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UN BUCO NEL CIELO - CAP. IV

Post n°1351 pubblicato il 10 Luglio 2012 da non.sono.io
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La Grande Mano che avrebbe dovuto stappare l’umanità, puntuale come tutte le divinità, però non si presentava. A Valeriano ogni minuto passato dentro quell’automobile a fare la stessa fine di un particolare senza rilevanza di un assurdo quadro astratto, gli macerava dentro una brodaglia di fastidi assortiti. Aveva le fauci secche, un po’ per il caldo, un po’ per le sigarette. Avvertiva come se la testa si gonfiasse ad ogni battito del cuore, e i suoi sensi tutti all’erta a fare di ogni più piccolo disagio un’angoscia insopportabile. Proprio trascinato da questo stato d’animo, gli prese una voglia insopprimibile di odiare qualsiasi cosa. Cominciò con il maledire se stesso, che si era ridotto in quello stato e che aveva perpetrato nell’errore accettando l’invito di un suo amico-nemmeno-tanto-amico. Era abbastanza adulto da comprendere che una pianta annaffiata con il piscio non può far altro che seccare, e che la vita funziona un po’ come una partita di calcio, dove la regola è: “gol mancato, gol subito”. Commettere uno sbaglio subito dopo averne già compiuto uno, è un’azione che comporta inevitabilmente una punizione, un prezzo. Sono le regole, è lui lo sapeva. Non era riuscito a trattenersi, e questa situazione in cui si trovava era il conto.
Una volta giudicatosi e conseguentemente autocondannatosi, si sentì autorizzato a fare il processo a tutto il resto.
Alla strada, troppo stretta e mal curata; alle piante, troppo selvagge, chiaramente cresciute senza nessun piano, tanto che contribuivano alla strettezza della carreggiata; alla sua maledetta auto italiana ma costruita in Polonia, per la quale ad un prezzo esiguo gli avevano dato la possibilità di viaggiare su un mezzo costruito attaccando i pezzi con la coccoina, studiato per farti andare fuori strada alla prima curva e la possibilità di morire soffocati durante un ingorgo estivo; a questo clima da africani al quale danno nomi sempre più esotici che qualcuno poi userà il giorno che avrà un figlio; all’estate più in generale, così: solo perché fa caldo. Poi passò a condannare gli automobilisti che guidavano auto contro natura, nere, altissime, con i vetri oscurati. Chissà se dovevano nascondere qualcosa o se erano loro stessi a doversi nascondere. Assomigliavano a carri da guerra, perché in fondo quella era una guerra. Solo che loro lo sapevano e Aureliano no. E, infatti, si era presentato con il suo carretto, senza aria condizionata, sperando di sopravvivere contro i carri armati neri, solo perché lui alla guerra non ci pensava. Colpevoli! 
Dopo ancora spostò lo sguardo sopra ognuna delle auto che gli sostavano inerti affianco, dietro, davanti. Si sporse per farlo meglio. Osservò con cura tutti gli altri automobilisti. Si soffermò su una “coppia silente”, animale che vive senza un vero perché e che di solito affolla le auto e i ristoranti. Un tizio, che viaggiava solo anche lui, mentre si scaccolava fissando con aria assorta il buco nel cielo. Due che pippavano sul cruscotto. 
All’improvviso tutta quella massa gli sembrò una marea di spazzatura. Inutile, anzi dannosa. Si sentì soffocare come se di colpo si fosse risvegliato dentro una gabbia, come se stesse subendo un’ingiustizia perversa. Si soffermò a caricare la sua ira pensando a quanta vita gli stava sfuggendo sprecata tra le dita nell’attesa di arrivare in un posto in cui in verità non voleva stare. Bloccato, da una palude di esseri insignificanti.
Allora alzò i pugni contro il tettuccio dell’auto che offrendo la stessa resistenza della latta, si ammaccò immediatamente. Aureliano aveva le vene del collo gonfie come due braccia di culturisti, il respiro affannato, la gola sempre più secca. Alzò lo sguardo verso il danno che aveva appena provocato e poi gli venne in mente che a uno di quei carri armati trainati da uomini-buoi, non sarebbe mai potuta succedere una cosa del genere. Strabuzzò gli occhi per spaventare la sua ira insulsa, ma non servì. Scagliò i suoi pugni all’unisono in danno del volante, e anche lui cedette come un savoiardo nel tiramisù ghermito da un cucchiaino. E fu in quel momento che con tutta l’aria che gli rimaneva in corpo, sporgendo il volto deformato in un’espressione di immenso sforzo, gridò: “SPARITE TUTTI! TUTTI QUANTI BASTARDI!”.
E per qualche secondo, tutto tacque.
Poi le cicale iniziarono a frinire. Al principio, ascoltandole, se ne poteva percepire la presenza giudicandola nell’ordine di qualche decina. Ma subito crebbero. Dopo qualche minuto sembrava ce ne fossero un milione o forse di più. Un suono così non si era mai udito su questo pianeta. Una lugubre nenia ritmica prodotta da uno sciame infinito di insetti invisibili. Il loro canto copriva qualsiasi altro suono, nel caso ce ne fosse stato bisogno. Infatti, in totale contrasto con il baccano delle cicale, tutto il resto era muto, immobile. Anche gli alberi resistevano alla brezza come soldati posti di guardia per non disturbare con il loro frondare. Le auto giacevano spente. In nessuna di loro c’era più anima viva, tanto che a vederle così vuote potevano essere scambiate per carcasse di animali perdute in un deserto.
Passò circa mezz’ora e le cicale ammutolirono. Tutte insieme, nello stesso istante. 
Nel medesimo momento un uccellino ramingo emise un cinguettare esile, breve, al quale seguì più lontano una sorta di risposta. Un altro della sua specie gli rispondeva in qualche modo producendo un verso più potente. Per capire cosa accadde dopo, bisognerebbe immaginarsi la scena di una scaglia di pietra che colpisce un vetro. Un uccello più grande, grigio, con una striatura rossa sul collo e il becco da rapace, sbucò da una pianta scuotendola. Giunto ad un’altezza che gli parve congrua, si produsse in un sibilo di quei tipi inascoltabili, acuti, che costringono chi li sente a tapparsi le orecchie con qualcosa. E quello fu la scaglia di pietra, mentre l’impatto fu il verso stridulo e le crepe, che rapide si producono diramandosi in un numero incalcolabile in qualsiasi direzione, furono stormi di altri volatili in moltitudini immense. Il ruolo del vetro toccò al cielo, che parve sbriciolarsi in tante piccole scaglie per quanti esseri c’erano ad affollarlo.
Gli uccelli rimasero in volo fino alla sera a stordire l’aria con il loro coro di cinguettii. Il sole calò e la luna, alta nella notte stellata e tersa, dava l’impressione che nel suo moto volesse cercare di evitare quel buco. Nessun astro brillante abitava quel pezzo di assoluta oscurità. Anche i pennuti abbandonarono il palco, dove rimase unico attore solo un vuoto spettrale.
In quel momento Aureliano trovò il coraggio per affrontare la realtà.
Fino ad allora lui se ne era stato rintanato nella sua auto, accucciato sui sedili posteriori, con le braccia a proteggersi la testa. Non aveva visto nulla, non voleva vedere nulla. Non capiva cosa succedeva, ma allo stesso tempo abborrava comprenderlo. Subì prima le cicale temendo di essere mangiato vivo come nei film d’orrore, e poi gli uccelli. Gli venne in mente Hitchcock e si serrò ancora di più nell’abbracciarsi la testa. Ma niente e nessuno gli aveva fatto male. Non aveva nemmeno una cacatina sul parabrezza. Aureliano aspettò il silenzio, e poi scese dall’auto.
Uscì lentamente aprendo lo sportello avendo cura di fare il minimo del rumore possibile. C’era così assenza di suono che il respiro di Aureliano rimbombava tra i pini che costeggiavano la strada. Si tolse le scarpe, prese una torcia nel cruscotto e iniziò ad andare in perlustrazione.
Le auto sembravano tutte vuote. Pensò che gli altri fossero scappati tutti, così proseguì in direzione del mare semplicemente seguendo la carovana di automobili abbandonate. Guardò in alto, verso il buco visibile anche di notte. Già non gli sembrava più una nuvola. Quello era un foro, un pezzo mancante. Come se una mano gigante avesse stappato lo scarico del lavandino dove galleggia il mondo.


 
 
 
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