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Oltre la via principale, dopo il secondo semaforo, svoltando a sinistra, nel giardino della seconda casa in cortina, tra i rovi d’ortiche e un ciuffo di fiori selvaggi che assomigliano a margherite ma di un colore mai visto, ritto a guardia del niente vive un nano da giardino. Indossa perenne un cappello di gesso verde ma scolorito con la cima spuntata dal sasso di un ragazzino maleducato, la giubba rosa che un tempo doveva essere rossa, la panciona che preme bottoni inutili. Fissa l’altro lato della strada in una posa che non lascia capire in quale faccenda sia affaccendato. Non ha nome. Non brontola, non cucciola, non mammola, non fa nulla, se non rimanersene fermo ad osservare il traffico.
Il volto è stato scolpito con le gote gonfie, come se l’ipotetica foto che lo congelò in quel momento, l’avesse colto nel momento esatto in cui stava sbuffando per qualcosa. Ma cosa sia stato ad averlo così stancato a nessuno è dato di saperlo. La gente passa e non lo nota. I padroni di casa ogni tanto lo spostano per pulire il prato e lo tengono ancora solo perché alla figlia minore di quella famiglia, che ormai ha superato i vent’anni, ricorda la sua infanzia. E’ grazie a questa strana mania che hanno gli umani di provare affetto per gli oggetti inanimati se il nano da giardino oggi non si trova dentro una discarica.
Dall’altra parte della via, proprio di fronte a lui, nel giardino dei dirimpettai, piantato a terra con quattro bulloni arrugginiti, c’è la statua di un leone. E’ seduto con le zampe anteriori incastrate in quelle posteriori. La chioma bianca di gesso non si muove quando soffia il vento. Il Leone di pietra, anche lui, fissa la via tentando di proteggere il suo territorio. Tutti i giorni il Nano da Giardino osserva il Leone, e il Leone osserva il Nano. “Io odio quel Leone”, pensa il Nano, “anzi odio tutti i Leoni. Odio quel bianco brillante e quella faccia da vincitore.” Il Leone, invece, non pensa nulla, si limita a fare la statua nel migliore dei modi possibili”.
Il Nano non vuole essere un nano da giardino, questo lo ha capito tanto tempo fa. Ma non ha gambe per andarsene, e allora passa il tempo ad osservare il Leone, che odia, e più lo odia più si scorda che gli fa schifo quello che è. Fino al giorno che si dimentica persino di essere solamente un pupazzo di gesso perché non riesce più a pensare ad altro che a quello stupido Leone e si convince che senza il Leone la sua vita sarebbe un’altra cosa, probabilmente migliore.
Un giorno un uomo, esce dalla casa di fronte con una carriola, svita i bulloni al Leone e se lo porta via, per sempre. Il Nano al principio esulta alla sua vittoria, ringrazia gli déi dei Nani da Giardino per avergli concesso la grazia. Poi di colpo si accorge che non ha più nulla a distrarlo dalla sua condizione. Cerca di guardarsi dentro per trovare una speranza alla quale aggrapparsi, però incontra solo gesso e ancora gesso. E inizia a piangere.
Da allora non hai mai più smesso di farlo.
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