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PRIMA TAPPA - GRADO: giorno 4: un triathlon improvvisato - visita alle riserve naturali

Post n°527 pubblicato il 01 Settembre 2017 da Signorina_Golightly

Il trucco è non pensarci troppo su, chè se ci pensi poi ti chiedi chi te lo fa fare...

L'altro trucco è non prefigurarsi con la mente tutti i possibili pericoli a cui si va incontro, perchè quelli che immagini difficilmente si verificheranno, mentre in compenso ti si pareranno davanti difficoltà che non avevi proprio immaginato.

Così si passa al negozio di noleggio bici e un po' titubanti e munita di mille piantine, si parte imboccando la ciclabile che scorre accanto alla laguna in direzione riserva Cavenata e molto dubbiosa (e tendidenziamente per il no) sull'eventualità di raggiungere l'altra, più bella, oasi alla foce dell'Isonzo.

Nel pedalare i miei dubbi maledetti che per una maniaca del controllo come me sono di casa: e se cado? se mi perdo? se non torno in tempo per consegnare la bici? e se mi stirano?

Ecco, faccio un respirone, raccolgo tutti i dubbi in un sacchetto immaginario e, no, non esageriamo, non li abbandono, ma almeno da là dentro sento più attutito l'eco delle loro voci. 

Questo primo tragitto è un altalenante e sfiancante alternarsi di momenti di meraviglia a momenti di angoscia quando inizio a pensare troppo.

E' il tratto più semplice: la relativamente affollata (o per lo meno non deserta) pista ciclabile del centro abitato di Grado, che, superata la zona est dei campeggi e dei residence continua attraverso i campi fino alla non lontana riserva della Cavenata, dove mi rifocillo e riposo un po', ma soprattutto cerco di raccogliere informazioni per pensare a che fare.

La divulgatrice dell'oasi è l'ago della bilancia che mi fa propendere per quel che in fondo volevo anche io: decido di assecondare il mio senso di avventura e lasciare perplessa la mia cautela innata che fa la combo con il mio senso pratico (dovrò fare tutto di corsa per il tempo non è abbastanza!).

Insomma, non solo decido di puntare verso l'Isola della Cona, ma intraprendo il percorso più lungo e panoramico: un'incredibile pista ciclabile sopraelevata sulla costa deserta, un luogo fuori dal tempo. Sole a picco, quasi nessuna traccia di vegetazione su questa lunga distesa di spiagge rossastre, poco profonde, non battute dall'uomo, selvagge e soltanto dimora per gli uccelli. La pista è un terrapieno sopraelevato di qualche metro rispetto alla poco poco frequentata strada che gli corre accanto a sinistra, e protetto da una staccionata di legno dalla spiaggia che si trova molto molto più giù.

Ma quella spiaggia sottostante non è l'unico panorama da ammirare: pedalando e fissando l'orizzonte leggermente a destra, si apre davanti ai miei occhi l'intero golfo di Trieste e, prima, la punta dell'Isola della Cona, e prima ancora la Punta Sdobba, che segna l'inizio dei tanti rivoli del delta dell'Isonzo.

Alle mie spalle le ormai lontane spiagge dorate di Grado e ancora più in là di Lignano Sabbiadoro.

A me pare di aver scoperto un tesoro, ma insieme sono intimorita dal fatto di essere sola: sola con gli uccelli, l'erba, le rocce, il mare, la sabbia. Nient'altro. E' inebriante e insieme angosciante. Mi conforto per un attimo quando dalla stradina sottostante sento arrivare un gruppo di motociclisti delusi dall'accorgersi che il panorama è a solo appannaggio dei ciclisti. E spariscono velocemente sulle loro moto.

Il mio percorso è rallentato dalle frequenti soste per fotografare e catturare ogni sensazione, soste che a un certo punto evito sempre di più quando mi rendo conto di aver sforato qualsiasi ragionevole tabella di marcia. 

Ma sapete che c'è? Lì, proprio lì, su quella pista sotto il sole cocente che non mancherà di disegnarmi addosso i pantaloncini, realizzo per la prima volta un aspetto della fotografia che non mi era ancora stato così chiaro: estrarre la macchina fotografica mi dà coraggio quando la paura è troppa, quasi come potesse proteggermi!. Con lei non mi sento davvero sola.

Sola nel sole, bruciata e affaticata raggiungo finalmente Punta Sdobba: ormai sono immersa nella natura pura, quella che non c'entra niente con i lavori dell'uomo; è opera del mare e del fiume che si incontrano con la terra.

                Punta Sdobba (e in lontananza l'isola della Cona)

                (Punta Sdobba e in lontananza l'isola della Cona)

Ma proseguo presto per recuperare il tempo 'perso' con questo tratto panoramico e raggiungere il raccordo con l'itinerario che avrei dovuto fare, credendo che la parte in isolamento è terminata. Errore: la pista finisce e io mi ritrovo su una deliziosa stradina di campagna, stavolta in direzione nord, come ce ne sono tante, circondata da un altro terrapieno (immagino che le golene siano d'uso comune qui) a destra e campi, campi e ancora campi a sinistra. E neppure l'ombra di una presenza umana, se non, nell'arco di due ore, qualche sporadica automobile, un paio di motorini e un ciclista molto più veloce di me. E la pelle inizia a bruciare molto (sbagliato aver pensato che la crema solare serve esclusivamente in spiaggia!).

E siccome angoscia chiama angoscia, eccomi ad aver timore dell'ultimo tratto di 2 km su statale che mi separano dalla Cona. Dover apercorrere questo brutto tratto non protetto era il motivo fondamentale per cui pensavo di evitare di arrivare alla Cona...

Fino all'ultimo penso che se non me la sento tornerò indietro e pace.

Ci penso così intensamente che ad un tratto mi fermo e mi redarguisco da me: smettila! sei qui ed ora: non pensare a dopo! stai qui con la mente!

Per quanto faticoso, finisce anche questo pezzo di strada: sono sbucata sulla statale che di nuovo corre verso est per superare con un ponte l'Isonzo.

Deglutisco, penso che se devo finire male, investita, tanto vale pedalare e non pensarci, e così spalancando gli occhi di paura (come i miei conigli!) ogni volta che una macchina o un tir mi sibila di fianco facendo vibrare l'aria, arrivo al ponte, dove scendo dalla bici (davvero troppo pericoloso) per portarla a mano e scattare qualche fotografia al fiume (coerenza zero...). Poi, grazie a Dio, incrocio la stradina sterrata da imboccare per riportarmi verso sud, stavolta accanto alla sponda est dell'Isonzo, e dopo aver pedalato ancora un bel po', individuo l'ingresso alla riserva (è tardissimo!!!). Eccoli, i cavalli camargue!, quell'immagine che è montata nella mia testa nei giorni precedenti fino a farmi desiderare di venire qui!

                      Cavalli camargue all'isola della Cona - Camargue horses in the Cona island

                             (Cavalli camargue all'isola della Cona)

Vedo un gruppo di ciclisti che stanno decidendo come visitare l'isola. Un po' invidio che siano in compagnia. Sono gli stessi che mi aveva indicato la divulgatrice della Cavenata invitandomi ad accordarmi a loro (non mi sono neppure proposta: non volevo fare percorsi alternativi e sapevo di non essere molto veloce). Mi faccio fare un panino al bar e, recuperato l'entusiasmo, parto per l'escursione a piedi, dove con mi o disappunto mi trovo davanti ad un'altra scelta: il più breve e semplice percorso ad anello con vari punti di osservazione ma senza poter raggiungere gli animali che stanno al centro dell'anello, oppure il percorso lineare che arriva molto più lontano, in punta, tra zone con animali allo stato brado, cavalli compresi.

(L'anello, ricorda, l'anello: non hai neppure tempo! L'anello!!!)

Ovviamente mi incammino per il secondo percorso, capendo ben presto che non è per cuori pavidi: mi cago addosso addentrandomi per la boscaglia paludosa, ancora una volta sola che più sola non si può (ma dove cavolo sono i turisti, gli appassionati di natura, cristo?!?), trasalendo ogni volta che qualche bestiola mi si muove vicino. Ho paura di perdermi perchè i percorsi si diramano man mano e non sono segnalati. Sono così terrorizzata che il trillo di whatsapp mi fa tirare un sospiro di sollievo: bene, il telefono prende!

La mia avventura verso la punta, alla ricerca dei cavalli liberi che in genere mi dicono scorazzare proprio là, si interrompe a circa 2/3 del percorso. Ho cercato di andare avanti più che potevo, ma sono le tre e mezza, mi manca tutto il percorso ad anello, e sono sfinita e terrorizzata. Sono arrivata al punto in cui la terra inizia a diventare un sottile lembo di terra in mezzo alla foce: la costa è più vicina e da dove sono io vedo bene il profilo industriale di Monfalcone.

                     Monfalcone dall'isola della Cona - Monfalcone from the Cona island

                                 (Monfalcone dall'isola della Cona)

Il percorso ad anello, anch'esso fatto senza incontrare pressochè nessuno, è più qualcosa di simile all'idea di riserva che avevo: ci sono numerosi appostamenti di legno per poter osservare gli uccellli senza essere visti. Ma io devo correre per il ritardo accumulato. Arrivo stremata all'ingresso dove scambio due chiacchiere ancora con la barista e reintegrare tutti i liquidi del mondo! Non le nascondo la mia delusione per non aver visto i cavalli da vicino. Chissà, forse se fossi arrivata alla punta, se avessi avuto il tempo di sedermi da qualche parte ad aspettare senza fare rumore... Lei mi consola invitandomi ad andare al punto panoramico del piano soprastante  (non l'avevo notato) da cui tramite un cannocchiale c'è una bella vista ravvicinata di cavalli e degli uccelli che gli passeggiano, placidi, tra le zampe.

E qui, durante questa gita, capisco un'altra cosa: ho bisogno di un obiettivo più potente, telescopico, e dei filtri per ingannare il sole.

Lasciata la riserva, stavolta niente strada panoramica: imbocco la via più 'breve' che mi permette di tornare a Grado in due ore e mezza invece delle quasi cinque dell'andata.

Mi sforzo per arrivare in centro mezz'ora prima dell'orario di riconsegna della bici: ustionata e accaldata, desidero salutare il mare di Grado, per cui mi butto a mare per una nuotata veloce, raccolgo i miei vestiti e torno a casa per buttarmi più morta che viva a letto.

Bilancio: una cinquantina di km in bici, 7-8 km a piedi e nuotata finale.

Il mio personale triathlon.

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