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Post n°735 pubblicato il 24 Luglio 2008 da giromapa
Da Repubblica.it Giuliano Tavaroli Si sente dire spesso che in quei luoghi, in quelle istituzioni, in quei paesi dove non soffia alcun venticello di critica pubblica, cresce come un fungo una corruzione senza colpa. Non c'è dubbio che l'informazione sia e debba essere, per mestiere e dovere, un alimento di critica pubblica. C'è il giornalismo che pretende di ricostruire la verità. C'è un altro giornalismo che sa di non poter afferrare con una presa sicura l'intera storia che racconta. E' un giornalismo consapevole di un limite e accetta di lavorare a una continua approssimazione della verità, cosciente che non saprà mai davvero che cos'è la verità, ma saprà che cos'è la menzogna. La indicherà ai suoi lettori. Vi si opporrà, per quel che poco o molto che è in grado di fare. E potrà ripetere ai pochi o ai molti che gli concedono ogni giorno fiducia: "Non vi abbiamo mentito". Avremmo mentito ai nostri lettori se avessimo accettato le conclusioni minimaliste dell'affaire Telecom. In questi giorni si è andata disegnando, da più parti e anche con voci autorevoli, una scena capovolta, fuori da ogni cardine. Scomparivano i protagonisti e i comprimari, le loro condotte e responsabilità, la lunga scia di illegalità, abusi e ricatti. Come d'incanto, soltanto distrattamente si ricordava al lettore (e c'è chi non ha fatto nemmeno questo) che, nella maggiore società di telecomunicazioni del Paese, la Telecom Italia di Marco Tronchetti Provera, sono stati raccolti migliaia di dossier illegali in collaborazione con l'intelligence italiana, in violazione di ogni privacy con finalità ancora tutta da chiarire. In occasione della conclusione delle indagini, l'imputazione di una responsabilità oggettiva di Pirelli e Telecom in capo al suo presidente (Tronchetti) e amministratore delegato (Buora) è apparsa diventare, a leggere alcuni commenti e bizzarre dichiarazioni, un'assoluzione piena: un esito da esibire come un fiore all'occhiello. Per farlo, bisognava lavorare a una cosmesi dei fatti. Un annuncio di fine indagine è stato presentato come un proscioglimento definitivo come se si trattasse di una sentenza assolutoria e conclusiva, prima di leggere la richiesta di rinvio a giudizio che ancora non c'è e la decisione del giudice dell'udienza preliminare che un giorno verrà. Si è scritto che Tronchetti è stato "scagionato". Il primo a crederci è stato il presidente di Pirelli. Si è detto "contento e molto soddisfatto perché è emersa con chiarezza la verità". La verità provvisoria è che due società Pirelli e Telecom (con Tronchetti legale rappresentante) non hanno impedito ai propri dipendenti di commettere reati nell'interesse delle società. Tronchetti non avverte la responsabilità di quella omissione. Non crede di dover chiedere almeno scusa, con umiltà, agli spiati o almeno agli azionisti Telecom: già provati dalla sua gestione, dovranno presto mettere mano al portafoglio per pagare centinaia di miliardi di risarcimento alle vittime dello spionaggio fiorito per la trascuratezza di un presidente e di un amministratore delegato. Non è nemmeno il peggio. Il peggio è l'acquerello a tinte tenui che vuole rappresentare l'affaire. Tre amici d'infanzia (Tavaroli, Mancini, Cipriani) fanno carriera partendo dal fondo della scala. Conquistano la potente e ricca security della Telecom (Tavaroli), il controspionaggio militare (Mancini), un'importante agenzia d'investigazione (Cipriani). Incrociano le informazioni in loro possesso. Formano dossier spionistici in libertà con le risorse della Telecom e dello Stato. Lucrano profitti e potere personali. Fine dell'affaire. Avremmo mentito se avessimo accettato senza un dubbio, senza un interrogativo questo tableau piccino, semplificatorio. E non per un pregiudizio sfavorevole alla Telecom o a Tronchetti Provera. Ma per quel che già si è potuto leggere nelle cinque ordinanze dei giudici milanesi. La security di Tavaroli disponeva di risorse finanziarie senza limiti, alimentate in parte dal "fondo personale" del presidente. Nessun controllo aziendale di audit. Dipendenza diretta dal presidente. Quattro diversi "sistemi" capaci di rubare informazioni riservate senza lasciare traccia. Una piattaforma di hackeraggio ("zone H") nei paesi dell'Est, utilizzata per intrusioni informatiche, finanziata dalla Telecom e posta in bilancio come "investimento per immobilizzazione materiale" (poteva dare benefici a lungo termine). Una rete di pubblici ufficiali sparsi su tutto il territorio nazionale, ""sensori" per ogni indagine o accertamento che potesse interessare la Telecom-Pirelli". Collegamenti con l'intelligence francese, inglese, americana, israeliana e naturalmente italiana. Una pericolosissima "macchina da guerra". In due occasioni, il giudice per le indagini preliminari Giuseppe Gennari ne indica esplicitamente il beneficiario. Ordinanza 18 gennaio 2006, pag. 188: "... che Tavaroli gestisse pratiche di questo genere nel suo singolare interesse è altamente improbabile. Ci troviamo di fronte a una gravissima intromissione nella vita privata delle persone e a un tentativo di captazione occulta di dati e notizie riservate, mossa da logiche puramente partigiane, nella contrapposizione tra blocchi di potere economico e finanziario. Logiche che tendono a beneficiare non già l'azienda come tale, ma colui che, in un dato momento storico, ne è il proprietario di controllo". Ordinanza 20 marzo 2007, pag. 168: "Osserviamo anche il riemergere di una tipologia di investigazioni che, in modo difficilmente revocabile in dubbio, rispondevano a esigenze dei vertici e della proprietà aziendale". La convinzione del giudice quasi imponeva a un autonomo lavoro giornalistico di cercare Giuliano Tavaroli. Di chiedergli un colloquio. Di raccogliere la sua versione dei fatti. Era il diavolo. Era descritto come l'artefice e il conduttore di quella "macchina da guerra". Si diceva che avesse lavorato nel suo esclusivo interesse gabbando il suo padrone. Che cosa aveva da dire? Qual era la sua verità? E questa verità non era, pur nella sua parzialità, di interesse pubblico in un affaire dove tutti avevano avuto possibilità di accusare o difendersi e che aveva provocato anche un decreto di legge del governo approvato dalle Camere (la distruzione dei dossier raccolti illegalmente)? Sono queste le ragioni che hanno convinto Repubblica a pubblicare l'ampio resoconto dei colloqui con Giuliano Tavaroli. Abbiamo ritenuto che l'inedita ed esclusiva ricostruzione del principale indagato (anche con le possibili manipolazioni di cui abbiamo avvertito il lettore) potesse dare al quadro un tassello in più e una profondità, una concretezza, un profilo che le anticipazioni giudiziarie annunciavano piatto, senza asperità, quasi neutro con la storia assai poco credibile dei "tre amici intraprendenti". Comprendiamo l'irritazione di chi, proclamandosi estraneo a quei fatti, ne è stato coinvolto. Ma oggi abbiamo sotto gli occhi, con i nomi, i cognomi, qualche circostanza e dettaglio, quella "contrapposizione tra blocchi di potere" già intuita dal giudice nel gennaio del 2006. Vi affiorano figure che decidono della cosa pubblica senza alcuna responsabilità istituzionale; una filiera di immarcescibili massoni che lo scandalo della P2 non ha eliminato dalla scena; comportamenti obliqui di governanti; ricatti; corruzione piccola e grande; debolezze della magistratura, dell'informazione, delle amministrazioni dello Stato e, al centro, una sorda lotta per il potere che non si fa mai trasparente. Non ci appare la verità. Ci appare uno scenario più vicino alla realtà dello scandalo Telecom. (23 luglio 2008) |
Post n°734 pubblicato il 24 Luglio 2008 da giromapa
Da Repubblica.it Giuliano Tavaroli GIULIANO Tavaroli dice: "Quando Pirelli acquisisce Telecom Italia, agosto 2001, Marco Tronchetti Provera mi annuncia: "Lei verrà con me a Roma". Poi mi chiama Carlo Buora. Lo incontro a Milano in trasferimento dalla montagna al mare - ero in vacanza con i miei - e quello mi dice che non se ne fa più nulla. Mi spiega: "Contrordine, lei resterà in Pirelli, Enrico Bondi (all'epoca, amministratore delegato) vuole con sé in Telecom un altro. Naturalmente ne parlo con Tronchetti Provera che mi rassicura: "Lei si occuperà delle mie cose romane". Le sue "cose romane" erano i suoi guai romani. E c'erano guai dappertutto, in quel momento". "Gasparri (il ministro delle Telecomunicazioni) non gli piaceva e Tronchetti non piaceva a Gasparri. In estate, al festival dell'Unità di Rimini, Massimo D'Alema lo attacca a testa bassa... Ho già detto che una concezione moderna della sicurezza (che è reputazione, soprattutto) deve fronteggiare anche - o soprattutto - quella roba lì, gli attacchi politici, le ostilità di parte, i pregiudizi, i veleni. Deve saper leggere e anticipare le iniziative avverse, condizionare le mosse dei rivali o ridurli al silenzio. E' un lavoro che si nutre di conoscenza. Conoscenza dell'avversario, delle sue ragioni più autentiche e nascoste, ma è anche "sapere" e dunque capacità di adattarsi a quella "emergenza" o sventandola o ridimensionandola. In gergo, le chiamiamo "analisi del rischio" e "analisi di scenario". In quell'avvio di gestione della Telecom, ne avevamo bisogno come dell'aria. Il momento intorno a noi era sconfortante. Non c'era stato soltanto l'11 settembre, c'erano ancora le macerie dello sgonfiamento della bolla speculativa, la catastrofe dei bond argentini". (Tavaroli qui svela - e nemmeno troppo velatamente - il lavoro di spionaggio a cui, sostiene, "nessuna azienda rinuncia". Lo riduce a raccolta di informazioni, a "mappatura" - diciamo così - dei caratteri, delle opinioni, delle forze e delle debolezze dei potenti, vecchi e nuovi, che, di volta in volta, Tronchetti deve fronteggiare, rassicurare, tenere alla larga. La "conoscenza", come la definisce, è soltanto il punto di partenza del suo lavoro. Per questi giocatori, per questo gioco, è la mossa d'apertura, il livello minimo richiesto per poter entrare in campo. La differenza vera la fa il "sapere", la combinazione di competenze multiple che rende possibili scambi, pratiche, compatibili assunzioni di rischi, la creazione di qualche minacciosa favola da diffondere. Tavaroli adopera un altro vocabolario, un'altra sintassi. Parla di "analisi delle forze in campo", di "amici/nemici" ma, in soldoni, non è che l'esito sia diverso. Sempre di spionaggio si parla. La scena pare questa. Marco Tronchetti Provera, arrivato in Telecom, è consapevole di essere uno "straniero" nella geografia del potere. Le leve del comando - i primi governi Berlusconi hanno un peso politico debole, frammentato, privi di una strategia di lungo periodo, stretti intorno a un uomo solo interessato esclusivamente al proprio destino personale e imprenditoriale - sono custodite e sostenute da uno schema "antico" che Tavaroli, come ambasciatore di Tronchetti, ha incontrato nel giro delle sette chiese romane. "Un network eversivo", lo definisce. Ne indica qualche nome: Letta, Bisignani, Cossiga, Scaroni, Elia Valori, Pollari, Speciale, Corigliano. E' un'area di potere che costringe un estraneo come Tronchetti in un disequilibrio informativo che lo condanna a subire, sopportare; a essere condizionato. Essere consapevoli di quell'asimmetricità è il punto di partenza. Sapere è allora il terreno della risposta. Come affrontare l'avversario? Come rendergli conveniente venire a patti o rinunciare a ogni ostilità? Come guadagnare un margine di inviolabilità? E' un confronto sotterraneo e senza esclusione di colpi. A sentire Tavaroli - che va ripetuto non è un testimone neutro, ma il principale indagato dell'affaire - è questo il mestiere che Marco Tronchetti Provera gli affida). "Di volta in volta bisogna adattare le proprie iniziative all'avversario. D'Alema, per esempio. Penso di contattare Lucia Annunziata, allora direttore dell'agenzia Apcom. Ha buoni rapporti con D'Alema. Scelgo lei come canale per entrare in contatto con il presidente dei Ds. Con Lucia si parla anche di futuro. Lei mi prospetta l'acquisizione dell'agenzia, me ne mostra i vantaggi e le opportunità. Non era una cattiva idea, in fondo. Non avevamo in pancia contenuti e ne avevamo bisogno. Peraltro, saremmo entrati in contatto con il mondo Associated Press, il meglio. L'affare poi si fece, come si sa. Comunque, l'incontro D'Alema/Tronchetti si organizzò e Lucia divenne consulente della Telecom. Racconto un altro episodio dello stesso tipo. Un giorno mi chiama Buora. Nel suo ufficio ci sono tutti quelli che contano e sembrano sull'orlo di una crisi di nervi. Buora mi dice che Giulio Tremonti (ministro dell'Economia), soffia ai banchieri, in ogni occasione, che Telecom è prossima al fallimento. La voce diffusa in ambienti qualificati da una fonte così autorevole è per noi una sciagura. Mi metto al lavoro. Tra Tremonti e Tronchetti non ci sono rapporti. Ho come la sensazione che Tremonti, da sempre consulente dei maggiori imprenditori italiani, diventato ministro, stia scaricando sui suoi antichi assistiti una ruggine velenosa. Decido di mettermi in contatto con il capo della sua segreteria, un ufficiale della Guardia di Finanza, Marco Milanese, che poi lascerà le Fiamme Gialle per lavorare direttamente nello studio di Tremonti. Contattare Milanese, proprio lui e non altri, è un modo per dire a Tremonti: conosco i tuoi metodi, conosco il tuo sistema, chi lo agisce e interpreta, da dove possono venirti le informazioni - vere o false - che possono danneggiare la mia azienda. Non c'è bisogno di molte parole. Quelle cose lì, si capiscono al volo nel nostro mondo. I due - Tronchetti e Tremonti - si incontrano. I problemi si risolvono. Nessuno parlerà più di fallimento con i banchieri. Altro episodio. Il Dottore (Tronchetti) mi chiede di dare uno sguardo a Finsiel, allora amministrata da suo cugino Nino Tronchetti Provera. Perché non si vince una gara, perché si perde sempre? Gli appronto una rete di relazioni e qualche "analisi". Ancora. La Kroll, la maggiore agenzia d'investigazione del mondo, riceve da Gianni Letta (sottosegretario alla presidenza del Consiglio) l'incarico di rintracciare il tesoro segreto di Calisto Tanzi (Parmalat). Nell'autunno del 2004, l'uomo in Italia della Kroll, un belga d'origine italiana che si chiama Nunzio Rizzi, incontra Gianni Letta e gli chiede "se il governo ha nulla in contrario che l'agenzia organizzi un'azione di discredito contro Marco Tronchetti Provera". Sorprendentemente, invece di metterlo alla porta, Letta (ha anche la delega ai servizi segreti) prende tempo: "Le farò sapere!". Letta avverte Tronchetti. Che, allarmatissimo, mi spedisce a Roma in tutta fretta. E' il mio primo incontro con Gianni Letta. Mi tiene lì per quaranta minuti. Beviamo un caffè. Mi dice: noi abbiamo un amico in comune, "il nostro Marco" (Mancini). Letta mi spiega le intenzioni di Rizzi. Organizzo una contro-operazione di discredito ai danni della Kroll. Il 6 novembre 2004, faccio pubblicare che c'è "un mandato d'arresto per l'uomo della Kroll, Nunzio Rizzi". La notizia è del tutto falsa, ma alla Kroll capiscono che gli è andata male. E noi, in Telecom, capiamo il senso di quella storia: hanno mandato a dire a Tronchetti che non si fidano di lui, che la sua reputazione può essere sporcata se gli ambienti politici non fanno barriera e quindi è meglio andare d'accordo". (Tavaroli chiarisce che dal suo orizzonte di lavoro - e intende la rete di rapporti e liaison che possono rendere trasparenti o protette le intenzioni di Tronchetti - nessuno è escluso. Nemmeno la magistratura). "Era più o meno il settembre del 2001. Mi chiama Armando Spataro, allora membro del Consiglio superiore della magistratura. Mi dice: "Il tuo capo ha risolto i problemi di Berlusconi". Era accaduto che Pirelli Real Estate avesse rilevato Edilnord di Berlusconi che navigava in cattive acque. Per Pirelli era un affare, per Spataro un favore. Nel 2003 Armando ritorna a Milano come procuratore aggiunto. Ho l'idea di farlo incontrare con Tronchetti. Organizzo il meeting. Ma, quel giorno, commetto un errore grave. Invece di andare via, come facevo sempre, rimango nella stanza e sono testimone della loro conversazione. Che non va per nulla bene. Quasi al termine, Tronchetti chiarisce che magistratura e politica devono reciprocamente rispettarsi e che il lavoro dei giudici non può pregiudicare le responsabilità della politica. E' più o meno una banalità, ma detta in quel momento suonò alle orecchie di Armando come una difesa pregiudiziale di Berlusconi e una censura per le iniziative della magistratura. Spataro ne ricava la convinzione di avere di fronte un uomo piegato agli interessi di Berlusconi. Nessuno gli ha tolto più quell'idea dalla testa. Questo era il mio lavoro: creare una rete di protezione personale intorno a Tronchetti e di sicurezza per l'azienda, rimuovere le inimicizie preconcette, le ostilità, il malanimo, le presunte incompatibilità. Non è sempre affare per deboli di stomaco. Ecco che cosa intendo quando dico che il perimetro della security si era di molto allargato. Ecco che cosa intendeva Marco Tronchetti Provera quando mi diceva: "Le abbiamo chiesto troppo". Se avevo bisogno di informazioni sugli antagonisti mi rivolgevo a Emanuele Cipriani (investigatore privato della Polis d'Istinto). Che me le procurava. Sono pronto ad ammettere che ci sono state - ma questi sono affari di Cipriani - indagini illegali. Ammetto che bisognerà spiegare le intrusioni informatiche ai danni di Massimo Mucchetti e Vittorio Colao (vicedirettore del Corriere e amministratore delegato di Rcs). Ma non ci sono state intercettazioni abusive né ricatti. Nell'indagine della procura di Milano, non ce n'è traccia. Il mio lavoro non si è mai arricchito di quella roba lì. Le cose andavano così. Fino a quando sono stato in Pirelli, sono stato più o meno un "centro di servizi". Tronchetti Provera, da Telecom, aveva bisogno di informazioni. Mi chiamava e io provvedevo a raccoglierle. Nessuno si dovrebbe meravigliare. Le aziende vivono di informazioni fino alla raffinatezza delle "analisi predittive". E non esitano a sporcarsi le mani. Un esempio? Per quel che so, l'"Operazione Quattro Gatti", lo sganciamento di Mastella dal centro-destra organizzato nel 1998 da Cossiga, fu finanziato per intero dai gestori della telefonia: Sentinelli (Tim), Novari (3), Pompei (Wind), con il sostegno della Ericsson. Quando arrivo in Telecom, il lavoro cambia. Agisco "di iniziativa" sulle analisi tipiche della sicurezza. Attenzione, però, il "sistema Tavaroli" non era e non è mai stato il "sistema Cipriani"". (Tavaroli non ammette che l'uno integrava l'altro, che l'uno sosteneva l'altro e mai parla del ruolo di Marco Mancini, il capo del controspionaggio. Lo ripetiamo ancora: questa è soltanto la verità di un indagato). "E' a questo punto che arrivano i primi segnali dal "network eversivo". Si fanno sotto quelli che io chiamo "i massoni". Cominciano a scorgere, avvertendole come una minaccia, tutte le potenzialità di quel lavoro, della mia presenza a Telecom, del mio legame con Marco Mancini in ascesa nel Sismi, delle opportunità di integrazione in un unico "nastro" delle informazioni in possesso per motivi istituzionali di una grande azienda di telecomunicazioni e di un servizio segreto. Lo avevate capito anche voi a Repubblica, ma immaginavate che Telecom fosse il centro del "sistema" e non solo un segmento, il più fragile. Arriva il primo segnale e non faccio fatica a "leggerlo". Le manovre compromettenti (è sospettato di essere coinvolto in un traffico d'armi) di Slaedine Jnifen, fratello di Afef (la moglie di Tronchetti) con uno dei figli di Gheddafi mi sono segnalate prima da Nicolò Pollari. Mi dice: i servizi libici minacciano di ucciderlo. Poi da Luigi Bisignani che aveva avuto l'informazione dalla Guardia di Finanza. Capii la musica. Anche Afef parve a rischio". (Tavaroli non dice né vuole dire se il dossier raccolto anche sulla moglie di Tronchetti sia stato una sua personale iniziativa o un'operazione commissionata da altri o addirittura concordata con il presidente della Telecom). "E' un fatto che Afef si porta dietro tutte le amicizie romane del primo marito, Marco Squatriti (Andreotti, Bisignani, Letta). Ricordo che, quando Squatriti finisce in carcere, il primo che gli va a fare visita, come avvocato anche se non era il suo avvocato, è Cesare Previti. L'uomo deve essere finito al centro di una faccenda molto seria. Perché nessuno s'incuriosisce al finale della storia di Italsanità (era la società dell'Iri che aveva affittato dai privati 28 immobili da destinare a residenze per anziani, impegnandosi a pagare affitti per 1.000 miliardi in nove anni, di cui 572 a Squatriti, titolare degli 11 contratti più consistenti)? Sono stati rimborsati a Squatriti un centinaio di miliardi di lire. Oggi Squatriti non ha più un soldo. Dove sono finiti i denari? E, soprattutto, di chi erano? Forse per tenersi buono questo giro, il Dottore ingaggia Maurizio Costanzo (P2, tessera Roma 152), tutt'uno con Previti, Squatriti, Gianfranco Rossi (il faccendiere romano, arrestato nel giugno 1994, è l'intestatario del conto corrente "coperto" FF 2927 presso la Trade Development Bank di Ginevra, conto sul quale sono affluiti 2 milioni e 200 mila dollari fornitigli da Bisignani e parte della maxitangente pagata dall'Enimont ai partiti di governo), Luigi Bisignani (P2, tessera Roma 203). Tronchetti retribuisce Costanzo con 3 milioni di euro all'anno soltanto, in definitiva, per costruire l'immagine di Afef. Ma, in realtà, Tronchetti vuole tenerlo buono e, nel contempo, alla larga. Costanzo non aveva nemmeno il numero diretto del suo cellulare. Si ripetono i segnali negativi. Salvatore Cirafici, capo della sicurezza di Wind, un massone, mi racconta che è stato interpellato da un giornalista del Giornale che sta preparando un articolo contro di me, ispirato da Luigi Bisignani. Che ci fossero fibrillazioni in corso, lo deduco anche da altri episodi. Poco dopo il Natale del 2002, diciamo nel gennaio del 2003, Berlusconi convoca Pollari a Palazzo Chigi e gli chiede a brutto muso: "Chi è questo Tavaroli?", "E' vero che Mancini è un comunista"? Pollari replica, difende Mancini e comunica che sta per nominarlo capo della 1° Divisione. Berlusconi abbozza. Non poteva dire di no a Pollari. Come non glielo ha potuto dire poi, con il governo successivo, Romano Prodi, che ha sempre difeso il direttore del Sismi. La faccio breve, nel 2004 fonti della Guardia di Finanza fanno sapere in Telecom che "Tavaroli, da punto di forza, è diventato un punto di debolezza". A maggio mi convoca Tronchetti e, alla presenza di Buora, mi consiglia di accettare una aspettativa di tre mesi per far calare il polverone su di me e la società. Accetto, non ho alternative. Per tre mesi, il telefono si fa muto. Non mi chiama più nessuno, se si esclude Adamo Bove (il dirigente della security governance della Telecom precipitato il 21 luglio 2006 da un cavalcavia della tangenziale di Napoli: suicidio o istigazione al suicidio?). Vado in Romania. Mi richiamano in Italia dopo l'attentato al Tube di Londra del 7 luglio 2005. Tronchetti chiede a Letta se può darmi una consulenza antiterrorismo. Letta si dice d'accordo "nell'interesse del Paese". A fine anno, il Dottore mi dice: devi rientrare. Nel gennaio 2006, quando sono pronto a rientrare, Cipriani si fa abbindolare dai carabinieri di Firenze che non hanno mai smesso di blandirlo: "Vuota il sacco e le tue responsabilità saranno ridotte al minimo...". Quello ci casca e trovano il dvd con i file illegali, peraltro già in possesso di Emilio Ricci, avvocato, romano, comunista, amico mio, di Pollari, di D'Alema. Cipriani consegna la password ai pm. In tempo reale la notizia arriva a Tronchetti - penso attraverso l'avvocato Mucciarelli. Il Dottore mi convoca. Mi dice: hanno il dvd; l'hanno aperto; lei non può più tornare in azienda. Io mi mostro preoccupato. Gli dico: su quel dvd ci sono i file di Brancher, e di Cesa, e la faccenda di D'Alema e dell'Oak Fund. Inizialmente, Tronchetti finge di non ricordare. "D'Alema? - dice - e che c'entra, io non so nulla...". Poi, qualche giorno dopo, gli torna la memoria e ammetterà che era stato lui a commissionarmi quel lavoro per verificare se, nell'acquisizione di Colaninno, fossero state pagate tangenti. Qualche mese dopo, in maggio, Tronchetti alla presenza del solito Buora mi chiede le dimissioni. Fu un lavoraccio, l'inchiesta "Oak Fund". Per quel che poi ha scritto Cipriani nel dossier chiamato "Baffino", ora nelle mani della procura di Milano, i soldi hanno viaggiato nella pancia di trecento società in giro per l'Europa per poi approdare a Londra nel conto dell'Oak Fund, a cui erano interessati i fratelli Magnoni (Giorgio, Aldo e Ruggiero, vicepresidente della Lehman Brothers Europe) e dove avevano la firma Nicola Rossi e Piero Fassino. Queste cose le ho dette anche ai pm che mi hanno interrogato. Loro mi dicevano: non scriviamo i nomi nel verbale, diciamo "esponenti politici...". Formalmente perché è necessario attendere la sentenza della Corte Costituzionale per sapere se quei dossier raccolti illegalmente sono utilizzabili nel giudizio. Ma, dico io, se mi prendi a verbale non hai più bisogno della Corte Costituzionale, hai il mio verbale che contiene la notizia di reato. E allora? Sono assolutamente convinto che Tronchetti sapesse in tempo reale quali fossero le intenzioni e le mosse della procura. Credo che egli abbia lasciato esplodere il "caso Rovati" al solo scopo di anticipare il governo e trovare una dignitosa e sdegnata via d'uscita. Con quel che sarebbe successo di lì a un paio di mesi, il governo avrebbe potuto dirgli: non hai l'autorità né la credibilità per governare le reti. Ora Tronchetti Provera lascia dire e scrivere che sono stati Romano Prodi, Giovanni Bazoli e Guido Rossi a sottrargli la Telecom senza dire una parola su quel network di potere, eversivo che io, nel suo interesse e su sua richiesta, ho fronteggiato e da cui sono stato distrutto; quell'area di potere che decide le nomine che contano, che in apparenza non chiede e, invece, ordina con messaggi traversi che è bene cogliere al volo per non dare l'idea che la si stia sfidando. Genio dell'opportunismo qual è, Tronchetti vuole ritornare sulla scena forte della liquidità incassata in uscita dalla Telecom, candido e senza un'ombra. Solo io dovrei pagarne il prezzo, ma gli è capitato il peggiore cliente possibile. Non ho nulla da perdere. Mi hanno già tolto tutto. Devo soltanto dimostrare ai miei cinque figli che il loro papà non è il mascalzone che raccontano, che il loro papà ha concesso soltanto fiducia a chi non la meritava. Per questo ripeto: non accetterò mai di essere il capro espiatorio di questo affare". (2. Fine) Torna alla prima puntata (22 luglio 2008) |
Post n°733 pubblicato il 24 Luglio 2008 da giromapa
Da Repubblica.it Tavaroli con Tronchetti Provera A leggere i giornali, e qualche anticipazione del documento che annuncerà oggi la chiusura delle indagini del pubblico ministero di Milano, l'affaire Telecom sembra essersi sgonfiato come un budino malfatto. Più o meno, si sostiene che fossero all'opera, in Telecom, soltanto un mascalzone (Giuliano Tavaroli) e un paio di suoi amici d'infanzia (Emanuele Cipriani, un investigatore privato, e Marco Mancini, il capo del controspionaggio del Sismi). La combriccola voleva lucrare un po' di denaro per far bella vita e una serena vecchiaia. I "mascalzoni" avrebbero abusato dell'ingenuità di Marco Tronchetti Provera (presidente) e di Carlo Buora (amministratore delegato). Tutto qui. L'affaire Telecom è stato dunque, secondo quest'interpretazione, soltanto un bluff mediatico-giudiziario utilizzato (o, per alcuni avventurosi osservatori, organizzato) da circoli politici per sottrarre al "povero" Tronchetti la società di telecomunicazioni. La ricostruzione è minimalista. Evita di prendere in esame, anche soltanto con approssimazione, la sequenza dei fatti accertati (a cominciare dalla raccolta di migliaia di dossier illegali); la loro pericolosità; i protagonisti (alcuni mai nemmeno nominati); un multiforme network di potere che condiziona ancora oggi un'imprenditoria debole senza capitali e una politica fragile senza legittimità: imprenditoria e politica sorrette, protette o minacciate - secondo convenienza - da alcune burocrazie della sicurezza. È nelle pieghe di questi deficit e contraddizioni italiani che è fiorito l'affaire, uno scandalo che nessuno - a quanto pare - ha voglia di affrontare. Vedremo se lo farà la prudente magistratura di Milano. Per definire almeno la cornice del "caso" e gli attori e un metodo e qualche fondo fangoso, Repubblica - nel corso del 2008 - ha avuto sei colloqui (a Bereguardo, Milano e Albenga) con un Giuliano Tavaroli convinto già da tempo (e quel che accade sembra dargli ragione) che "nessuno avrà interesse a celebrare il "processo Telecom". Nessuno: né i pubblici ministeri, né gli imputati, né la Telecom vecchia, né la Telecom nuova. Ma io non sono e non farò né accetterò mai di essere il capro espiatorio di questo affare. Io vorrò con tutte le mie forze il processo e nel processo vorrò vederli in faccia ripetere quel che hanno riferito ai magistrati. Il mio vantaggio è che tutti - tutti - hanno mentito in questa storia, e io sono in grado di dimostrare che le informazioni che ho raccolto sono state distribuite in azienda perché commissionate dall'azienda e nel suo interesse... Ne ho sentite di tutti i colori. Come Marco Tronchetti Provera che nega di aver mai avuto conti all'estero, come se non sapessi che per lo meno fino al 2006 i suoi conti erano a Montecarlo". <!-- OAS_RICH('Middle'); //--> Tavaroli lamenta di essere stato "messo in mezzo" per aprire la strada all'inchiesta Abu Omar. E' il "signore della sicurezza" Telecom. I pubblici ministeri devono intercettare gli uomini del Sismi che hanno cooperato con la Cia per sequestrare illegalmente il cittadino egiziano, sospettato di essere un terrorista. Con i buoni rapporti di Tavaroli con il Sismi, l'operazione sarebbe stata a rischio. "Così - dice Tavaroli - hanno cominciato a indagare su di me in modo strumentale. Sì, strumentale. Potrei farvelo leggere nelle carte. Nelle carte c'è scritto. Dispongono la perquisizione nel mio ufficio con un unico obiettivo: rimuovermi dal mio posto nella convinzione che, se non lo avessero fatto, non avrebbero avuto campo libero per le intercettazioni dell'inchiesta Abu Omar e quindi per l'ascolto decisivo dei funzionari del Sismi. Pensavano: questo Tavaroli se ne accorge e avverte il suo amico Mancini (era il capo del controspionaggio dell'intelligence) e noi non caviamo un ragno dal buco. Così sono finito nel tritacarne...". Sarà, quel che è saltato poi fuori giustificava l'iniziativa penale, ma qui conta altro. E' vero o è falso che, nel tempo, si è creata una sovrapposizione operativa, una contiguità d'interessi tra l'intelligence di Stato, le security delle grandi aziende al servizio di obiettivi ora istituzionali ora politici ora economici, ora l'uno e l'altro? Un "sistema" che per alcuni anni ha avuto il suo centro nella Telecom di Marco Tronchetti Provera? Tavaroli dice che, se si vuole davvero capire che cosa è accaduto in Telecom, bisogna andare indietro nel tempo. Una data d'inizio. "Questo metodo ha, se si vuole, una data d'inizio con la nascita del nucleo speciale di polizia giudiziaria a Torino, un gruppo che non aveva alcuna corrispondenza nell'Arma dei carabinieri. Esisteva soltanto lì a Torino, dove il generale Dalla Chiesa era comandante (Tavaroli lo chiama sempre il Generale, e sembra di vedere la maiuscola). E' nel "nucleo" che nascono l'operazione di Frate Mitra che conduce all'arresto di Renato Curcio o all'arresto di Patrizio Peci. In quest'occasione furono "infiltrati" in Fiat - con l'assenso e la collaborazione della "sicurezza" dell'azienda - cinque operai "collaborazionisti": uno di essi fu poi reclutato dalle Brigate Rosse; fu l'uomo che indicò al Generale il "covo" di Peci. Dopo questi successi il metodo trovò una "natura giuridica", una sistematizzazione legislativa. Non è che le nuove leggi lo prevedessero esplicitamente, ma rendevano possibile - meglio, tolleravano - quei sistemi se, in qualche modo, "controllati" dall'autorità giudiziaria. Diciamo che le linee di collaborazione con la magistratura si accorciarono e capitava che il pubblico ministero lavorasse gomito a gomito con il sottufficiale operativo senza la mediazione delle gerarchie. Nacquero le sezione speciali anticrimine. Con l'assassinio di Guido Rossa, comincia la collaborazione anche del Pci e dei sindacati. Ugo Pecchioli offre tutte le informazioni che i militanti e i sindacalisti raccolgono nelle fabbriche. Indicano tutti i nomi di coloro che, in fabbrica, sono o paiono essere vicini al terrorismo. Ci sono ancora in giro ex-sindacalisti che possono essere buoni testimoni di questo lavoro". (Dunque, vediamo integrati in una sola "piattaforma", l'Arma dei carabinieri con un suo nucleo speciale, le procure alle prese con un "diritto speciale di polizia", le attività informative della più grande impresa privata del Paese, la Fiat, e del maggior partito di opposizione, il Pci, presente in modo massiccio nel sindacato e nelle fabbriche. Lo schema è destinato a riprodursi e, con la sconfitta del terrorismo, a deformarsi, a "privatizzarsi"). "Diciamo che nella lotta al terrorismo nacque un "sistema" e fu selezionata un'élite di professionisti, che è o è stata al vertice della security delle maggiori imprese italiane. Con i pool di magistrati, operavamo a stretto contatto, avevamo molte responsabilità anche di decisione. Accadde quello che nelle aziende si sarebbe chiamato "accorciamento della catena decisionale". Gli ufficiali in parte partecipavano e comprendevano l'importanza dell'esperienza, in parte avvertivano di avere meno potere: contavano le competenze e non il grado sulla spalla. Si forma così una generazione di uomini che emerge per il merito, la competenza. Siamo in un periodo di "leadership situazionali", ovvero di persone che prendono la leadership a seconda delle situazioni e delle circostanze, con grande flessibilità. E' in questo periodo che si afferma "la dittatura della conoscenza". Conta chi ha competenza e conoscenza e capacità di analisi. Ecco perché io e Marco Mancini ci affermammo nonostante fossimo soltanto dei sottufficiali: noi avevamo competenza e conoscenza. I generali avevano i gradi, ma né l'una né l'altra. Nel dicembre del 1988, quasi con un colpo di testa - decisi d'istinto, dalla mattina alla sera, appena mi arrivò la proposta - lasciai l'Arma per l'Italtel. Ormai noi dell'Antiterrorismo ci giravamo i pollici. Molti si decisero a riciclare i loro metodi nella lotta alla criminalità organizzata. Non era per me. Io penso che la mafia ti rovini la testa, ti avveleni. Quando mi chiudo alle spalle la porta di casa, voglio poter lasciare fuori anche il pensiero del lavoro. Ma quando hai a che fare con gente che scioglie un bambino nell'acido, come fai a dimenticartelo? Te lo porti a casa, il lavoro. Andai via". "Lo scambio delle figurine" "Per il mondo della sicurezza privata, quelli, sono anni decisivi. Nel 1989 cade il Muro, implode l'Unione Sovietica. Le ragioni costitutive di una cultura della sicurezza, della sua organizzazione, metodo, visione del mondo vengono meno. Io ho 30 anni e sono consapevole che devo trasformarmi in un uomo di business. Comprendo subito che la sicurezza deve diventare una funzione dell'azienda, non restare - come era allora - un corpo separato dell'impresa. Tra il 1991/1992 nascono business intelligence, market intelligence, competitive intelligence... Un vecchio mondo si frantuma, prestigiosi "salotti" diventano polverosi e inutili. Mondi che prima erano separati da ostacoli, più o meno, invalicabili - o valicabili a prezzo di grandi rischi - entrano in costante comunicazione. A quel punto i servizi segreti che, con il mondo diviso in blocchi, erano monopolisti dell'informazione perdono, nello spazio di un mattino, la loro supremazia. E' uno scettro che passa nelle mani dell'impresa privata. Italtel, per dire, aveva dopo il 1989 150/200 uomini in Urss e agiva con i governi delle singole repubbliche dell'ex-blocco sovietico mentre il Sismi faticava per infiltrare anche soltanto un uomo oltre le linee. Chi contava di più? Chi poteva avere più informazioni? Queste condizioni creano un nuovo mercato. Comincia lo scambio delle figurine tra security private e servizi segreti. La parola d'ordine convenuta è "diamoci una mano". E' una collaborazione che cresce, si allarga e sviluppa senza uno straccio di protocollo, senza rendere trasparente e condiviso che cosa è lecito, che cosa non lo è. In ogni altro paese - Stati Uniti, Inghilterra, Francia - ci sono protocolli che regolano i rapporti tra imprese, sicurezza privata e servizi. Da noi, c'è un vuoto che ciascuno occupa come crede. Nel 1996, aprile, vado in Pirelli. A quel punto le aziende che agiscono sul mercato globale hanno già una sovranità superiore a quella degli Stati. I governi hanno abdicato. L'11 settembre, se riproduce nel mondo una nuova logica bipolare Occidente contro Islam, esalta le potenzialità e il protagonismo delle imprese multinazionali o plurinazionali. Con in più lo straordinario e inedito potere della tecnologia. Cambia di nuovo tutto. Cambiano la cultura e i players dell'informazione. Tutti affidano tutto all'indagine elettronica: tracce elettroniche, carte di credito ecc. ecco che le telecomunicazioni diventano appetite, sempre più strategiche. Le indagini si fanno con le intercettazioni. Di nuovo: difficile dividere lecito e meno lecito. In Francia, la polizia fa le intercettazioni legali; la Direction de la Surveillance du Territoire (Dst) fa quelle illegali. Tutto normale, in Italia no". "Tronchetti voleva il Corriere" "Poi Pirelli acquista la Telecom. E' per tutti noi una sorpresa. Forse non tutti sanno che Tronchetti Provera non aveva alcuna intenzione di entrare in Telecom, in realtà. In quel 2001, stava scalando Rcs. Ha sempre avuto una passione non nascosta per il Corriere della Sera che riteneva, e forse ritiene, un'istituzione essenziale per la democrazia italiana. In quei mesi stava acquisendo posizione e posso credere che si preparasse a lanciare un'offerta pubblica di acquisto. Fu Buora a proporre il dossier Telecom. Tronchetti gli diede fiducia. Le cose, per noi, non stanno per niente messe bene nel 2001, quando Berlusconi e i suoi si insediano a palazzo Chigi. Era al potere una famiglia impenetrabile, gente che è insieme, gomito a gomito, dai banchi di scuola, gente che pensa soltanto agli affari e all'assalto alla diligenza e tutti - dico, tutto l'establishment - sono "fuori asse". A chi rivolgersi? Come scegliere gli interlocutori "giusti"? E ci sono davvero, in quella compagnia, gli "interlocutori giusti"? Per dirne una. Telecom aveva un contenzioso per un centinaio di miliardi di lire con il ministero della Giustizia. Come venirne a capo? Chi era Roberto Castelli? E quel Brancher lì (era l'"ambasciatore" di Forza Italia presso la Lega di Bossi), che "pesce" era? La verità è che noi in quell'avvio avevamo soltanto pochissimi interlocutori. Ad esempio, Pisanu (ministro per l'attuazione del programma). Vecchia scuola. Formazione politica solida. Interlocutore affidabile. Con lui, Tronchetti filò subito d'amore e d'accordo. Con gli altri soltanto guai. E i guai toccava a me affrontarli. In quel periodo accade qualcosa che mi fa capire. Accade che dovevamo rivedere gli organici e le responsabilità negli uffici di Roma. Una persona, di cui non voglio dire per il momento il nome, mi sollecita a "salvare", negli uffici della capitale, la signora Laura Porcu. La cosa mi convince e la Porcu viene "salvata". Dopo qualche tempo, la Porcu mi chiede se voglio essere messo in contatto con personalità influenti del mondo romano. Accetto". "Il network eversivo" "La Porcu organizza un giro delle sette chiese, un'agenda di incontri con Nicolò Pollari, Francesco Cossiga, Paolo Scaroni (Eni), Enzo De Chiara (uno strano personaggio, finanziere italo-americano, vicino alle amministrazioni Usa, già finito in qualche inchiesta giudiziaria), Pippo Corigliano (Opus Dei) che a sua volta mi presenta Luigi Bisignani che già aveva chiesto di incontrarmi (se fosse stato siciliano, dopo averlo conosciuto, avrei pensato che fosse un mafioso) e la Margherita Fancello (moglie di Stefano Brusadelli, vicedirettore di Panorama), che a sua volta mi riportò da Cossiga, Massimo Sarmi (Poste), Giancarlo Elia Valori, il generale Roberto Speciale della Guardia di Finanza. Insomma, dai colloqui, capisco che questi qui sono in squadra. (Tavaroli annuncia in settembre una memoria difensiva molto documentata e comunque va ricordato qui che la sua è la ricostruzione di un indagato). Mi immagino una piramide. Al vertice superiore Berlusconi. Dentro la piramide, l'uno stretto all'altro, a diversi livelli d'influenza, Gianni Letta, Luigi Bisignani, Scaroni, Cossiga, Pollari. E' il network che, per quel che so, accredita Berlusconi presso l'amministrazione americana. Io non esito a definire questa lobby un network eversivo che agisce senza alcuna trasparenza e controllo. Mi resi conto subito che quella lobby di dinosauri custodiva segreti (gli illeciti del passato e del presente) e li creava. Che quei segreti potevano distruggere la reputazione di chiunque e la vera sicurezza è la reputazione. C'era insomma, tra la Telecom di Tronchetti e quell'area di potere, un disequilibrio informativo che andava affrontato subito e nel miglior modo da noi, riequilibrandolo o addirittura annullandolo con la creazione, a nostra volta, di altri segreti. C'era bisogno di coraggio. Che è proprio la virtù che manca a Marco Tronchetti Provera. Ha il culto di se stesso. Non decide mai. Non se la sentiva di attaccare frontalmente, magari pubblicamente, quel network né voleva "sporcarsi le mani", cioè entrare nel club pagandone il prezzo in opacità, ma incassandone i vantaggi lobbistici. Non prende posizione. Non si "compromette" né in un senso né nell'altro. Per questo quella "compagnia" lo scarica. Come, lo spiegherò presto. Il fatto è che quando Tronchetti si insedia in Telecom è debole. Debole non per l'indebitamento, come tutti pensano. Ma per il suo isolamento nel mondo politico, economico. Tronchetti non piace alla politica. Ne è distante e questo non è gradito. Non capisce la politica di Roma e questo è un problema. Non piace agli industriali. La Confindustria è guidata da Antonio D'Amato, espressione della media industria, e questo è un altro problema. E' su questa zona di confine che mi dicono di "ballare". E io ballo. Me ne ha dato atto, quando mi ha liquidato, anche Tronchetti. Mi ha detto papale papale: "Forse le abbiamo chiesto troppo". E' vero, mi chiesero molto. Forse troppo". (1. Continua) (21 luglio 2008) |
Post n°732 pubblicato il 24 Luglio 2008 da giromapa
Da L'espresso Il dosaggio regolare dell'antigene prostatico specifico, meglio noto come Psa, potrebbe davvero avere un effetto positivo sulla mortalità causata dal tumore della prostata. Due studi appena usciti sembrano infatti fornire la prova a lungo cercata dai sostenitori dell'esame, e finora mai emersa, dei benefici apportati dallo screening di massa in termini di diminuzione dei decessi. Nel primo studio, pubblicato sull''International Journal of Cancer', gli autori hanno analizzato l'andamento della mortalità in base ai dati dell'Oms e dello Iarc, l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro di Lione, nel periodo 1975-2004, e confermato che in sette paesi (Stati Uniti, Italia, Germania, Svizzera, Canada, Francia, Spagna) la tendenza è alla diminuzione: di recente la mortalità specifica ha raggiunto livelli minori rispetto a quelli registrati prima dell'introduzione del dosaggio del Psa, all'inizio degli anni '80. In alcuni paesi l'andamento è analogo, anche se i valori assoluti non sono ancora inferiori a quelli pre-Psa, mentre in altri, tra i quali Cuba, Messico e nell'Europa dell'Est, la tendenza è al rialzo. Gli autori stanno conducendo altri studi per capire in che misura la riduzione sia attribuibile allo screening e in quale al miglioramento delle cure e dell'accesso ad esse. Nel frattempo, una conferma indiretta è giunta da uno studio effettuato dai ricercatori dell'Università di Innsbruck nella zona austriaca del Tirolo, dove lo screening è stato introdotto nel 1993 per tutti gli uomini di età compresa tra i 45 e i 75 anni. Secondo quanto riferito sul 'British Journal of Urology', nel periodo considerato, la mortalità è scesa addirittura del 54 per cento, contro il 29 per cento del resto dell'Austria. Tra il 1993 e il 2005, l'87 per cento degli austriaci ha effettuato almeno un dosaggio del Psa, e fino dai primi anni del test di massa la mortalità ha cominciato a scendere più in fretta rispetto alla media del Paese, e cioè di circa il 7,3 per cento l'anno, rispetto al 3,2 per cento delle altre regioni. <!-- OAS_RICH('Middle'); //--> (23 luglio 2008) |
I progetti d'affari con Urbani. I raccomandati di Staderini, Petroni e Curzi. Ecco i legami fra il dirigente e i consiglieri. Che l'hanno assolto ASCOLTA: Le nuove intercettazioni Don Agostino l'ha sfangata ancora una volta. Nonostante i progetti segreti per mettersi in proprio, nonostante l'inchiesta per corruzione e le intercettazioni bollenti, il re dalla fiction all'italiana resterà alla Rai. La settimana scorsa il cda ha bocciato la mozione del direttore generale Claudio Cappon, che ne prevedeva il licenziamento in tronco. Paradossalmente le parti si sono invertite: ora è Cappon a rischiare la poltrona. Sul no all'allontanamento del manager hanno pesato i voti contrari di Giuliano Urbani, Gennaro Malgieri, Giovanna Bianchi Clerici, Angelo Maria Petroni (tutti di area Pdl-Lega), e l'astensione di Marco Staderini (Udc) e Sandro Curzi (Rifondazione): nessuno di loro ha rilevato nelle azioni di Saccà quelle «gravi violazioni e il notevole danno d'immagine all'azienda» accertate da Cappon e dagli altri consiglieri di centrosinistra. Pochi, leggendo e ascoltando le nuove intercettazioni trovate da "L'espresso", avrebbero potuto immaginare esito diverso. I rapporti tra Saccà e i consiglieri vanno oltre le normali conversazioni tra dirigenti, e riportano ad affari e scambi di piaceri personali. Non sorprende, per esempio, che Urbani abbia votato pro-Saccà. Come "L'espresso" ha già rivelato, in più telefonate (ascolta) il consigliere si è speso per difendere gli interessi della sua compagna, Ida Di Benedetto, produttrice di serie tv. Saccà si muove per attivare la fiction sulla pittrice Angelica Kauffman («se fosse un qualsiasi altro produttore noi rifletteremmo un po' su questa storia» ammette la segretaria ad Agostino), vuole "Paura d'amare" («di questi 10 milioni non riusciamo a spostare una quota a cavallo dei due anni, per avere dei residui?» chiede il manager a un'altra collaboratrice, che gli aveva spiegato che il film «è fuori dal conto»), spinge per la storia su suor Bakhita. Ma anche Saccà, a sua volta, sollecita favori a Urbani e gli raccomanda per un incarico in Ray Way il suo commercialista, Pietro Pilello, un tempo maestro venerabile della loggia di Palmi. <!-- OAS_RICH('Middle'); //--> Ma, soprattutto, Urbani è stato parte attiva nel progetto "Pegasus". Un piano attraverso cui il dirigente pubblico voleva dar vita a una privatissima società di produzione che avrebbe dovuto fatturare 200 milioni l'anno. L'idea, come risulta dall'inchiesta della Procura di Napoli, è di Corrado Passera, ad di Banca Intesa, e nasce in India: il banchiere ne parla con Luca di Montezemolo e Ramon Tata, Saccà viene chiamato in seguito. Urbani sogna di far parte del progetto e di diventare addirittura presidente della newco. Vuole fare da «coagulo» tra altri imprenditori interessati: la Palladio di Vicenza, i «bresciani» capeggiati dall'ex Udc Riccardo Conti, e il padrone di Mediaset Silvio Berlusconi. Rispondendo ai pm, Urbani prima nega di sapere se l'attuale premier dovesse essere della partita, poi, messo alle strette, ammette che «Berlusconi manifestava disponibilità ad esser parte del quadro». Urbani racconta di aver discusso con Passera, e ammette davanti ai magistrati che proprio Pilello stava redigendo il business plan. Ad agosto le telefonate con Saccà si fanno bollenti, e il consigliere si sbilancia. «Io ho due problemi», dice al capo di Rai fiction, «il più grande è quello di costruire la sceneggiatura con te. Il più piccolo, però è parte del quadro, è quello che io non vorrei perdere l'opportunità di essere il punto di accordo di questi tre che sarebbero disposti ad appoggiarsi su di me. E cioè: Vicenza, lui stesso, Silvio, e i bresciani». Se Urbani chiede favori e progetta affari milionari, altri consiglieri fanno segnalazioni a go-go. Anche Staderini, per esempio, ha chiamato Saccà. Interessandosi della sorte professionale di un'attrice di fama. Dai brogliacci risulta che il 19 luglio 2007 «Marco chiede di Catherine Spaak»: Saccà risponde che dovrebbe essere stata scritturata. Ma dopo quattro giorni il produttore Angelo Rizzoli invia un fax, spiegando che l'attrice, al tempo in gara nella trasmissione "Ballando sotto le stelle", non può partecipare anche alla fiction "Capri". Il 26 luglio Staderini richiama, e domanda informazioni. Agostino si giustifica, dice che Rizzoli è un imbroglione, avendogli riferito cose non vere sulla disponibilità della Spaak, e chiede a Staderini se vuole chiamare l'attrice insieme a lui. Il consigliere Rai in quei giorni si occupa anche della sorte di "Incantesimo", la soap di Guido De Angeli, intimo del dirigente e di vari politici, che il vicedirettore generale Giancarlo Leone sembra intenzionato a chiudere. Staderini dovrebbe spendersi per un incontro tra lo stesso Saccà e il presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo, che avrebbe promesso al capo di Rai fiction dai 15 ai 20 milioni per sostenere la produzione. Le telefonate fioccano anche tra Saccà e Petroni, un altro dei consiglieri che ha votato contro il licenziamento. Il 17 luglio Agostino chiama Angelo per annunciargli che il provino per Cloris Brosca, che interpretava la "Zingara" nel preserale "Luna Park", è andato bene. La telefonata parte alle 17: un'ora prima la segretaria Paola aveva detto a Saccà che la Brosca era stata contattata per fare "l'antagonista" in una fiction. «Ha fatto un buon provino, ci sono buone possibilità che sia presa», chiosa il dirigente al consigliere- professore. Nelle intercettazioni finisce persino Sandro Curzi, che meravigliando tutti, la scorsa settimana al momento del voto ha preferito astenersi. Curzi segnala non attrici e vallette, ma un professore classe 1927, appassionato di cartoni animati. A giugno Curzi ricorda a Saccà di interessarsi a «Passacantando». In realtà non si tratta di un programma, come si legge sui brogliacci, ma di una persona. Dopo due settimane il manager chiama un certo Luca e chiede di far lavorare Stelio Passacantando, ex Accademia delle Belle Arti e docente di cinema nelle scuole. Saccà in questi giorni è stato definito un genio del prodotto, osannato da decine di attori e registi che lo hanno difeso in una vibrante lettera pubblica. Tifosi eccellenti, ma in Rai in molti si sono legati al dito i giudizi inclementi che Saccà pronunciava al telefono su di loro: da Guido Paglia a Fabrizio Del Noce fino a Leone, definito una volta«topo di fogna» e un'altra «invidioso». Michelle Bonev con Baudo Soddisfatti, invece, quelli che hanno con Don Agostino buoni rapporti. Isabella Briganti su tutti. Saccà non raccomanda solo le preferite dei tanti questuanti, ma anche le sue amiche. Vuole che la Briganti abbia la parte di Mamma Irene nel film tv "Don Zeno", e chiama uno dei responsabili del cast. «Il direttore non raccomanda» chiosa Agostino «sceglie editorialmente». Il 16 luglio definisce il provino dell'amica «eccellente»: addirittura, dice, «la segnalazione del direttore è un elemento ostativo, perché il provino è stato il migliore, ed è fuori discussione»: due giorni dopo Saccà comunica ad Isabella che la parte è sua. Più burrascosi i rapporti con un'altra starlette di belle speranze, Michelle Bonev. Nel 2003 fu scelta per condurre il Dopofestival, e scoppiò il finimondo. Venne difinita da stampa e addetti ai lavori «la raccomandata di Saccà», al tempo direttore generale. L'attrice bulgara fa carriera tra sospetti e pettegolezzi, gira un gran numero di fiction targate Rai. L'ultima è "Artemisia Sanchez", riprese finite nel 2006 e mai andata in onda. Ma la riconoscenza non è di questo mondo: il 27 giugno 2007 l'avvocato Bosco legge a Saccà una durissima lettera della Bonev, che minaccia (dal momento che il direttore non vuole attivare una nuova fiction con una società fondata ad hoc dall'attrice) sfracelli pubblici e conferenze stampa. Il dirigente tiene duro. «Ma che, è matta? È un ricatto, facesse quello che vuole. Posso solo dispiacermi di fronte all'ingratitudine umana. Uno che ha rischiato di tutto per aiutarla... Uno squallore unico». (22 luglio 2008) |
Post n°730 pubblicato il 24 Luglio 2008 da giromapa
Da L'espresso
di Paolo Biondani Pochi controlli. licenze facili. Trucchi per aggirare la legge. Così sono ormai 13 milioni le persone che detengono fucili o pistole e si addestrano nei poligoni. L'altra faccia di un Paese che ha paura. E che si difende da sé Reati veri che fanno paura. Ma anche emergenze immaginarie che gonfiano l'insicurezza 'percepita'. Stretti fra realtà e propaganda, gli italiani si stanno silenziosamente armando. È un fenomeno sommerso, che preoccupa tutte le forze di polizia. I cittadini che possiedono armi da fuoco sono saliti a "circa tredici milioni", secondo le stime dei funzionari delle principali questure. Come dire che quasi un italiano su quattro ha in casa almeno una pistola. Cifre ufficiali non ne esistono, perché neppure il ministero dell'Interno possiede dati aggiornati, incredibilmente, nemmeno per le province a più alta densità mafiosa. Poliziotti, carabinieri e finanzieri denunciano il sostanziale aggiramento dei controlli attraverso veri e propri "stratagemmi legali". Come il boom delle licenze di porto d'armi 'per uso sportivo'. Una crescita improvvisa, considerata molto sospetta soprattutto nelle aree dove è più sentito l'allarme sicurezza. Le forze di polizia temono che questa corsa alle armi finisca per mettere in pericolo la collettività, anziché proteggerla. E avvertono che il problema è sempre più grave. Nonostante cinque anni di promesse. La mattina del 2 maggio 2003 Giuseppe Leotta, detto Pippo il pazzo, 32 anni, catanese di Aci Castello, esce di casa con due pistole regolarmente denunciate 'per uso sportivo'. Ai giardini pubblici uccide un pensionato di 66 anni. Sulle scale del Comune ammazza un impiegato. Poi sale nell'ufficio del sindaco, intima alla capogruppo di An di spostarsi ("Tu non c'entri") e scarica sei pallottole contro il primo cittadino. Dietro l'angolo c'è l'uffico del Commercio, dove Pippo il pazzo crivella di colpi due impiegate. In paese esplode il panico. Lui non si scompone: sequestra un automobilista e si fa portare fino al santuario di Vittoria, dove si suicida. In casa la polizia gli trova altre due pistole, tre fucili, un machete, tre asce, due caricatori, una videocassetta di 'Taxi Driver'. E il porto d'armi per il poligono. Tre giorni dopo, a Milano, un altro cittadino legalmente armato, Andrea Calderini, 31 anni, psicotico con una svastica sulla porta e il '666' dell'Anticristo sul campanello, scende le scale del suo condominio con una Colt 45 Magnum. Al primo piano ammazza una signora di 65 anni che, come tutti i vicini, lo considera "un matto pericoloso". Poi si mette a sparare dal balcone e ferisce tre passanti. Quindi uccide con 11 colpi la moglie 22enne. E alla fine si ammazza. <!-- OAS_RICH('Middle'); //--> Anche Calderini, come Pippo il Pazzo, era un tiratore sportivo con un'impressionante collezione di fucili e pistole. Si allenava nello stesso poligono dei poliziotti del suo quartiere. Eppure da anni era in terapia neuropsichiatrica. Ma la legge non prevede controlli effettivi: per avere la licenza di sparare, bastano due certificati. La doppia strage del 2003 fa scandalo. Otto morti in tre giorni sono troppi, almeno per l'allora ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu, forzista con il senso dello Stato della vecchia Dc, che annuncia un giro di vite. Basta permessi facili, d'ora in poi si faranno verifiche severe e ripetute sull'equilibrio mentale e i precedenti di polizia di tutti i privati che pretendano di armarsi. Cinque anni dopo, però, la vite ministeriale si è allentata. L'accesso a fucili e pistole è ancora più comodo di prima. Se ci si accontenta di un primo livello statistico (l'unico pubblicizzato), le autorizzazioni al porto d'armi sembrano calate di un terzo: nel 2004 le licenze di prima classe, quelle 'per difesa personale', erano 35.750; nel 2007 sono scese a 23.600. Meno 12 mila, per le pistole. Meno 150 per fucili e armi lunghe (da 1.750 a 1.600). Il problema è che, chiusa la porta, si sono spalancate le finestre. Dal 2001 la privatizzazione della sicurezza ha trasformato in business perfino la sorveglianza di depositi nucleari o arsenali d'armi, in passato riservata all'esercito. E così, per cominciare, la stretta ministeriale è stata più che pareggiata dall'aumento delle guardie giurate: in tre anni i vigilantes armati sono schizzati da 57 a 71 mila. Più 14 mila. E ben più allarmante è lo stranissimo exploit di un altro tipo di autorizzazione: il porto d'armi 'per uso sportivo'. "Ottenerlo è molto semplice", spiega un dirigente della polizia: "In pratica basta aver fatto il militare, non aver subito gravi condanne e non risultare documentalmente pazzi". Nel 2004 sono state rilasciate 199 mila licenze sportive, 207 mila nel 2005, 220 mila nel 2006, 222 mila l'anno scorso. Questi permessi, a differenza dei precedenti che hanno scadenze annuali, restano validi per sei anni. Tirando le somme, oggi sono oltre un milione gli 'sportivi' che possono circolare armati. Tutti i funzionari delle questure interpellati da 'L'espresso', da Milano a Roma, dalla Campania al Nord-est, concordano che "le autorizzazioni per uso sportivo sono diventate lo stratagemma più diffuso per aggirare la legge". Un trucco, insomma. Con un'aggravante. "In passato il tiratore era obbligato a dichiarare il poligono prescelto e a raggiungerlo seguendo un percorso rigidamente prefissato", spiegano i poliziotti: "Oggi invece un calabrese di Platì, se viene fermato con un'arma tra Milano e Varese, può dire che sta andando ad allenarsi nella cava di un amico". Ad avere il coraggio di esporsi è Claudio Giardullo, segretario generale del Silp, il sindacato di polizia della Cgil: "Le licenze per uso sportivo sono la cartina al tornasole del vero andamento del mercato delle armi in Italia. È una vergogna che, dopo tante stragi, possano esistere scappatoie così facili per eludere la legge. Chiunque si occupi di prevenzione dei reati sa che, se diventa più semplice comprare fucili e pistole, la sicurezza dei cittadini diminuisce. Far credere che il cosiddetto diritto all'autodifesa garantisca più protezione è una presa di posizione irresponsabile". Nei fatti, anche i campi da tiro seguono il trend delle armi e si stanno moltiplicando. I poligoni ufficiali, autorizzati a certificare "l'idoneità all'uso delle armi", sono 289. Ma le forze di polizia segnalano "il proliferare di campi da tiro privati che di fatto nessuno controlla". Maurizio Leone è il segretario generale dell'Unione italiana tiro a segno (Uits), che ha il compito istituzionale di addestrare e abilitare i privati e le guardie giurate. "I nostri poligoni sono ipercontrollati: è l'esercito a sorvegliare il rigoroso rispetto di tutte le misure di sicurezza, dalle mura in cemento armato all'obbligo di registrare chiunque venga a sparare. I campi da tiro privati, invece, non hanno alcun dovere di identificare i frequentatori e nascono con una semplice comunicazione al sindaco, magari del piccolo comune che in teoria dovrebbe vigilarli. Neppure la polizia riesce a censirli: ne vengono aperti a centinaia in mezza Italia. Basta avere una cava o un terreno per creare un campo 'dinamico' dove sparare in corsa sui bergagli. Sembrano teatri di guerre private e sono totalmente fuori controllo". Le sezioni provinciali dell'Uits funzionano come scuola di tiro anche per i vigili urbani che i sindaci di piccole e grandi città, da Roma a Bologna, sull'esempio di Milano, Genova, Napoli o Bari, vogliono far girare armati. Tra i mugugni delle polizie statali, che temono quantomeno un caos di competenze con gli sceriffi locali. Tuona Giardullo: "Armare tutti è facile. Ma chi addestrerà i vigili a mantenere la calma in situazioni di tensione e pericolo?". L'Uits è sopravvissuto al decreto 'taglia-enti' del 25 giugno scorso. "Ringraziamo il governo e soprattutto il ministro della Difesa La Russa e il presidente del Coni Petrucci", si legge nel comunicato diffuso il 7 luglio. Anche comprare fucili e pistole è diventato più facile. Alle normali armerie oggi si affiancano il commercio su Internet, le riviste per appassionati e perfino qualche testata di annunci gratuiti. "Vendo fucile", "Cedo pistole a prezzi interessanti". Sui siti specializzati compaiono ogni giorno centinaia di nuove offerte da privato a privato. Su Armiusate.it, il 9 luglio è stato messo in vendita, "da Trapani", un bel "Kalashnikov Ak 47" alla modica cifra di "500 euro". Su Mastergun.it, gli armieri Adolfo e Modesto mostrano con "cortesia, competenza, qualità e prezzi convenienti" le immagini di uno spettacolare "Beretta CX4 Storm": senza raffica, altrimenti sarebbe un'arma da guerra. Chi compra deve avere la licenza, naturalmente. Ma la trattativa via computer ha l'effetto di azzerare quel controllo visivo che in genere sconsiglia all'armiere di vendere un fucile di precisione al cliente con la svastica sul braccio o allo strano signore che si sente perseguitato dai vicini. Se tra i politici c'è chi incoraggia l'autodifesa armata, tra gli agenti che l'ordine lo devono mantenere davvero, domina un giudizio opposto: "Più armi significa meno sicurezza". I dati sulle cause di morte raccolti dall'Organizzazione mondiale della sanità e dalla Croce rossa internazionale documentano che gli omicidi aumentano proprio dove circolano più fucili e pistole. Negli Stati Uniti se ne contano 90 ogni cento abitanti. E il tasso di decessi provocati da armi da fuoco è il più alto dell'Occidente: 11,3 ogni 100 mila persone. All'estremo opposto, in Inghilterra e Galles, dove pistole e fucili non superano i due milioni, il tasso precipita a 0,3. L'Italia è una nazione in bilico. Da una parte il nostro Paese è saldamente ai primi posti nelle classifiche mondiali degli esportatori di armi. Dall'altro, la vendita è storicamente limitata da obblighi e controlli pubblici. Ora, per la prima volta, anche in Italia si sta creando un clima da Far West. Tra permessi e scappatoie, le armi detenute legalmente sono salite a 16 milioni: 27 ogni cento abitanti. E gli italiani autorizzati a detenerle in casa sono 13 milioni: quasi uno su quattro, neonati compresi. L'incubo per tutte le forze di polizia è che questi arsenali privati possano trasformare liti, raptus e rancori in tragedie. La questione cruciale è l'insufficienza dei controlli psico-fisici sulle persone che chiedono il porto d'armi. Oggi bastano una visita del medico di famiglia e un certificato dell'Asl. Nella prassi, è un controllo solo formale. Che, come denunciano i poliziotti di Milano e Torino, "ormai si può anche comprare" in agenzie specializzate, senza visite effettive, come succede per le patenti di guida. Dopo le stragi del 2003, il piano del ministero prevedeva di affidare i controlli a una più rigorosa commissione di cinque esperti. Il progetto però è rimasto sulla carta. Anche se di armi facili, in Italia, si muore troppo spesso. Omicidi-suicidi e stragi familiari si susseguono. Come le giornate di ordinaria follia. Ma i governi si mobilitano solo dopo le tragedie più spaventose. Nel novembre 2007, a Guidonia (Roma), un ex ufficiale dell'esercito, Angelo Spagnolo, 52 anni, trasforma il suo balcone in un poligono. In tre ore di fuoco uccide due persone e ne ferisce otto. Spara perfino contro due bimbe di quattro e cinque anni. Ministro dell'Interno è Giuliano Amato, che rilancia d'urgenza il giro di vite sui controlli. Ma il disegno di legge cade insieme al governo Prodi. Oggi al Viminale comanda Roberto Maroni, uomo di punta della Lega, e alla Difesa Ignazio La Russa, il leader di An a Milano: due partiti che hanno fatto del diritto all'autodifesa uno slogan vincente. Sarà un caso, ma ottenere i dati sulle armi in Italia ora è più difficile. Da Roma escono solo due tabelle, ferme a tre anni fa: difesa personale e uso venatorio. Coincidenza vuole che siano gli unici dati in calo. Tra il 2004 e il 2005, infatti, le autorizzazioni ai cacciatori erano leggermente diminuite, scendendo a quota 860.444 (meno 4.388). A condizione di restare anonimi, però, decine di poliziotti di mezza Italia precisano che "le licenze venatorie valgono per sei anni, per cui i cacciatori autorizzati sono in realtà circa 2,3 milioni e quelli attivi oltre un milione e mezzo". Proprio per le armi da caccia (ne circolano "almeno 7 milioni e mezzo") le questure segnalano "forti pressioni per allentare i controlli". I poliziotti citano con rabbia "una circolare-scandalo che ha liberalizzato i calibri, vietando solo il 22". "In pratica si può far passare per arma da tiro al fagiano una calibro 9 per 21 e perfino un Kalashnikov, purché manchi la raffica, che peraltro è facile riadattare". E ancora: "Ci sono questure, in Lombardia e Veneto, che disapplicano di fatto le circolari in vigore ritenendole troppo permissive". La liberalizzazione dei calibri, secondo i più pessismisti, potrebbe favorire, oltre a singoli cittadini ben raccomandati, perfino il traffico d'armi. A Brescia, ad esempio, è in corso una delicatissima inchiesta su enormi carichi di armi 'leggere' made in Italy sequestrate in Iraq a guerriglieri e terroristi. Con il nuovo governo Berlusconi le voci critiche rischiano di restare isolate. Proprio la Lega Nord nel 2006 aveva fortemente voluto la riforma della legittima difesa. Il codice penale autorizzava i privati a usare le armi solo a condizioni rigorose, come la "proporzione tra offesa e difesa": la vittima di un reato doveva essere o almeno sentirsi in pericolo di vita. Dai tempi del fascismo, dunque, in Italia era sempre stato vietato sparare contro un ladro in fuga o vistosamente disarmato. Con le nuove norme non si parla più di legittima difesa, ma di "diritto all'autotulela in un privato domicilio". Da allora per trasformarsi in giustizieri basta una minaccia, anche solo ipotetica, ai "beni propri o altrui". La maggioranza dei giuristi è insorta contro questa "licenza di uccidere", protestando che "la vita umana vale più dei soldi". E per ora la magistratura tende a resistere, richiedendo comunque la prova di un "timore di aggressione". Di fatto tra i 50 mila detenuti italiani l'amministrazione penitenziaria non segnala neppure un condannato per "eccesso di legittima difesa". In compenso fa scalpore il semplice avvio di un'indagine dovuta. Tra i casi più controversi c'è il processo ai due gioiellieri di Milano che nell'aprile 2004 spararono a due rapinatori in fuga, uccidendo un montegrino di 21 anni. Assolti dall'accusa di omicidio, sono stati condannati solo per eccesso colposo: un mese all'orefice, un anno e mezzo a suo figlio. Una sentenza sospesa dalla condizionale e poi azzerata dall'indulto. A Roma, nel maggio 2003, un orefice ha ammazzato due giovani rapinatori italiani. Nel 2005 il tribunale lo ha assolto. E l'allora ministro della giustizia, Roberto Castelli, ha commentato: "Dopo anni di battaglie culturali, finalmente ci si occupa anche di Abele e non solo di Caino". Nel 2006, mentre cambiavano le norme sulla legittima difesa, quell'assoluzione è stata annullata. In attesa del nuovo verdetto, nel marzo 2007 lo stesso orefice è stato arrestato per strada, al Testaccio, con tre pistole, un caricatore di riserva e altre pallottole in tasca. Secondo l'accusa, voleva uccidere il fratello e poi ammazzarsi. Dichiarato seminfermo di mente, è stato condannato a otto mesi. Sono casi come questi a spiegare perché tutte le forze di polizia continuano a pensare che l'uso delle armi debba restare monopolio dello Stato. Gli omicidi in Italia sono in calo dal 1992, l'anno di Tangentopoli e delle stragi contro i giudici Falcone e Borsellino. Nel '91, prima delle grandi inchieste antimafia e del fenomeno dei pentiti, si contavano 1.916 delitti. L'anno scorso 627. L'attuale 'emergenza criminalità', che ha surriscaldato l'ultima campagna elettorale, riguarda soprattutto i reati contro il patrimonio: furti o rapine in casa. E proprio nelle province del Nord, dove è più alta 'l'insicurezza percepita', crescono anche le richieste di porto d'armi. Nel 2007, a Brescia, 6.500 cittadini hanno chiesto la licenza e ben 2 mila l'hanno ottenuta "per uso sportivo". Tra il 2006 e il 2007, nella provincia di Alessandria, le autorizzazioni sportive sono salite da 609 a 756; nei primi cinque mesi di quest'anno se ne contano già 406 e altre 316 a Novara, contro le 508 dell'intero 2007. A Verona, l'anno scorso, 1.200 cittadini hanno chiesto armi sportive; tra gennaio e maggio di quest'anno se ne sono aggiunti altri 590. E le richieste respinte sono "rarissime". Il 16 aprile scorso, tre giorni dopo la batosta elettorale, l'ex ministro Amato ha legittimato anche i quattordicenni a sparare nei poligoni. A preoccupare l'Uits era il "divieto assoluto di consegnare armi ai minorenni", sancito da una Convenzione dell'Onu e da una direttiva europea. La circolare però ha "chiarito" che l'istruttore sportivo si limita ad "affidare temporaneamente" l'arma al ragazzino. Di qui il via libera, che alcuni poligoni interpretano con larghezza di vedute: a Bagheria (Palermo) la sezione di tiro a segno organizza "corsi gratuiti di sparo a partire dai dieci anni". E in aprile, all'inaugurazione del nuovo poligono di Bologna (il più grande d'Italia con 74 linee di tiro ad aria compressa), il presidente Maurizio Calzolari ha rivendicato che "il nostro è uno sport per tutti, che si può praticare dai dieci anni in su". Sparare è un piacere anche nelle scuole. A Como quattro classi del liceo Ciceri (ex magistrali) hanno fatto educazione fisica sparando al poligono di Camerlata. Entusiastici i commenti delle 17-18enni intervistate dal quotidiano 'La Provincia'. "Mi piace fare centro". "Non pensavo di avere questa mira". "Mi sono trovata bene in particolare con la carabina ed il fucile". In questo nuovo clima, fra tanti cittadini spaventati dai banditi ora cominciano a spuntare anche famiglie impaurite dalle armi facili. A Vicenza c'è chi è arrivato a fare causa allo Stato. Nel luglio 1998 un vigilante, Giorgio Garbin, aveva ucciso un collega, Silvano Pellizzari, nel piazzale della Marelli ad Arzignano. Riconosciuto seminfermo di mente, l'omicida è stato condannato a otto anni di carcere e a tre di ospedale psichiatrico. Nel 2006 è tornato libero. La moglie della vittima, Maria Cristina, e il figlio Riccardo nel 2004 hanno citato a giudizio il ministero, la prefettura e l'Ulss 5 di Vicenza. "Garbin non aveva i requisiti per ottenere il porto d'armi", spiega il loro avvocato, Ferdinando Cogolato: "I carabinieri avevano avvertito che 'avrebbe potuto abusare del porto d'armi', ma il loro rapporto è stato scavalcato da un parere positivo. Anche il medico del paese ne aveva segnalato le stranezze, ad esempio quando era arrivato a intossicarsi con i diluenti per stordirsi". La famiglia vicentina ha chiesto alle autorità un risarcimento di 840 mila euro, ma attende la sentenza dall'11 ottobre 2007, quando la corte si è riunita in camera di consiglio. Un caso isolato? Non proprio. Nel marzo scorso, a Boves (Cuneo), un uomo di 63 anni, Francesco Briano, ha ucciso la madre e l'ex convivente prima di togliersi la vita con la stessa pistola. Arrestato nell'84 per aver sequestrato un poliziotto e i suoi tre figli, era stato dichiarato seminfermo di mente. "Com'è possibile che, finite le cure psichiatriche, gli abbiano ridato il porto d'armi?", chiedevano, nel giorno della strage, i figli delle vittime. Di questi e degli altri dati sulle morti violente, però, la politica non parla. Forse perché a crescere in Italia sono soprattutto i delitti che non è facile scaricare su nemici esterni: gli "omicidi in ambito familiare" (saliti in quattro anni dal 16 al 32 per cento del totale) e i delitti legati a "raptus di follia, motivi passionali, risse e rancori personali" (dal 14,8 al 20,9 per cento). "E in questa situazione", tuona un alto dirigente della polizia, "vi sembra logico distribuire armi nelle famiglie?". (17 luglio 2008) |
Post n°729 pubblicato il 24 Luglio 2008 da giromapa
Da Corriere.it
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Post n°728 pubblicato il 24 Luglio 2008 da giromapa
Da Repubblica.it Il porto di Gioia Tauro REGGIO CALABRIA - È la trama della 'ndrangheta che vuole liberarsi dalle catene del 41 bis. Una ragnatela che dalla piana di Gioia Tauro si spande a Roma, si infiltra nei ministeri, raggiunge i bracci delle sezioni speciali delle carceri italiane. Promesse di voti, mosse e contromosse per convincere quei deputati o senatori che "possono fare qualcosa", ricatti, maneggi per ottenere immunità diplomatiche, spiate di magistrati. Non si fermano davanti a niente e a nessuno i capi della 'ndrangheta pur di diventare dei detenuti come tutti gli altri. I personaggi di questo intrigo sono i Piromalli e i Molè, forse i "capibastone" più potenti della Calabria. In una retata che da queste parti ha pochi precedenti per "portata" investigativa - è anche la prima grande operazione firmata dal nuovo procurarore di Reggio Giuseppe Pignatone - la squadra mobile e i ros dei carabinieri hanno decimato con 18 fermi i vertici di due cosche che erano state solo sfiorate dalle investigazioni negli anni passati. Le "famiglie" che soffocano il porto di Gioia Tauro, quelle che come dice uno dei boss catturati "hanno insieme cent'anni di storia". Sono loro, i Piromalli soprattutto, che in giro per l'Italia hanno sguinzagliato avvocati e compari e consigliori per agganciare il senatore Marcello Dell'Utri e l'ex ministro della Giustizia Clemente Mastella. Il primo ha ricevuto quei "calabresi" in almeno in due occasioni (alla vigilia delle ultime elezioni politiche), il secondo ha chiuso ogni contatto con loro dopo la prima telefonata. "Maledetto 41 bis, sto tentando di tutto, voglio percorrere una strada segretissima anche al Vaticano", sibila uno di loro al telefono. E poi dice: "Ho cercato anche con la massoneria, per quanto riguarda eventualmente l'intervento di un giudice molto importante". È alla fine dell'anno scorso che i Piromalli decidono di muovere tutte le loro pedine. È il 3 dicembre del 2007 quando dalla Calabria organizzano per Antonio Piromalli e per il suo amico Gioacchino Arcidiaco (entrambi arrestati nella retata di martedì scorso) un incontro con Marcello Dell'Utri. Dal senatore di Forza Italia vogliono procurare una sorta di immunità attraverso il conferimento di una funzione consolare. Una qualsiasi. Vogliono mettere al sicuro Antonio, il rampollo della "famiglia" con un passaporto diplomatico. In cambio offrono voti e si mettono a disposizione per i "circoli" del senatore nel territorio di Gioia Tauro. Prima di contattare Dell'Utri Arcidiaco chiede ad Aldo Micciché, un ex dc della Piana riparato in Venezuela per sfuggire a grossi guai giudiziari in Italia: "Come mi devo proporre a lui?". Gli risponde Micciché da Caracas: "La Piana è cosa nostra facci capisciri (fagli capire, ndr), il porto di Gioia Tauro l'abbiamo fatto noi. Fagli capire che in Aspromonte e tutto quello che succede là sopra è successo tramite noi". E ancora: "Ricordati che la politica si deve saper fare. Ora fagli capire che in Calabria o si muove sulla Tirrenica o si muove sulla Ionica o si muove al centro, ha bisogno di noi. Hai capito il discorso? E quando dico noi, intendo dire Gioacchino e Antonio (Piromalli, ndr), mi sono spiegato? Spiegagli chi siamo, che cosa rappresentiamo per la Calabria... io gli ho già detto tante cose". Gli ribatte l'altro: "Gli dico: ho avuto autorizzazione di dire che possiamo garantire per Calabria e Sicilia". Dopo un primo incontro il 3 dicembre a Milano fra Gioacchino Arcidiaco e Marcello Dell'Utri (c'è con loro l'avvocato di Genova Francesco Lima), ce n'è un secondo a Roma tre giorni prima delle elezioni politiche del 13 aprile. L'inchiesta sta ancora scavando fra i retroscena di quei faccia a faccia, il senatore Dell'Utri sarà ascoltato come testimone. Gli emissari della 'ndrangheta si sono mossi anche su altri fronti per provare ad avere uno "sconto" sul carcere duro. Contattano una persona - "un mio compare", dice Micciché - vicina al senatore Emilio Colombo, vengono costantemente informati che molti dei loro telefoni sono intercettati - "c'è tutta la rete sotto controllo" - , fanno cenno "a un amico a Palazzo dei Marescialli", ricevono soffiate da due famosi magistrati in pensione di Reggio. Incontrano. Parlano. Garantiscono. È sempre Aldo Micciché che informa i Piromalli. Una volta racconta che il deputato dell'Udc Mario Tassone si sarebbe "messo a vostra completissima disposizione" e "che tira aria di elezioni e diventerà il segretario del partito al posto di Lorenzo Cesa", un'altra volta ricorda che anche "il consigliere regionale Gianni Nucera li aspetta a braccia aperte per tutto quello che avete bisogno". Poi si agita per Veltroni che in comizio ha detto di non volere i voti di mafia: "Avete capito il discorso? Quelli hanno respinto ogni forma, ogni cosa". Il vecchio Giuseppe Piromalli nonostante le tante "amicizie" è però sempre in una cella, isolato nel carcere di Tolmezzo. È a quel punto che Aldo Micciché tenta di "avvicinare" il Guardasigilli Mastella. Il ministro riceve una telefonata sul suo radiomobile il 7 dicembre 2007, in un primo momento non risponde a quel numero sconosciuto ma poi richiama. Sente una voce, quella di Micciché: "Clemente mio, meno male. sto cercando di fare il possibile per aiutarti. Vediamo se recuperiamo sul Lazio e su Roma. ti mando Francesco Tunzi, già hai conosciuto anche altri amici. Noi e nostri". Appena riconosce l'interlocutore che accenna a possibili aiuti elettorali, il ministro interrompe la comunicazione. Ma i boss della già da mesi si aggiravano intorno al ministero della Giustizia. Cercavano un varco. È sempre la condizione carceraria di Giuseppe Piromalli a impensierirli. Riferiscono al figlio Antonio: "Tuo padre è esasperato, e lo diventa ancora di più quando gli vengono toccate le cose di cui necessita di più, cioè la corrispondenza... gli stanno controllando pure i peli". È ancora Aldo Micciché che comunica al figlio del boss: "Sia Antonella Pulo, sia la Zerbetto e sia Francesco Borromeo mi hanno fatto capire che tenteranno di fare quello che. sottobanco devono farlo, perché tu sai che c'è stato un irrigidimento dopo gli avvenimenti che tu sai". La prima - Antonella Appulo - è stata identificata come un'esponente del movimento giovanile dell'Udeur. La seconda - Adriana Zerbetto - era la segretaria del ministro della Giustizia. Il terzo - Francesco Borgomeo - era a capo della sua segreteria. Millanterie dell'uomo di Caracas? È un altro dei filoni investigativi ancora in corso di approfondimento. Comunque è lo stesso Micciché che urla un giorno al telefono: "Sto cazzo di ministro non si può muovere in nessun modo. Devo fare un'altra strada perché è già quasi arrivato il giorno. Sennò siamo fottuti". Il giorno che avrebbero dovuto confermare il 41 bis a Giuseppe Piromalli. I boss parlano a ruota libero, tranquilli, forti del loro "servizio informativo" È Arcidiaco che per una volta avverte Aldo Micciché: "Praticamente ieri ci hanno chiamato e ci hanno detto che due settimane fa hanno tappezzato la macchina di mio cugino Antonio dell'ira di Dio". Pensano di poter dire tutto su altri telefoni, si sentono "protetti". Aldo Micciché si lascia sfuggire: "Ho ricevuto una telefonata da Reggio da persone che nemmeno ti immagini, molto, molto in alto. Dobbiamo stare molto attenti. Lo sai chi è Peppe T. o Peppe V., sai chi sono questi, sono gente legata a mani piedi culo e poi c'è l'altro personaggio importantissimo". Tutti magistrati. Amici di altri magistrati. Amici dei boss della 'ndrangheta. (24 luglio 2008) |
Per epurare le rete dalla pedopornografia, il procuratore dello stato di New York convince gli ISP a non offrire accesso a Usenet. E invita i cittadini a fare pressione sui propri provider. La rete si fa più piccola Roma - Vigileranno sulla rete e sulle conversazioni che si intessono fra gli utenti, pattuglieranno siti e community per debellare i traffici di pedopornografia, smetteranno di offrire accesso ai newsgroup. Alla crociata condotta dal procuratore generale dello stato di New York, Andrew Cuomo, si aggiungono due dei più grandi operatori della connettività statunitense e l'operazione di epurazione della rete trova visibilità in un sito che si propone di scuotere i cittadini. Se le prime adesioni da parte degli ISP erano state annunciate il mese scorso, la battaglia di Cuomo è di lunga data: oltre ad aver condotto numerose azioni volte a ripulire la rete dai rischi per i minori, il Procuratore aveva sguinzagliato investigatori sotto copertura nelle gerarchie Usenet. Avrebbero dovuto raccogliere le prove del fatto che i traffici di immagini di abusi sui minori si alimentano anche nelle pieghe meno visibili della rete e si avvalgono anche degli storici strumenti di comunicazione nelle mani dei netizen. Hanno individuato 88 newsgroup attraverso i quali gli utenti hanno scambiato immagini delle violenze, hanno rintracciato 11.390 fotografie che testimoniano abusi sessuali sui bambini, hanno contribuito a sviluppare un sistema per catalogare le immagini e per rintracciarle e tracciarle online. I primi a rendersi disponibili a collaborare con Cuomo sono stati Verizon, Time Warner Cable e Sprint: hanno promesso di sequestrare il traffico di coloro che si scambiano pedopornografia, hanno promesso di interferire sulle attività degli utenti e di battere a tappeto gli spazi online per attenersi alle condizioni di utilizzo dei servizi che offrono ai propri utenti, condizioni che prevedono che i provider denuncino e indaghino su eventuali usi illeciti dei propri servizi. I nuovi ISP a firmare l'accordo sono invece AT&T e AOL. Per contrastare l'utilizzo illecito di Usenet, semplicemente non offriranno ai propri utenti servizi che consentano si fruirne: AT&T lascerà che i netizen si affidino a provider di terze parti; AOL, che da tempo persegue questa strategia nei confronti di Usenet, continuerà a rendere inaccessibili ai propri utenti gli spazi che ospitano materiale pedopornografico, come già fa dal 2007 in virtù di un accordo con il National Center for Missing and Exploited Children. A fronte di chi solleva il dubbio che la pedopornografia sradicata da Usenet si possa riversare altrove in rete, che impedire l'accesso ai newsgroup non significhi la scomparsa della pedopornografia dalla rete Usenet, Cuomo ha convinto i provider a sequestrare il traffico che passa sui siti inclusi nella lista nera stilata dal National Center for Missing & Exploited Children. La collaborazione strappata ai maggiori provider USA è solo l'inizio: "Gli accordi di oggi con AT&T e AOL - ha annunciato Cuomo - mandano un messaggio agli Internet Service Provider di tutta la nazione: non possono più puntare i piedi quando si tratta di proteggere i nostri bambini, ma devono piuttosto epurare i loro server dalla pornografia infantile". Ma non è tutto: Cuomo sta tentando di coinvolgere i cittadini della rete perché pungolino i provider a fare di più. Il procuratore ha istituito un sito attraverso il quale i netizen possono esprimere al proprio provider l'esigenza di vivere una rete più sicura, inviando lettere al proprio ISP per invitarlo ad attenersi alla linea proposta da Cuomo: "Incoraggio i consumatori dello stato di New York a visitare il mio sito www.nystopchildporn.com affinché si assicurino che gli ISP mettano in campo tutte le misure per sradicare dalla rete questo terribile traffico". Sono in molti a scagliarsi contro la malcelata natura politica del sito, sono in molti a sottolineare come quella ingaggiata da Cuomo sia una battaglia personale piuttosto che un reale tentativo di combattere il traffico di pedopornografia e gli abusi sui minori. Ma c'è chi crede nella crociata condotta da Cuomo: lo stato della California lo sta seguendo a ruota. C'è chi paventa che il procuratore Cuomo stia prendendo di nuovo la mira: i prossimi potrebbero essere gli Usenet provider. Gaia Bottà (fonte immagine) |
Da Dica33.it In assenza di trattamenti chemioterapici di grande utilità per il paziente, la chirurgia resta la principale risorsa in caso di tumori del polmone. I quali, è bene ricordarlo, rappresentano nell’uomo e nella donna la prima causa di morte per cancro. Purtroppo, però, anche il ricorso alla chirurgia tradizionale non è sempre possibile a causa della localizzazione del tumore. Una situazione comune anche ad altre malattie neoplastiche, come quelle del fegato, dove da decenni il bisturi vero e proprio è affiancato da altre metodiche come l’iniezione nella lesione di alcol o chemioterapici o, più recentemente, la radioablazione. Ed è quest’ultima tecnica che oggi sembra offrire una soluzione anche per i tumori polmonari inoperabili, così come testimonia uno studio che ha visto la partecipazione anche di chirurghi italiani. La radioablazione è una tecnica nella quale attraverso la cute si inserisce una sonda, simile a quella degli endoscopi, dalla quale vengono fatti fuoriuscire degli elettrodi che mettono onde elettromagnetiche ad alta frequenza (della stessa gamma delle onde radio, appunto). Effetto termico Maurizio Imperiali Fonti |
Da HwUpgrade.it “Ampiamente annunciata nel corso delle passate edizioni di IDF, Intel Developer Forum, viene presentata ufficialmente oggi la nuova piattaforma Centrino 2, nome in codice Montevina.” Il successo della piattaforma Centrino di Intel, nata nell'ormai lontana primavera del 2003, deve molto alle diverse caratteristiche che Intel ha saputo imporre come standard, date ormai per scontate dalla clientela più o meno informata che si trova di fronte al celebre logo. Negli anni sono state diverse le evoluzioni a livello hardware, passate per l'aggiornamento di processori, chipset, moduli per la connettività ed altro ancora. Oggi è il giorno della presentazione di una nuova generazione Centrino, che verrà indicata come Centrino 2, nome commerciale di quella che fino ad oggi veniva indicata come Montevina. A caratterizzare la nuova piattaforma troviamo diverse novità, che ci limiteremo a riassumere brevemente, approfondendo poi ogni aspetto in un apposito articolo di prossima pubblicazione. La prima novità riguarda i processori utilizzati, che appartengono alla famiglia Penryn dual-core con processo produttivo a 45nm, contro i 65nm della piattaforma precedente. Il passaggio ad un processo produttivo di dimensioni inferiori al precedente porta con sé sue importanti novità: da una parte un minore consumo, dall'altra un minore calore prodotto dalla CPU, a tutto vantaggio quindi sia dell'autonomia che delle dimensioni delle componenti necessarie al raffreddamento. Differenti i modelli previsti, con BUS a 1066MHz efrequenze che vanno da 2,26GHz a 2,8GHz, cache L2 da 3MB (famiglia 8000) a 6MB (famiglia 9000) e TDP a 25W (con processori serie 8000), contro i 35W della precedente generazione. Non mancheranno eccezioni alla "regola" dei 25W, in quanto Intel ha previsto modelli più performanti, fino ad un modello top quad-core con 44W di TDP, anche se passerà in questo caso in secondo piano il risparmio energetico, così come il logo Centrino 2, sostituito da Core 2 Extreme Inside, pur condividendo tutto il resto della piattaforma. A supporto del sistema troviamo l'integrazione di memorie di tipo DDR3, meno esigenti dal punto di vista energetico nell'ordine del 25% a parità di frequenza rispetto ai modelli DDR2. Nuova anche la famiglia di chipset, serie 4, disponibile in differenti declinazioni P45M e P47M, con o senza chip grafico integrato, anche se per i modelli con funzionalità video sarà necessario attendere ancora un paio di settimane. I primi modelli in commercio, dunque, saranno equipaggiati giocoforza con sistemi discreti ATI o NVIDIA. Una delle caratteristiche più interessanti sarà la possibilità di passare da grafica integrata (quando presente) a quella discreta, con modalità definite dall'utente e dall'integratore. Si potrà quindi passare dalla grafica integrata a quella discreta o da boot o senza riavviare il sistema, stando a quanto dichiarato da Intel in fase di anteprima per la stampa. Dal punto di vista della connettività troviamo differenti opzioni, con moduli della famiglia 5100 e 5300. Dal punto di vista delle caratteristiche tecniche si passa dal supporto agli standard WiFi 802.11a/b e draft n fino a WiMAX, presente in opzione. Le novità non finiscono qui, ma rimandiamo alla lettura dell'articolo che verrà pubblicato nei prossimi giorni per saperne di più. Ricordiamo che i PC che equipaggeranno la nuova piattaforma saranno riconoscibili dal logo Centrino 2, Centrino vPro e Core 2 Extreme, di cui parleremo in seguito. |
Da Corriere.it Su Nature Biotechnology lo studio dei colleghi di Judah Folkman
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Post n°723 pubblicato il 17 Luglio 2008 da giromapa
Da Repubblica Messa a punto nei laboratori del Mit una speciale pellicola in materiale organicoLa luce viene intrappolata e concentrata sulle cellule poste sui bordiIl materiale può essere usato nelle normali finestre o sui pannelli già in funzione Il professor Baldo: "Costi irrisori, speriamo di commercializzarlo entro tre anni" di VALERIO GUALERZI Immagine da Sciencemag.org MOLTI grandi passi avanti nella scienza sono stati fatti non solo grazie alle risposte, ma alle domande giuste. Spesso risultati che sembravano sfuggire costantemente di mano sono arrivati "semplicemente" cambiando obiettivo. E' quanto promette di fare anche l'importante innovazione nello sfruttamento dell'energia solare messa a punto in questi giorni nei laboratori del Massachusetts Institute of Technology.Se fino ad oggi l'approccio per cercare di rendere economicamente più competitiva la trasformazione della luce in corrente elettrica era quello di migliorare l'efficienza dei pannelli solari, Marc Baldo e il suo team del Mit hanno avuto l'intuizione di rovesciare il problema. Anziché cercare di costruire celle fotovoltaiche migliori, hanno pensato a come far arrivare più luce a quelle di cui già disponiamo. Idea non del tutto originale, visto che in giro per il mondo già esistono o sono in costruzione diverse centrali solari termodinamiche che sfruttano la forza del sole "raccogliendola" attraverso grandi specchi parabolici, trasformandola in calore. Si tratta però di impianti costosi, che hanno bisogno di forti investimenti e di molta tecnologia. Esattamente l'opposto di ciò che sono riusciti ad ottenere gli esperti del laboratorio di ottica organica del Mit. Insieme ai suoi collaboratori, il professor Baldo, è riuscito a realizzare una speciale "vernice" trasparente in materiale organico che applicata sulle superfici dei vetri è in grado di catalizzare la luce e "intrappolarla" al loro interno. Il vetro si comporta quindi come una grande lastra di fibra ottica che obbliga la luce a scorrere verso l'esterno. Per trasformarla in energia è sufficiente quindi sistemare le cellule fotovoltaiche lungo la cornice. A costi ridotti, ogni finestra di casa potrebbe diventare così una fonte di elettricità.I risultati di questa intuizione sono stati pubblicati recentemente sulla rivista Science e sembrano davvero incoraggianti. L'efficienza delle cellule fotovoltaiche riesce a migliorare del 20%, un incremento che in futuro potrebbe toccare quota 50%. Al momento i pannelli solari convertono in elettricità una quota compresa tra il 10 e il 15% dell'energia che ricevono, mentre il costo di un Kwh prodotto con il fotovoltaico è di circa 15-20 centesimi di euro, contro i 5 circa del carbone. "In fondo - quasi si schermisce il professor Baldo - il tutto si riduce a un pezzo di vetro con uno strato di vernice sopra. L'idea è che la luce entra e inizia a rimbalzare verso i bordi e a quel punto tutto ciò che occorre fare è piazzare delle cellule fotovoltaiche ai lati. La superficie dei bordi è cento volte inferiore a quella esposta al sole, così siamo convinti che il costo dell'energia solare possa essere abbassato". Ma il team del Mit ha studiato anche un'altra possibile applicazione. Il vetro "pitturato" con la loro pellicola organica può essere piazzato infatti anche sopra i pannelli solari già in funzione, "irrorandoli" con una quantità di sole decisamente maggiore. In realtà bisognerebbe parlare della nuova speciale vernice al plurale, perché in laboratorio ne sono state create diverse in grado di coesistere sullo stesso vetro catturando frequenze di luce diverse a seconda dell'orario della giornata. Le prime prove eseguite al Mit con questo semplice accorgimento hanno mostrato la possibilità di raddoppiare l'attuale efficienza dei panelli al costo di un dollaro per ogni watt di potenza installato. Baldo e soci credono talmente tanto nelle prospettive della loro creatura da aver messo in piedi una società, la Covalent Solar, per passare immediatamente alla fase di produzione. Nei loro progetti dovrebbero bastare tre anni per arrivare a commercializzare il prodotto. Anche se riconoscono che ci sono ancora diverse cose da mettere a posto. Al momento il limite maggiore della vernice "cattura sole" è la sua deperibilità. "Ora funzionano per circa tre mesi e questo naturalmente non va bene, ma è un problema che stiamo risolvendo", promette il professor Baldo. |
Post n°722 pubblicato il 17 Luglio 2008 da giromapa
Sembra quasi che non si sia svolto il recente G8 in Giappone. Perlomeno in Italia i media, soprattutto quelli tradizionali, hanno dato spazio ad altre notizie, dal clima avvelenato in tema di giustizia a spiacevoli episodi di cronaca nera. Invece il G8 c’è stato eccome e i grandi della Terra hanno discusso anche di iniziative che riguardano la Rete e, in particolare, la pratica del P2P. Durante l’incontro si è aperto un tavolo sull’Anti-Counterfeiting Trade Agreement (ACTA), un trattato internazionale contro la contraffazione, proposto nel 2007. Il trattato propone sanzioni criminali, ovvero penali, anche per le violazioni volontarie significative della proprietà intellettuale senza scopi di lucro, che colpiscono il possessore dei diritti. In altre parole, il P2P di contenuti digitali protetti da copyright, anche se questi contenuti non finiranno in attività finalizzate al guadagno. Non solo: l’azione giudiziaria può partire anche senza la denuncia da parte dei titolari dei diritti. Come riportato su Wikileaks, inoltre, l’ACTA chiede l’istituzione di un regime legale che protegga gli Internet provider dalla possibilità di essere denunciati, allo scopo di spingerli verso la cooperazione con i detentori dei diritti. Nello specifico, il trattato propone procedure che consentano ai detentori dei diritti di ottenere le informazioni necessarie a identificare l’utente Internet colpevole di file sharing illegale. Non è un segreto che dietro l’ACTA vi siano le pressioni della RIAA (Recording Industry Association of America), che ha collaborato alla stesura del trattato. Autore: Pierluigi Emmulo |
Post n°721 pubblicato il 06 Luglio 2008 da giromapa
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Post n°719 pubblicato il 05 Luglio 2008 da giromapa
La grande diffusione di cellulari, come il Blackberry, e non solo, dotati di tecnologia push mail, per ricevere la posta elettronica in tempo reale ovunque ci si trovi, la richiesta di collegamenti ad Internet in mobilità solo per navigare sembra essere destinata ad un pubblico di incalliti utenti web o professionisti del settore stando anche alle recenti statistiche sull'utilizzo della tecnologia in estate, secondo le quali, almeno per quest'anno, la maggior parte degli italiani parte per le proprie meritate ferie o week-end decisa a non utilizzare la tecnologia, tenendo spenti o quasi anche cellulari o blackberry. Secondo, infatti, una ricerca pubblicata la scorsa settimana, solo il 20% dgli italiani in ferie sembra propenso ad utilizzare Internet e cellulari per leggere le proprie e-mail anche durante le proprie vacanze. Sembra quasi che la tecnologia che ha sempre di più invaso i nostri uffici, le nostre case, ma anche il proprio tempo libero nell'ultimo anno e mezzo voglia "essere staccata" completamente o quasi dalla maggior parte degli italiani. Nonostante queste premesse, con le prime settimane di ferie scaglionate e con la possibilità di lasciare la città nei week-end, si stanno moltiplicando le richieste sui forum e in e-mail giunte alla nostra redazione per comprendere il miglior modo per collegarsi ad Internet lontano da casa e ufficio. Per rispondere a queste domande occorre prima di tutto schematizzare le modalità con cui ci si può collegare ad Internet in Italia in mobilità attualmente, in attesa della diffusione del Wimax che dovrebbe avvenire in grande stile tra la fine dell'anno in corso e durante il 2009 ( anche se per l'Umbria si parla di una copertura entro Agosto ): - connessioni tramite hotspot in albergo o negli Internet Cafè La prima tipologia di collegamenti tramite hotspot negli alberghi o negli Internet cafè non necessità di grandi spiegazioni, se non ricordare che occorre sempre avere un documento di identità per poter accedere ad Internet tramite un Internet Cafè. Per quanto riguarda il Wi-Fi c'è stato un vero e proprio moltiplicarsi di connessioni gratuite nell'ultimo anno, fornite sia da enti pubblici comunali, sia da appassionati che lasciano la propria connessione aperta accessibile liberamente per la navigazione di chiunque lo desideri. Un gran parlare tra offerte e promozioni si sta facendo da diversi mesi, ormai, delle offerte per collegarsi con il proprio cellulare collegato al computer, ma soprattutto con un modem portatile Usb dalla forme di chiavetta ( la ormai cosidetta Internet Key Usb ) che in pratica tutti gli operatori telefonici offrono. Vi sono tre tipi di collegamenti che vengono offerti e dove non c'è la copertura di uno, automaticamente il modem o il cellulare cercano di collegarsi con il protocollo di trasmissione dati "inferiore":
L'HSDPA offre la connessione più veloce in assoluto e rispetto all'anno scorso sono aumentate le zone dove è presente, anche se il collegamento che offre una maggior copertura è quello Umts. L'edge e il Gprs in pratica, si trovano dappertutto, ma permettono di navigare ad una velocità uguale o inferiore a quelle dei vecchi cari modem a 56Kb. Per quanto riguarda la velocità dello HSDPA, le offerte parlano di 7.2 MBps massimi, ma in realtà la velocità nella maggior parte di casi è di circa la metà di quello dichiarato, che comunque è assolutamente buona per navigare, usare e-mail e chattare. La velocità massima teorica di una connessione Umts è 3,6 MBps, ma nella realtà dei fatti anche questa è minore, almeno di un quarto. Per navigare e spendere il meno possibile con le offerte proposte dai vari operatori telefonici è utile ricordare che sul browser si possono disattivare sia la visualizzazione di immagini che di applicazioni in flash e che per leggere la posta elettronica si può utilizzare la propria webmail o bloccare il download degli allegati temporaneamente per scegliere di seguito quali effettivamente di nostro reale interesse scaricare. In questo modo si risparmia banda e traffico e nella maggior parte di queste connessioni che pur essendo flat hanno dei limiti di download dei dati o di tempo può essere molto utile. Così come può essere interessante scaricare dei programmi che permettano di rendere la navigazione più veloce comprimendo i dati da scaricare tra cui è assolutamente consigliabile l'utilizzo di Google Accelerator. Per controllare i kb scaricati durante la navigazione o il tempo di essa, in quasi tute le offerte sono presenti dei software da caricare, che oltre a impostare automaticamente le configurazioni per un corretto collegamento permettono di monitorare dati scaricati e durata del collegamento. Quindi, problema risolto alla base. |
Post n°718 pubblicato il 05 Luglio 2008 da giromapa
Da Web Master PointQualche volta è difficile reperire il giusto driver per una periferica. Come fare quando questa è sconosciuta? Sappiamo tutti che per avere un PC funzionante abbiamo bisogno di tutti i driver dei dispositivi presenti, tra l’altro installati correttamente. Quando acquistiamo un prodotto già completo, i driver sono preinstallati e quindi non incontriamo particolari problemi nell’avviare la macchina e iniziare a lavorarci. Certo, periodicamente, aggiornare i driver può risultare molto utile per garantirsi una migliore performance del computer. Nel caso in cui, invece, decidiamo di assemblare un PC, può capitare di non avere a disposizione il driver di un determinato componente. Analoga situazione, in realtà, può verificarsi anche in caso di formattazione di un PC completo precedentemente acquistato. Per trovare i driver necessari al corretto funzionamento della macchina occorre conoscere il produttore e il modello. Se usiamo Microsoft Windows possiamo risalire a chi ha prodotto l’hardware e al modello del pezzo in questione aprendo le proprietà del sistema (scorciatoia winkey+pausa). Dalla finestra di proprietà bisogna scegliere «gestione periferiche» dalla linguetta hardware e poi selezionarla voce proprietà del componente in questione tramite tasto destro. Per riconoscere il componente basta fare caso al punto interrogativo posto accanto. Si apre un menù a tendina: da lì posizionarsi sulla linguetta dettagli e selezionare la voce ID istanza periferica, che aprirà una stringa del tipo PCIVEN_10DE&DEV_0421&SUBYS… A questo punto occorre identificare le cifre seguenti VEN (Vendor) e DEV (Devide ID), che rappresentano rispettivamente il produttore e il modello. Per risalire al nome preciso del pezzo si può usare l’archivio di PCI Database, mentre per trovare il driver adatto è sufficiente andare sul sito ufficiale del produttore e scaricarlo. Ci sono anche due software che possono aiutarci nell’operazione: uno è SIW System Info, l’altro è Sandra Lite. Autore: Pierluigi Emmulo |
Post n°717 pubblicato il 26 Giugno 2008 da giromapa
Limitare l'accesso ai farmaci di nuova generazione in nome del budget limitato del Servizio Sanitario Nazionale significa negare un diritto dei cittadini malati sancito dalla nostra Costituzione Repubblicana. L'accusa arriva dal Convegno "Farmaci innovativi", organizzato a Roma dall'Associazione Culturale Giuseppe Dossetti - I valori, che ha visto confrontarsi medici famosi, esponenti dell'industria farmaceutica e della politica. L'articolo 32 della Costituzione italiana tutela la salute "come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività; e garantisce cure gratuite agli indigenti", come pure numerosi trattati internazionali e documenti dell'Organizzazione Mondiale della Salute. Inoltre l'Italia nel 2001 ha ratificato la Convenzione per la protezione dei diritti dell'uomo e la dignità dell'essere umano riguardo le applicazioni della Biologia e della Medicina, che all'articolo 2 recita: "L'interesse e il bene dell'essere umano debbono prevalere sul solo interesse della società o della scienza". "Ma i problemi finanziari delle Regioni e il deficit pubblico che negli ultimi decenni hanno toccato livelli stellari, assieme all'impostazione aziendalista data alle istituzioni sanitarie, hanno portato a una forte contrazione delle risorse a disposizione per l'assistenza, pregiudicando l'efficienza del sistema e mettendo a rischio il diritto alla salute", fa notare preoccupata Ombretta Fumagalli Carulli, professoressa all'Università Cattolica di Milano e presidente dell'Associazione Culturale Giuseppe Dossetti - I valori. "La sottostima del Fondo sanitario nazionale non è più accettabile, né si può accettare che le Regioni, una volta ottenuti i fondi, continuino a 'sforare' sperando che lo Stato copra il deficit: sono cattive pratiche che portano solo indebitamento e incremento della spesa a carico dei cittadini". Ma il progresso ha portato nuove speranze: "Grazie alla scoperta di farmaci innovativi come quelli biotech, ci sono ora possibilità di cura per malattie la cui prognosi fino a oggi era nefasta", spiega la Fumagalli Carulli. "Limitarne l'uso e la prescrizione perché troppo costosi sarebbe tradire il dettato costituzionale e negare il diritto alla salute a persone malate. Ridurre gli sprechi e rilanciare il carattere universalistico del Sistema Sanitario nazionale sono le sfide che il nuovo Governo deve saper cogliere". david frati |
Post n°716 pubblicato il 26 Giugno 2008 da giromapa
La sua precisione è simile a quella dei laser utilizzati nella chirurgia corneale, ma le dimensioni dell’intero dispositivo non superano i 15 millimetri di diametro. La nuova frontiera della microchirurgia arriva dall’Università di Austin, in Texas, ed è un laser a femtosecondi capace di distruggere le cellule una ad una, lasciando completamente intatte le cellule circostanti. Si tratta di una tecnologia che potrebbe segnare una svolta nell’ambito della chirurgia oncologica, consentendo di distruggere anche le più piccole masse tumorali e con una precisione mai vista. Permetterebbe ad esempio di eliminare le singole cellule cancerose rimaste nell’organismo in seguito ad un intervento di espianto di una massa tumorale, oppure aiuterebbe i chirurghi negli interventi particolarmente delicati come quelli a carico del sistema nervoso o delle corde vocali. In più, le ridotte dimensioni dell’intero dispositivo consentirebbero di utilizzare il laser in ogni organo. Secondo Adela Ben-Yakar, principale artefice dell’invenzione, ciò tuttavia non è ancora abbastanza e nei prossimi tre anni l’autrice promette di restringere il diametro del dispositivo fino a 5 millimetri. Eguagliando così le dimensioni dei comuni endoscopi usati nelle ispezioni delle cavità corporee. Bibliografia: Hoy CL, Durr NJ, et al. Miniaturized probe for femtosecond laser microsurgery and two-photon imaging. Opt Express 2008; 16(13):9996-10005. stefano massarelli |
Post n°715 pubblicato il 26 Giugno 2008 da giromapa
Roma, 25 giu. (Adnkronos Salute) - Dal succo di olive in pillole un rimedio naturale contro la psoriasi, malattia della pelle che affligge due milioni e mezzo di italiani e ben 120 milioni di persone nel mondo. Sono positivi i risultati dei test condotti in Giappone con un integratore a base di succo di olive trasformato in polvere, grazie alla tecnologia americana ma con un 'papà' tutto italiano, lo scienziato Roberto Crea. Nato in Calabria, Crea vive negli Usa da oltre 25 anni, dove ha fondato la CreAgri Inc studiando e brevettando le proprietà benefiche delle olive. Da questo frutto, infatti, non si ricava solo il condimento principe della dieta mediterranea. "Ci siamo concentrati - spiega Crea all'ADNKRONOS SALUTE - sul succo e sull'acqua di vegetazione delle olive, un prodotto di scarto dei frantoi. E abbiamo scoperto che è invece preziosissimo, ricco di polifenoli, i biopolifenoli, 300 volte più presenti che nell'olio extravergine. Siamo riusciti a estrarli e trasformarli in polvere, grazie a una nuova tecnologia, sfruttandone così i tanti effetti benefici", sottolinea lo scienziato. I biopolifenoli hanno ''una potente azione antinfiammatoria, antiossidante e regolano il sistema immunitario, rafforzandolo. Nelle prove cliniche condotte in Usa e Giappone, prima sull'animale e poi sull'uomo, si è ottenuta la riduzione del dolore e dei gonfiori in pazienti con artrite". Non solo. "Sono in corso studi clinici - prosegue - in Giappone per testare gli effetti contro le malattie della pelle, in particolare la psoriasi. Su 10 pazienti, dopo pochi mesi, si sono ottenuti risultati sorprendenti sulle lesioni tipiche di questa patologia, altamente invalidante dal punto di vista psicologico". Potrebbe arrivare dunque dalle olive, e dal loro prezioso succo, una speranza per i pazienti con psoriasi, anche in Italia. Nella Penisola, l'integratore battezzato 'Olivenol' dovrebbe essere disponibile in autunno, o comunque entro l'anno. Una capsula contiene l'equivalente in polifenoli di un quarto di litro d'olio extravergine. "E si tratta di sostanze altamente attive anche a piccole concentrazioni", sottolinea il biochimico. Allo studio anche l'uso del succo delle olive opportunamente trattato per l'industria alimentare. "Si può aggiungere - spiega Crea - nel processo produttivo di cibi e bevande, per arricchirle di effetti antiossidanti e antinfiammatori". Gli sviluppi sono tanti, promette lo scienziato: "Si potrebbero produrre sostanze attive - ipotizza - contro l'invecchiamento, i tumori della pelle o altri danni dei raggi solari". |
Inviato da: diletta.castelli
il 08/10/2016 alle 13:30
Inviato da: scampipercena77
il 01/02/2016 alle 11:47
Inviato da: chiaracarboni90
il 21/09/2011 alle 16:22
Inviato da: adspy
il 16/03/2010 alle 22:33
Inviato da: luckystrike86
il 06/03/2010 alle 08:26