GIORNI STRANI

Vita di comunità: mai come ora dobbiamo fare appello a ogni nostra singola cellula. E' giunto il momento di imprimere una violenta accelerazione all'intelligenza della nostra specie, come una frustata di tramontana: l'occhio non sarà occhio e la mano non sarà più mano, negli anni venturi.

Creato da sergioemmeuno il 22/04/2011
 

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Personaggi e fatti

Il nome e cognome dei personaggi appartenenti ai racconti e ai tag "frammenti di scrittori in erba" e "il mio romanzo", come pure i fatti narrati, sono frutto della mia fantasia.

 

Messaggi del 24/06/2012

Una voglia pazzesca di Laura... e nient'altro che di Laura (2).

Post n°658 pubblicato il 24 Giugno 2012 da sergioemmeuno
 

 

Sull’onda dell’entusiasmo continuai: <<Cosa cavolo ti manca? L’aspetto fisico? Prospettive di lavoro? Un ragazzo d’amare, tu?>>. Ripresi una boccata di ossigeno. <<Avrai tutto nella vita, perché sei veramente in gamba. E anche se ne sei ignara, resti una winner, una predestinata.>>

<<Oddio Danilo!>> si portò la lunga mano al generoso petto. <<Ma… ma… mi vuoi forse fare compassione? Ti avverto: non è questa la strada giusta per conquistare il mio muscolo cardiaco.>>

    <<Secondo me hai sempre avuto ottimi voti a scuola.>> Era evidente che un’intuizione del genere l’avrebbe avuta pure uno stolto, tanta era la cultura manifestata finora dalla ragazza, in ogni circostanza.

<<È vero. E con ciò?>>

<<Vedi? È scontato che diverrai un ottimo medico. Da cosa nasce questa tua vocazione?>>

<<Mah, in realtà da bambina dicevo sempre che avrei fatto l’infermiera. Vedi, è stato un percorso spontaneo, non calcolato. Giorno dopo giorno svolgi le tue faccende quotidiane sino a quando ti svegli, un mattino, con una consapevolezza: ti rendi conto che non potresti fare nient’altro, che il tuo sogno è aiutare gli altri e studiare le patologie del corpo umano.>>

<<Una consapevolezza graduale, giusto?>> Lei annuì. <<Però i sogni da soli non bastano. Sono necessarie anche le capacità, altrimenti, dopo il risveglio, ci si ritrova dietro un bancone della macelleria o una scrivania dell’ufficio sommersi da montagne di carta.>>

<<Ovvio. Ma le nostre capacità vanno potenziate e raffinate con sacrificio e dedizione. Non ti immagini quante ore ho studiato in tutti questi anni.>>

<<Brava fessa, e magari hai trascurato qualche moscone che ti ronzava attorno>>,   la pizzicai.

<<Signorino Dani, lei è terribile>>, scoppiò in un’ariosa risata. <<Non ti preoccupare, mi sono dedicata anche ad altro>>, mi ammutolì, allargando ancor più quegli occhioni color caffè. A quel punto mi passò la palla: <<Ora parlami un po’ di te. Qual è la tua aspirazione?>>.

<<Frequenterò la facoltà di lettere moderne.>> Adesso il suo viso era inclinato e poggiava con grazia una mano sulla tonda guancia. <<Il mio desiderio è insegnare, avere a che fare con abbozzi di uomini e di donne>>, spiegai.

     <<Gran bella cosa. E di questi tempi non è certo facile. Le cattedre sono sempre di meno e i giovincelli sono scalmanati. Se pensi che a otto anni tengono acceso il cellulare in aula… sai che sinfonia se suonano tutti insieme.>>

     <<Tra l’altro hanno voluto alzare una muraglia. Da una parte ci sono gli istituti che contano. Dall’altra, per gli sfigati, la scuola di serie B, per la precisione quella statale.>>

    <<È una questione a dir poco scandalosa. Forse solo con le rivoluzioni si cambiano le cose>>, affermò mostrando disgusto verso lo Stato.

    <<Ma se non siamo capaci neppure di prendere una decisione in comune! Guarda la nostra cara Officina. A ogni modo, credo che oggi bisogna ricreare degli spazi sociali, dei punti di riferimento per i ragazzi. Botteghe per apprendisti, scuole di avviamento professionale, circoli politici e artistici. Anche dei collegi per i bambini orfani.>>

    <<Concordo. Negli spazi comuni uno si fa le ossa, finché un bel giorno è pronto per tuffarsi nell’oceano della vita.>> Comunque entrambi convenimmo sul fatto che la nostra metropoli, Sìagora, era socialmente avanti anni luce rispetto alla decadente penisola italica. E i giovani erano autonomi e attivi su ogni fronte.  

     Fissammo i nostri occhi per qualche istante verso ponente, contemplando l’ultimo bagliore emesso dal sole. In lontananza, oltre dolci pendii, tappezzati di quando in quando dai tetti delle case, dalle chiome degli onnipresenti ulivi e dagli ingombranti tralicci dell’elettricità, si intravedeva la maestosa distesa sfavillante del Medio Tirreno. Luce morente e sangue si mescolavano nel mezzo del mare.

    Un sole che declina, un punto d’osservazione alto, una distesa immensa sullo sfondo: io e lei. I raggi obliqui della sera le scaldavano il viso trasfigurandolo. 

    Sotto la nostra portata ottica cadeva pure un acquedotto dell’epoca imperiale romana; le sue arcate di pietra, murate a secco, garantivano una costante e lieve pendenza della conduttura.

   

   L’aria si ingentiliva sempre più e l’autunno avanzava con piccoli e malsicuri passi. Mi apprestai a preparare con cura la brace, mentre Laura tirò fuori le salsicce e le braciole dagli zaini. Era uno diletto vederla muoversi e sbrigare le faccende più semplici; quel suo portamento, elegante ma non sciorinato, non veniva mai meno.

    <<Guarda che roba>>, parlai a bocca piena, <<nello stesso luogo una stazione di un secolo fa e un acquedotto di duemila anni or sono.>>

    <<Vero, questi luoghi conservano una certa potenza evocativa.>>

    <<D’altronde, il nostro caro Gabriel non trascura alcun dettaglio.>> Esplodemmo in una grassa risata: io non riuscii a contenere il vino dalla bocca, mentre Laura rischiò seriamente di strozzarsi a causa di un boccone rimasto conficcato in gola. Dopo mi raccontò che, assieme alle altre ragazze, aveva provato invano a strappare qualche notizia della vita dalla bocca serrata del maestro. Avevano saputo solo che era stato capocantiere per molti anni, e che venerava il lavoro dell’uomo nei campi. 

    <<Furbacchiona, non mi hai ancora risposto alla domanda di prima.>>

    <<Chiedi e ti sarà risposto.>>

    <<Qual è la tua angoscia… Cos’è che ti tormenta>>, osai scendere nei suoi abissi.

   Una lunghissima pausa. <<Ho avuto un padre meraviglioso. Anzi no, direi semplicemente perfetto. Un guaio.>>

Ho avuto un padre meraviglioso. Anzi no, direi semplicemente perfetto. Un guaio non da poco.

     A questa confessione qualsiasi parola sarebbe stata superflua. Presumibilmente, si sarebbe potuta innamorare solo di un ragazzo perfetto. 

    <<Qual è il ricordo più bello che hai di lui.>>

   <<Quando d’estate mi portava sul lungomare col suo scooter>>, replicò. E il suo occhio luccicò come mai si era visto.

 

Era una morbida sera che strizzava l’occhio a ottobre, sebbene ancora lontano. Gli olivi si apprestavano a elargirci i magnifici frutti. Un suono smorzato. Una fragranza debole. Un tocco di velluto.

 

Una di quelle sere che transitano ogni cent’anni. Un corpo celeste.

Nella tenda toccai la mano a Laura Ducròs. Era soda e calda. All’istante mi sentii uno stupido e mi pentii del gesto.

E la ritirai.

 

Anni dopo avrei capito che non era stato affatto stupido: ero solo stato piccolo. Un uomo piccolo.

 

 

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Dal mio romanzo Generazione oltre la linea.

 

 
 
 

Una pazzesca voglia di Laura... nient'altro che Laura (1).

Post n°656 pubblicato il 24 Giugno 2012 da sergioemmeuno
 

 

Le quattro coppie dell’Officina si salutarono e ognuna intraprese la propria strada, munita di zaini, con all’interno mappe, sacco a pelo, torcia, vivande, gavetta e quant’altro.

 Io e Laura

Dopo il viale degli eucalipti, passammo su un ponte sopra la ferrovia e ci dirigemmo verso nord-est, arrivando presto sulla strada statale. Mi balzò in testa l’idea di fare l’autostop e coinvolsi nella furbata la stessa Laura. Chissà cosa avrebbe pensato il povero Gabriel se mi avesse visto. Un’anima pia con un furgoncino si fermò e ci caricò, lasciandoci poi all’incrocio con un’altra statale che si inerpicava su un declivio assolato, tra campi di grano nudi e filari di vite.

Quindi decidemmo di raggiungere, consultando la mappa, una stazione ferroviaria abbandonata, sicché ci allontanammo dalla pista asfaltata, lasciandoci languidamente inghiottire dall’entroterra. Proseguimmo indomiti, circondati solo dalla pace agreste, rotta a volte dai belati delle pecore e dai latrati dei guardinghi pastori maremmani; e salimmo e salimmo ancora per molto.

La meta era sempre più lontana, ambedue zitti e impegnati nello sforzo. Lungo il cammino, non facemmo a meno di cogliere qualche fico di fine stagione. Se non fossimo stati in un contesto del genere, di sicuro sarebbero stati insipidi. Talvolta le nostre narici venivano assalite da repentine folate, l’olezzo piccante del mosto che fuoriusciva da qualche cantina nei dintorni.

Finalmente, fra punteggiature di ruderi etruschi e romani, e lo sguardo arcigno di case coloniche, approdammo alla meta prefissata: una stazione, un secolo fa appartenente alla “via dell’allume”. Il casello era ancora in discrete condizioni: era una palazzina a due piani, rivestita in superficie da un intonaco grigio, dietro cui si scorgeva qua e là qualche pietra; le finestre erano in legno e verniciate color verde, un po’ scrostate ma orgogliose; sotto il tetto, le travi di castagno, messe a regola d’arte, sembravano tuttora integre; più in basso c’erano le lanterne a petrolio, sorrette da neoclassici supporti in ferro.

I binari erano stati smantellati, ma, in compenso, dalla parte posteriore e ai piedi del casello, una carrucola arrugginita e un meccanismo a manovella erano ancora lì – in qualità di superbi testimoni –, per rammentare i tempi andati in cui si manovrava a mano la barra del passaggio a livello. All’epoca transitavano innumerevoli carri merci e molti passeggeri. La parte a tergo della struttura si era inselvatichita, a causa degli arbusti d’ogni tipo e degl’intrichi di edera, che si era avvinghiata al fusto di una vecchia acacia.

Con estremo stupore, alzando lo sguardo vedemmo incise, su piastrelle quadrate di maiolica, alcune lettere del presunto nome della stazione, di color rosso e su sfondo giallo. Purtroppo erano ormai deteriorate e illeggibili. Sotto il cornicione un barbagianni imboccava i futuri aviatori.

   Sul lato posteriore, ai piedi dell’acacia, decidemmo di collocare la tenda. Le  fronti grondavano di sudore e le nostre schiene flaccide imploravano clemenza, così duramente provate dalle chine dell’ultimo tratto affrontato.

<<Alla barba dei coast to coast, questi luoghi non mi dispiacciono affatto>>, ruppi il silenzio. Avevo ancora il fiatone. <<I film americani ci hanno rincoglionito e ammorbato, con quei falsi miti infiocchettati e pronti all’uso.>>

   <<Certo. E poi, sarò banale, l’importante è con chi stai>>, replicò illuminandomi

il tardo pomeriggio, mentre assaporava un fico.

   <<Perciò, vorresti dire che… insomma…>> tentennai.

   <<Sì, sì, hai capito benissimo. Sei un ragazzo di buona compagnia, per quanto tuttora non abbia compreso la tua scelta.>>

<<Quale scelta?>>

<<Per il Deserto. C’erano tante altre donne che potevi considerare. In primis, quella Patrizia, credimi, non è niente male davvero>>, mi suggerì.

<<Lauretta mia, ora ti metti pure a combinare per conto terzi?>> sbottai risentito.

<<Ciò che voglio comunicarti è che, forse, non sono come tu mi vedi.>>

<<Vuoi dirmi, con parole dolci, che non sono in grado di capire il vostro mondo?>> Ripresi: <<Per me sei una ragazza di enorme spessore, con un equilibrio fuori dal comune>>.

<<Ti ringrazio. Ma tu cosa sai esattamente della mia vita? Sono solo alcuni giorni che ci conosciamo. Non basta una vita per penetrare una natura femminile>>, disse con tono secco e perentorio.

<<Ora giochi a fare la complicata.>>

<<Il punto è proprio questo: io sono complicata. Sono una natura complessa. Dall’esterno gli altri mi osservano e pensano: “Laura è una ragazza matura per la sua acerba età, serena e gioviale. Un giorno avrà una stupenda famiglia e sarà un buon medico.” Ma non sanno che pure io ho le mie angosce>>, si confessò a ruota libera.

   <<Be’, sei pur sempre una donna e come tale… Comunque passano le generazioni, cambiano le mode, ma c’è sempre una costante: questa dannata inquietudine. Forse abbiamo perso l’abitudine di zappare la terra o partire da un giorno all’altro per il fronte. Se poi una tosta come te si sente angosciata, io alzo bandiera bianca e declamo ufficialmente il fallimento della nostra generazione!>>, mi infiammai nel discorso.

  

Lei aveva teso l'orecchio con quella proverbiale capacità. Non a caso era Laura: adorabile pure quando si discorreva di inquietudini o di argomenti impegnati o noiosi. 

   

   <<I giovani saranno sempre inquieti, è un percorso naturale, frutto della ricerca. La gioventù è come un laboratorio. Certo, in eredità ci hanno lasciato molti buchi… negli affetti e nei principi>>, sintetizzò con perizia e semplicità. <<Ma la differenza rispetto alla generazione passata è che noi ci mettiamo l’anima. Sappiamo reagire, Dani.>>

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>>>>CONTINUA (dal mio romanzo Generazione oltre la linea).

p.s. il Deserto, nella scuola di Gabriel, è uno strumento di Comunità attraverso cui si sta insieme a un altro allievo per conoscersi meglio.

 
 
 
 
 

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