Creato da carpediem56maestral0 il 23/09/2006

come le nuvole

le guardi e credi di poter parlare di loro, di aver catturato la loro essenza ed ecco che sono altro e ancora altro e non le puoi incasellare, descrivere e neppure toccare...

 

 

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Post N° 343

Post n°343 pubblicato il 18 Maggio 2008 da carpediem56maestral0
 

    “Gnoti sautòn”

Questo racconto partecipa al gioco letterario di Writer  

 

Cap. I

 

Non sono mai stato granchè interessato all'argomento amore. Non ho mai capito fino in fondo frasi come “ho perso la testa” o “farei follie per lei”.

Di solito, di fronte a queste dichiarazioni estreme, annuisco convinto, fingendo una consapevolezza che non possiedo.

Come mai?  Beh, ora vi svelo un segreto. Adesso vi dico qualcosa di me. Qualcosa che nessuno altro al mondo sà.

Io non provo niente.  Io sono vuoto dentro.   Io vivo di finzione.

Quando scruto dentro di me, nel tentativo di richiamare echi sepolti correlati a parole come sentimento, passione, trasporto, scopro ( ma non è il verbo esatto perchè non scopro nulla, io lo so dall'inizio del mio mondo) solo il silenzio della anima, dove il mio vuoto risuona assordante.

Dentro me, a palpitare vi è solo fredda razionalità,  lucida analisi, levigata osservazione dei comportamenti altrui, per meglio replicarli.

Non sento niente, non provo nulla, non ho termini di paragone, non ho sussulti, né vibrazioni.

Il mio mondo interiore è interamente in bianco e nero. In esso, un vento freddo, soffia perenne, alitando su bianche distese immote.

In me alberga solo lo sgomento di chi, senza riferimenti, si sente alieno tra altri esseri che, invece, traggono energia vitale dell’impeto delle loro emozioni.

Come in una rappresentazione del teatro delle ombre, simulacri di quello che dovrei provare, recitano per me la parte giusta di figlio, di amante, di amico, di vicino di casa.

Da quanto posso ricordare è sempre stato così.  Legami con nessuno, affetto per nulla.

L'immagine di mia madre, prepotente e autoritaria, forse non perfetta, ma non l'ultima delle madri, non evoca nel mio cuore, tenerezze né, se è per questo, rancori.  

Mio padre, uomo assente e debole, ma non per questo il peggiore dei padri, lo posso osservare con la curiosità distaccata di un entomologo per una  farfalla infilzata.

Non trovo nulla  per i pochi amici e i parenti che hanno costellato la mia esistenza, nulla che possa assomigliare a un sentimento,.

Nessun trasporto per le ragazzine che ho corteggiato, e qualcuna anche avuto, raccolte lungo la strada della mia vita.

Brevi relazioni intessute per il desiderio di omologazione e interrotte, dopo poco, per la paura che qualcuna di loro potesse scorgere, dietro il mio sguardo sorridente da bravo ragazzo, il vuoto ghiacciato che vi abita.

Mi piacerebbe provare qualcosa. Mi piacerebbe vivere immerso nelle passioni, perdere la testa, persino soffrire per qualcuno. Ma così non è mai stato, ne mai lo sarà. E forse è un bene. E comunque debbo farmene una ragione, perché io sono fatto così.

Comprenderete la mia sorpresa, quindi, quando sperimentai, in una calda mattinata di luglio, l'esperienza di quello che chiamate colpo di fulmine.

 

Cap. II

 

Lei era seduta sui gradini di un vecchio palazzo avvolta, pur in quella calura, in strati di indistinguibili coperte e cappotti. Teneva la testa china ma, all'improvviso, mentre passavo distratto accanto a lei, sollevo lo sguardo e mi fissò dritto negli occhi.  Ebbi un sussulto, magnitudo 7° credo, ma continuai a camminare, totalmente in preda al panico. Fatti pochi metri dovetti fermarmi per fare un resoconto dei battiti del mio cuore ed esaminare la situazione. Poi tornai indietro e le parlai. Dolcemente, come sono abituato a fare, delicatamente come vuole la sceneggiatura che qualcuno ha scritto per me.

Lei mi guardava in silenzio e questo aumentò, se mai fosse possibile, l'attrazione forte e determinata che provavo per lei. La convinsi a seguirmi e me la portai a casa.

Giunti al riparo delle pareti domestiche, con docilità si lasciò spogliare dei mille strati che la ricoprivano e senza un gesto si fece lavar via, immersa nella vasca che avevo riempito per lei, la sporcizia di secoli e di tante strade percorse.

Insaponai la sua schiena curva e i suoi piedi luridi. Strofinai i suoi capelli, lunghi ed unti. Carezzai le sue mani sciupate e pulii, una per una, le sue unghie.

Poi la misi a letto, avvolta in uno dei miei pigiami puliti.

La lasciai dormire ed uscii per fare la spesa e prepararle, al risveglio, una perfetta colazione.

Lungo la strada mi sorpresi a canticchiare una vecchia canzone francese. Una canzone d'amore.

Da quel momento le mie giornate, di punto in bianco, cominciarono ad acquisire sapori nuovi, farcendosi di sensazioni mai sperimentate, che andavo assaporando sulla punta della lingua assicurandomi, prima di deglutirle, che non fossero, per me, veleno.

La lavavo, la vestivo, cucinavo per lei, le parlavo lentamente, di me e dei miei pensieri. Lei mi guardava sempre silenziosa e faceva sua, fino in fondo, ogni mia più piccola fibra.

Mai nella vita avevo sperimentato quella rilassante sensazione di essere al sicuro, accettato nella mia diversità.

Quando uscivo, per andare al lavoro o a sbrigare le mille faccende del mio quotidiano, la portavo dentro il mio cuore, continuando l'osmosi con i suoi occhi.

La notte il suo respiro leggero, vicino a me, non mi permetteva di dormire. Troppa l'eccitazione di poter scendere giù, nei meandri della mia anima, a scandagliare ripostigli e pieghe che non credevo esistessero.

Analizzavo e catalogavo ogni sensazione nuova e, per la prima volta in tutta la mia vita, mi sentii uguale a tutti gli altri. Uno di voi.

 

Cap. III

 

Poi, come in tutte le favole, giunse improvvisa, come lama di ghigliottina, la parola fine.

Poi, un brutto giorno, lei mi parlò.  E fù per dirmi parole senza senso, vapore acqueo che non riusciva a condensarsi.

Ricordo una serie di espressioni di generica, puerile, gratitudine, insulsi apprezzamenti per la mia- si credo abbia detto proprio così - “nobiltà d'animo”, accenni ridicoli di rammarico per l'imminente abbandono, e parole, parole…

Parlava rapida, come a voler recuperare tutto il silenzio del mondo, senza guardarmi, mentre riempiva uno squallido sacchetto della spesa con le sue insulse cose.

Io, poggiato allo stipite della cucina, avvertivo solo le vibrazioni dell'aria intorno a me, onde circolari che si espandevano dalle sue labbra e sentivo il vento, che tornava impetuoso a soffiare sulle distese delle mie nevi eterne.

Le avevo dato il tempo per riprendere fiato, disse, le avevo concesso di fare mente locale e decidere di ricominciare a tessere la sua vita, disse, le avevo regalato un'altra possibilità, disse.

Che dolce. 

Mi sorpresi a sorridere mentre, senza preavviso,  mi sentii riaddensato, finalmente coerente.

Raddrizzai le spalle e mentre inspiravo forte come chi emerge dalle profondità degli abissi, ammirai l’immagine mentale di una scritta antica, reminescenza lontana di svogliati studi adolescenziali: “gnoti sautòn” , conosci te stesso.

Cara, anche io ti debbo gratitudine, pensai. Anche io non ti dimenticherò mai, dissi piano, a me stesso.   

Non avrei mai creduto di riuscire a sperimentare sensazioni tanto forti, sentimenti così intensi, emozioni talmente vitali, colorati così vividi, come quelli che provai mentre stringevo il suo collo e vedevo la vita abbandonare i suoi meravigliosi occhi verdi.

Avevo trovato la mia strada, la mia più autentica vocazione. Sapevo, finalmente, chi ero e quale era il mio posto nel mondo.

 

                                 

 
 
 
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