei due poteri sacerdotale e regale allo stato indifferenziato, che poi si distinguono in Mahatma (corrispondente al potere sacerdotale ed alla casta dei Brahmani) ed in Mahanga (corrispondente al potere regale ed alla casta degli Kshatriya). Se ci soffermiamo sul Mahatma (casta Brahmana), nella visuale verticale sappiamo che l'ambito psichico è in qualche modo “principiale” rispetto al sottostante livello corporeo (Mahanga / casta Kshatriya); ma d’altro canto, non possiamo dimenticare che l’Anima Mundi, in termini ermetico/alchemici, viene sempre accostata al principio mercuriale, il quale notoriamente può acquisire una doppia caratterizzazione, ovvero acqueo-femminea se in movimento e sotto il segno della Luna, oppure ignificata e maschile se fissata e sotto il segno del Sole, elementi che quindi sembrano geometricamente porsi entrambi sullo stesso piano, quello intermedio appunto. Ricordiamo che anche Evola segnala il “doppio segno” del mercurio, inteso come ruach o soffio, ed inoltre come spesso questo venga raffigurato anche sotto forma di albero, il quale, in varie saghe europee, spesso si sdoppia – sembrerebbe quindi “orizzontalmente” – in un albero del Sole, orientale e maschile, ed in un albero della Luna, occidentale e femminile.

 

Per concludere, abbiamo visto come i quattro aspetti esposti in questo e nel post precedente possano apparire piuttosto controversi ed arrivare ad introdurre anche elementi per certi versi contraddittori; riteniamo però che i punti di contrasto siano solo apparenti e non del tutto insanabili, ma che vadano invece elaborati secondo un approccio che ne tenti l’integrazione in un unico disegno globale. Con i prossimi due post, quindi, proveremo a fornire una prima sintesi generale di quella che, a nostro parere, potrebbe essere la concatenazione logica dei vari passaggi – tenendo sempre presenti gli aspetti sopra riassunti – per passare in quelli successivi ad un'analisi più approfondita di ciascuno di essi.

 

 

 

 
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SINTESI GENERALE DEL SECONDO GRANDE ANNO - PARTE 1

Post n°29 pubblicato il 26 Febbraio 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

In precedenza avevamo segnalato, tra gli altri elementi generali, l’importante nota di Filone di Alessandria, il quale definiva come “maschio” il regno del tutto privo di differenziazione sessuale (Nous, Logos, Dio stesso) e come “femmina” il regno materiale; questa, però, secondo Filone, reca in sé – a sua volta – la polarità maschio-femmina, mettendo quindi in luce una certa duplicità di aspetto insita nel “femminile”.

Partendo da questo accenno, possiamo allora iniziare a sviluppare la nostra traccia generale proprio considerando il Nous come il “maschio” in una prospettiva che non lo vede “correlarsi”, su un piano più o meno orizzontale, alla “femmina”: corrisponde quindi all’Adamo ancora androgino e letteralmente polare. Sappiamo comunque che, in questa fase, tale “femmina” appare ancora come “contenuta” nel maschio in qualità di sua potenzialità, di possibile “corpo” sostanziale e più basso che da lui dipende, in quanto suo principio immediato. In questo caso, la femmina è analoga all’insieme potenziale della manifestazione formale nel suo complesso, a lui subordinata ma non ancora interamente dispiegata (infatti la sua corporeità, in questa fase, è limitata all’Etere, “principio” degli altri elementi).

Interviene quindi la polarizzazione tra maschio e femmina, che, in ambito indù, è stata messa in analogia all’enuclearsi, a partire dalla primordiale supercasta Hamsa, delle due caste successive Brahmana / Kshatriya; riteniamo sia a questo livello che l’evento possa essere avvicinato all’analoga polarizzazione dei gunas Sattwa / Rajas (ma, come vedremo, questa interpretazione può essere integrata anche da un’altra, su scala più ridotta). In ambito biblico, d’altro canto, vi è il significativo passaggio del “sonno di Adamo”, che appare quasi come una prima “caduta” che accompagna la perdita dell’androginia iniziale.

Come abbiamo ricordato, per Filone alessandrino la separazione maschio-femmina sembra comunque implicare un evento articolato, in quanto l’ “uscita” della femmina rispetto all’Adamo-Androgino reca con sé una ulteriore polarizzazione di questa in un maschio ed una femmina, per così dire, “relativi”. Questa caratteristica insita nell’entità femmile, che si estrinseca rispetto all’Adamo-Androgino, non intacca tuttavia la sua unitarietà di fondo, cosa che ad esempio pare ben sintetizzata dalla figura singola di Pandora; ma contemporaneamente, come riportato da alcuni dati tradizionali, il femminile si presenta secondo una doppia modalità di azione, che riteniamo possa essere posta in rapporto alla duplice figura di Eva e di Lilith (entrambe compagne di Adamo). Il dispiegamento femminile implica quindi la piena attualizzazione della manifestazione formale, sia a livello sottile (che in questo contesto potrebbe corrispondere ad Eva, intesa come sinonimo dell’Adamo psichico) che a quello grossolano (che in questo contesto potrebbe corrispondere a Lilith, intesa come sinonimo dell’Adamo corporeo), soprattutto, come accennavamo sopra, sotto la preponderante azione del Raja guna, essendo stata la componente “tamasica” già separata e lasciata indietro con la precedente caduta del Demiurgo. Ed inoltre è la stessa doppia possibilità demiurgica, già incontrata in precedenza, che trova un parallelo nell’analoga duplice modalità di dispiegamento della femmina, ovvero come “formazione” nel suo aspetto più alto e come “espansione” nel suo aspetto di caduta, concetto, questo, avvicinabile al già ricordato momento del biblico “sonno di Adamo”: sul piano materiale vi è quindi la produzione dell’elemento Aria (vista la predominante azione di Rajas), che rappresenta la prima emanazione, unitaria, a partire dall’Etere iniziale ancora indifferenziato e con il quale può essere messa in analogia su un livello più basso. “Ruach” / Aria si attiva quindi nella manifestazione formale, agendo in particolare nel mondo fisico, e costituisce la matrice di base dalla quale sorgeranno i successivi elementi Fuoco/Acqua/Terra; in termini antropogenetici, ad essa corrisponde la nascita della prima compagine umana unitaria e corporeizzata, che secondo noi dovrebbe corrispondere, come vedremo più avanti, alla Razza Rossa.       

Nell’ambito della manifestazione formale (“femmina” in senso ampio), questa compagine umana rappresenta quindi la femmina “relativa”: in una visuale che per comodità definiamo “verticale/principiale” appare particolarmente evidente il rapporto che, ora a questo livello più basso, intercorre tra le prime due caste della tradizione indù. Il “maschio relativo” di questo piano può infatti corrispondere alla casta brahmana ed all’ambito sottile, ed anche alla funzione formatrice che esso stesso esercita, trovandosi in posizione sovrastante alla “femmina relativa” che corrisponde alla casta kshatriya; in quest’ottica, la femmina assume di conseguenza la veste della sola parte materiale della manifestazione formale e rappresenta un mero “corpo” che, esternamente, riveste l’entità adamica globale. In tale ottica l’elemento Aria viene spesso collegato in modo più specifico e diretto con il simbolismo guerriero, come ad esempio l’orso.

Riteniamo comunque che, in linea teorica, nulla vieti che il concetto della “duplice dinamica” del femminile possa, a sua volta, essere applicabile alla “donna” intesa, ora, in quest’ambito più ristretto, ad esempio implicando come riflesso, sull’iniziale compagine umana, un primo abbozzo di separazione, a sua volta, in un ramo geneticamente più stabile (un macro gruppo più boreale ?) ed uno meno (un macro gruppo più australe ?), secondo una logica prevalentemente di carattere Nord/Sud.

 

 

 
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SINTESI GENERALE DEL SECONDO GRANDE ANNO - PARTE 2

Post n°30 pubblicato il 05 Marzo 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Come ricorda Julius Evola, dopo il momento “promanativo” iniziale della manifestazione, subentra una successiva fase nella quale il principio maschile e quello femminile giungono ad assestarsi in una situazione di reciproco equilibrio: un punto, questo, la cui modalità, rispetto all’ottica “verticale/principiale”, pare meglio rappresentarsi secondo un rapporto piuttosto di tipo “orizzontale/correlativo”. Tale prospettiva è forse quella che, in termini biblici, appare propria all’Adamo ridestatosi dal sonno precedente, il quale, mutato ormai nella sua sostanza, osserva ora la donna che ha di fronte a sè, riconoscendola più o meno come sua pari.

Questo passaggio può aver comportato dei significativi effetti in termini cosmologici. Sul piano “sottile”, è probabile che, rispetto ad una precedente situazione di mera potenzialità (protrattasi lungo tutto il “sonno di Adamo”) sia effettivamente venuta ad attivarsi quella “doppia valorizzazione”,  già implicita, nella quale ora l’elemento virile assume la veste di uno solo dei suoi due possibili aspetti, ovvero quello “solare”; ciò, di contro all’altro aspetto, quello “lunare”, impersonato dalla femmina soprattutto riguardo alla sua mutevolezza (e peraltro più prossimo al livello corporeo). Nel contempo, sul sottostante piano materiale, la separazione Sole/Luna nel sottile implica la polarizzazione dell’elemento Aria in Fuoco ed Acqua, comportando quindi un ulteriore impulso, sull’umanità materializzata, ad enucleare dei raggruppamenti diversificati, però secondo una logica che ora assume prevalentemente la direzione Est/Ovest. A tal proposito, anche se torneremo sull’argomento in seguito, riteniamo utile ricordare già in questa sede come lo stesso Evola accenni sia ad uno sdoppiamento dell’originario Albero della conoscenza in uno orientale ed uno occidentale, sia anche al verificarsi, successivamente alla prima migrazione umana di direzione Settentrione/Meridione, una poi sviluppatasi soprattutto lungo l’asse Oriente/Occidente: a nostro avviso questi due elementi potrebbero, in qualche modo, essere posti in relazione tra loro.

La difficoltà a stabilire delle specifiche corrispondenze tra razze umane ed elementi, unita al fatto che spesso i punti cardinali possono essere utilizzati in chiave simbolica (ad esempio, spesso l’Oriente allude al Nord, e forse, parallelamente, la direzione meridionae può in qualche modo essere messa in rapporto a quella occidentale) non ci consentono di scendere troppo nel dettaglio sui primordiali movimenti umani; ciononostante, cercando di integrare gli aspetti legati alla migrazione nord/sud con quella trasversale est/ovest, è possibile a nostro avviso formulare almeno alcune considerazioni di massima.

E’ intanto ipotizzabile che l’ “Adamo”, che ora rappresenta più specificatamente l’aspetto solare del livello “intermedio” – sul piano materiale possa corrispondere a quei gruppi umani che, pur nel quadro di una certa eterogeneità antropologica di partenza (sulla quale torneremo), evidenziano tuttavia una componente, geograficamente siberiana-nordorientale, più stabile e maggiormente vicina al principio superiore, per il tramite del soprastante centro di matrice solare e delle relative presenze di ordine sottile.

La componente femminile, invece, rimane maggiormente dipendente dal centro lunare, ma, in questo modo, particolarmente esposta alla variabilità selenica ed al già accennato (su un ambito più ampio) campo di variazione “Eva-Lilith”, ovvero la generica “doppia possibilità” del femminile; Eva tuttavia evidenzia una, relativa, minor instabilità rispetto a Lilith e potrebbe forse corrispondere a quelle popolazioni site in area nordatlantica, mentre invece la parte più caduca, emblematizzata da Lilith, potrebbe alludere a quei gruppi più precocemente migrati da nord verso zone più australi. Peraltro  Lilith, oltre a collegarsi anch’essa direttamente al simbolismo guerriero (o ad una sua deviazione) – cosa che oltretutto conferma l’unicità di fondo della “femmina” – evidenzia in modo particolarmente pronunciato la mutevolezza lunare, da cui la ragione della marcata eterogeneità generale della corporeità acquisita e delle popolazioni venute alla luce. La compagine umana posta nel range “Eva-Lilith”, collegata soprattutto alle entità sottili nel loro aspetto lunare e meno prossima a quelle di impronta solare, d’altra parte risulta, in certi casi particolari (forse le popolazioni pigmoidi ?) quasi contigua al piano sub-umano e sottoposta a pericoli involutivi non trascurabili.

Infine, non è nemmeno da escludere un’interpretazione di questa polarizzazione maschio-femmina, qui avvenuta sul piano materiale, con il sorgere dei Figli di Dio (boreali) e delle figlie degli uomini (australi), la cui unione avrebbe più tardi generato i Giganti, come una delle razze della specie Homo Sapiens (forse i Cro-Magnon ?).

Ovviamente tutto ciò impica che nello stesso tempo esista nel mondo un’umanità già materializzata – sia a Nord che a Sud – a fianco di corrispondenti entità del mondo intermedio (rappresentate da vari personaggi mitici, come Kronos, Prometeo, i Veglianti…), con le quali si instaura un rapporto spesso inquadrato nel ruolo dell’ “Antenato mitico / Eroe culturale”; queste entità sottili, avvicinabili a nostro avviso alla seconda razza esiodea, presentano caratteristiche ambivalenti lunari/solari per le diverse prospettive adottate nel considerarle (ricordiamo i Tuatha de Danann della mitologia celtica, visti contemporaneamente come “dèi e falsi dèi”).

Verso il termine del secondo grande anno si acuiscono i contrasti tra i gruppi umani collegati alla seconda casta (a partire dall’azione inizialmente condotta dalle popolazioni riconducibili a Lilith su quelle accostabili ad Eva) che progressivamente inizia a deviare spiritualmente; si arriverà, alla fine, al dissidio aperto delle genti collegate alla seconda casta con quelle della prima (associabili ad Adamo) risultandone, in ultimo, la conclusione del Satya Yuga e quella che, in termini cristiani, è stata definita la “Caduta dell’Uomo”.

A partire dal prossimo post, cercheremo quindi di trattare in modo un po’ più approfondito tutti i vari passaggi che sopra sono stati riassunti.  

                

 

 

 
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IL FEMMINILE

Post n°31 pubblicato il 09 Marzo 2013 da MICHELEALESSANDRO
 

Nel post precedente avevamo iniziato con la nota di Filone di Alessandria, per certi versi paradossale, secondo la quale il termine “maschio” si riferisce al regno del tutto privo di differenziazione sessuale (Nous, Logos, Dio stesso), mentre “femmina” al regno materiale che, a sua volta, porta in sé la polarità maschio-femmina.

In effetti se andiamo ad approfondire il significato del termine greco Nous, vediamo che questo identifica un elemento di qualità, spirituale ed archetipico, che in ebraico corrisponde a neshimah, l’intuizione intellettuale, facoltà trascendente, che va oltre all’uomo stesso, superiore alla ragione perché questa è di matrice ancora psichica e quindi sottoposta a mutevolezza ed incertezza. Questo è quindi il “maschio” al quale si riferisce il filosofo alessandrino, considerato cioè secondo una prospettiva che qui non lo vede “correlarsi”, su un piano più o meno “orizzontale”, alla “femmina”: corrisponde, di conseguenza, all’Adamo ancora androgino e letteralmente polare.

Sotto tale ottica si può ricordare come, ad esempio, anche S.Ambrogio in qualche modo avvicini Adamo al Nous. Sappiamo comunque che, in questa fase, la “femmina” appare ancora “contenuta” nel maschio in qualità di sua potenzialità, di possibile “corpo” sostanziale e più basso che da lui dipende, in quanto suo principio immediato. In questo caso, riteniamo che la femmina possa essere fatta corrispondere all’insieme potenziale della manifestazione formale (o individuale) tutta, secondo i termini esposti dal metafisico Renè Guenon: infatti, in varie e diffuse concezioni tradizionali, l’insieme del mondo corporeo-mentale riveste natura passiva e femminea. A tale proposito, è opportuno ricordare come molti Padri della Chiesa consideravano Eva, la femmina per eccellenza che “esce” da Adamo, quale simbolo dell’anima-corpo, mentre per Origene il femminile rappresentava la creatura radicata nella manifestazione. Nella stessa direzione si muove Coomaraswamy quando segnala il “Sé”, che nasce dal seno divino, corrispondere all’Uomo interiore e costituire la Persona vera, sovra individuale, mentre quello che chiama l’Uomo esteriore – cioè l’aggregato psichico-fisico – nasce dalla donna; ne deriva che l’individualità esteriore di un essere umano (maschio o femmina) sia sempre di natura femminile rispetto al Sé interiore, che rappresenta la parte maschile del composto. Evola evidenzia come il femminile corrisponda all’instabile, al mutevole, al sub-lunare ed è sostanza animatrice, psyche, forza-vita; inoltre tale forza-vita femminile dell’essere eterno, quando la manifestazione procede dall’Uno, praticamente lo “cronifica”, cioè sviluppa questo essere, in sé immutabile, nella dimensione temporale, da cui il chiaro ed importante collegamento del femminile “in azione” con il simbolo del tempo, il titano Kronos. E’ inoltre significativo che il termine arabo “El-Hayah”, appellativo della vita, sia molto simile a quello del serpente (El-hayyah), mentre in ebraico hayah significa a un tempo vita ed animale e così appare evidente quanto sia stretto il rapporto tra il serpente ed Eva (la “vivente”).

Riprendendo alcuni accenni evoliani, in particolare sul “demonismo” dell’elemento femminile, crediamo inoltre sia plausibile avvicinare quest’ultimo alla funzione demiurgica già descritta in relazione agli eventi avvenuti precedentemente; nella misura in cui esso trovi, com’è ovvio che sia, una sua collocazione nell’ambito del disegno cosmico, può cioè esservi un parallelo con l’angelo Lucifero che, essendo in origine il più bello, partecipava anch’egli a suo modo della globalità, dalla quale però ad un certo punto volle astrarsi. Già Evola ricordava come nello gnosticismo la natura femminile veniva considerata il “mondo del demiurgo”; caratteristiche che possono essere di volta in volta, ed in modi diversi, impersonate da figure come Kronos, Lilith, Prometeo. E’ ovvio che l’aspetto femminile sia più chiaramente riconoscibile in Lilith, prima moglie di Adamo secondo le mitologie mesopotamiche, mentre lo è meno in Prometeo e Kronos, ma i due titani, come vedremo più avanti, tradiscono nel loro agire innegabili aspetti “lunari” e quindi indirettamente femminili. Di conseguenza, sotto questo aspetto, la “femmina” rappresenta una parte del disegno globale, della quale però non può sfuggire il suo stato di subordinazione ontologica rispetto all’elemento maschile, come anche Evola ebbe spesso modo di sottolineare; la stessa immagine biblica della creazione di Eva, per arrivare alla quale è necessario l’utilizzo del corpo di Adamo, può essere letta come il ricorso ad un modello, ad un prototipo, al quale è necessario fare riferimento. Per Paolo, infatti, come l’uomo è l’immagine di Dio, la donna è l’immagine dell’uomo, mentre, in termini più generali, è stato notato il fatto che la creazione della donna da una parte del corpo maschile presenti numerosi paralleli nei vari miti delle origini del mondo. A questo livello, l’interpretazione del maschio come causa esemplare può quindi confermarci nel consideralo secondo i suoi aspetti sovra-formali in rapporto a quelli sottostanti “femminili”, individualizzati e psichico-grossolani, che poi però, secondo l’iniziale accenno di Filone alessandrino, andranno a polarizzarsi a loro volta; per certi versi, paradossalmente, è quindi nell’ambito di questa femmina che andrà allora a delinearsi quell’Adamo psichico già precedentemente menzionato (e non a caso definito anche Eva o Afrodite), evidenziando ancora una volta la netta polivalenza della simbologia tradizionale ed una marcata transitorietà delle denominazioni e delle caratteristiche funzionali che avevamo già sottolineato in precedenza. 

Le note di cui sopra possono tuttavia valere come brevi considerazioni di carattere generale nel rapporto intercorrente tra il maschile ed il femminile del piano umano. Nella fase in cui non si è ancora verificata la polarizzazione tra di essi (cioè durante tutto il primo grande anno del Manvantara), la femmina, però, non può pienamente estrinsecare tutte le sue possibilità di manifestazione e quindi rimane “contenuta” nell’ambito dell’unità androginica, limitando il suo apporto alla sola corporeità sottile della prima umanità, sostanziata di Etere, e la cui potenzialità plastica rappresenta infatti il “principio” dei successivi elementi che si dispiegheranno più tardi. 

                    

 

 
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