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UN BUCO NEL CIELO - CAP. III

Post n°1350 pubblicato il 09 Luglio 2012 da non.sono.io
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Aureliano non si doveva trovare in quel posto in quel momento. E non solo perché proprio non gli andava di andare in spiaggia quel giorno, non solo perché la sbornia della notte prima gli aveva regalato un mal di testa di quelli destinati a rimanere nella storia, ma soprattutto perché svegliandosi la mattina aveva notato quella strana nuvola nera ferma in mezzo al cielo che per lui era un chiaro segno che sarebbe finito per piovere. E quindi perché andare al mare se non si ha voglia, se si è stati trascinati da un “sì” pronunciato troppo frettolosamente e per giunta in un giorno di pioggia? Purtroppo era tardi per i rimpianti. Aureliano, alle dodici e quindici circa di quella mattina si trovava fermo con la sua auto, una Fiat Seicento di quelle nuove, in mezzo al solito ingorgo di vacanzieri domenicali.  
Fuori dall’abitacolo la temperatura era arrivata a lambire i cinquanta gradi, ma dentro sicuramente li superava abbondantemente. Naturalmente la piccola utilitaria non era dotata di aria condizionata e la lamiera diventava un forno con il quale cucinarsi l’umore, oltre che il fisico. Aureliano tentava di distrarsi con la radio anche se non resisteva ad affacciarsi per cercare di vedere la fine di quel fiume di motori bollenti. Poi si accendeva una sigaretta, cambiava stazione poi si scorgeva dal finestrino asciugandosi il sudore e maledicendo se stesso per essersi lasciato convincere ad andare al mare. Cercava di immaginarsi la scena vista da fuori, come se il momento che stava vivendo fosse un quadro dipinto da un pittore di quelli astrattisti. Nel suo quadro immaginario si vedeva una radura di pini mediterranei e pianure di erba verde tagliata perfettamente in due da un serpente infinito di automobili che si perdeva all’orizzonte. Il paesaggio intorno, colorato con tinte pastello, il cielo completamente azzurro con un neo immenso circolare e proprio al centro del quadro,  in basso, una scia lunga di piccoli puntini multicolori. Ecco, anche lui faceva parte del quadro, perché per come se lo immaginava, da una di quelle macchiette multicolori, per la precisione una rossa non metallizzata, sbucava un’altra macchiolina appena accennata. Era la sua testa che verificava la gravità dell’ingorgo. Aureliano scosse la testa mentre si chiedeva come fosse finito a far parte di un quadro astratto, proprio lui che aveva sempre fatto in modo di non entrarci proprio nelle scene di massa e men che mai come protagonista. 
Per noia si mise ad osservare meglio quella nuvola nera e rotonda in alto sopra la propria testa. A vederla bene sembrava proprio un buco, un buco nel cielo. Ma è chiaro che il cielo non si può bucare. Le nuvole a volte, per qualche scherzo della luce, assumono le forme più assurde. C’è chi crede di vedere dei dischi volanti, dei draghi, qualcuno perfino delle croci o dei volti divini nelle figure che assumono casualmente mosse dal vento. Le nuvole in fondo non hanno forma, ed è per questo che ognuno può regalargliene una a seconda dei suoi gusti, o dello stato d’animo. Nel cielo ognuno è libero di vederci quello che vuole.  Quindi non c’era da stupirsi se lui quella mattina aveva l’impressione di ammirare un fantastico foro nella volta celeste. Non era pazzo. Quella visione, nel girovagare forzato dei suoi pensieri, aveva partorito un’altra scena fantasiosa in cui il mondo non era altro che un gigantesco lavandino e quel buco il suo scarico. Gli sarebbe proprio piaciuto che tutte quelle macchine in fila su quella strada che portava al mare, venissero inghiottite da un buco nel cielo. Come se una mano misteriosa fosse apparsa a togliere il tappo che tiene le cose attaccate alla Terra, e quelle, seguendo la logica naturale dell’acqua che scorre dove può, fuoriuscissero tutte per finire in chissà quale fogna cosmica. Tirò un sospiro di sollievo quasi che quei frutti della sua immaginazione fossero stati plausibili e che quindi la sua prigionia sarebbe durata solo il tempo necessario a svuotare la strada dai suoi liquami.
Ma la realtà era un’altra.
Guardò l’orologio: erano già più di due ore che procedeva a passo d’uomo.  Non era arrivato nemmeno a metà del percorso che l’avrebbe condotto in spiaggia. La testa gli pulsava e più provava a ricordare quello che era successo la notte prima, a quella festa, più si rendeva conto che l’alcool gli aveva spazzato via come uno tzunami tutti i ricordi relativi ai fatti trascorsi. Si accese l’ennesima sigaretta. Tirò fuori la testa dal finestrino con la speranza di vedere la fine di quell’attesa, almeno all’orizzonte, ma niente. L’ingorgo sembrava arrivare fino alle Colonne d’Ercole. Indietro non si poteva più andare, avanti nemmeno.
Non restava che sopportare il presente asciugandosi il sudore.  

 
 
 
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