Creato da jo_march1979 il 28/01/2007

Signora mia

Mezze stagioni e altri teoremi

 

Messaggi di Luglio 2007

Nomen omen?

Post n°68 pubblicato il 31 Luglio 2007 da jo_march1979
 

Leggo sul Corriere online di oggi che una nuova tendenza prevede di assumere un esperto di nomi (definito nomatologo) che suggerisca un nome appropriato per un bambino in arrivo.

Pare infatti che il nome proprio sia molto più di un modo per non essere chiamati solo con "Ehi tu!": il nome connota la persona (e fin qui siamo tutti d'accordo) e, soprattutto, ne stabilisce il successo.

Statistiche alla mano, vari nomatologi sostengono teorie opposte:

a. I nomi insoliti, non tradizionali, stranieri affascinano, inducendo gli interlocutori di si chiama in un modo particolare a guardarlo con rispetto e considerazione.
Mi viene da pensare alle fanciulle inglesi upperclass che hanno nomi di divinità greche. La principessa Diana, per fare un celebre esempio, si chiamava come la leggiadra dea della caccia, e non c'è bisogno di dire che icona sia diventata.

b. I nomi insoliti fanno schifo: indispongono le persone e minano la credibilità.
Mi viene da pensare a una ragazza inglese che ho conosciuto in Siria. Figlia di un console britannico, era piena di charme e naturalmente elegante. Si chiamava Pandora.
Peccato che il suo nome, che in inglese suonava colmo come un vaso di riferimenti alla mitologia classica, in arabo (dove non c'è il suono "P", sostituito quando occorre da "B") suonasse fin troppo simile a Banadura, "Pomodoro". La povera fanciulla, inizialmente ignara di questa incresciosa omofonia, passò i primi quindici giorni a Damasco chiedendosi per quale motivo la gente si rotolasse per terra dalle risate quando, con la solita compitezza, si presentava.

Riassumendo, la teoria del nome insolito è un'arma a doppio taglio: può affascinare, o far fare grandi figure di cacca.

Però, mi chiedo, che teoria del nome può funzionare a Napoli?

Qui, accanto ai sempreverdi Ciro, Gennaro, Diego, Concetta, Annunziata e via di seguito, negli ultimi anni c'è stata una fioritura di nomi inizialmente percepiti come esotici.
Oggi però, se si va in una qualsiasi scuola, primaria o secondaria, chiamando "Natasha!!", è garantito che si girerà mezza scolaresca. Un mio vicino di casa, di 17 anni, si chiama Sasha e sono così abituata a sentire urlare il suo nome (dal settimo piano al portone, lui e i suoi amici ignorano l'uso dle citofono) che mi sembra il più naturale  e napoletano del mondo.

Finirà che, fra trent'anni, Napoli sarà piena di Jessica, Samantha, Natasha, Timothy, Sasha e il nuovo nome esotico sarà Diego?

 
 
 

Di matrimoni e (pre?)giudizi

Post n°66 pubblicato il 27 Luglio 2007 da jo_march1979
 

D’estate, si sa, arriva il caldo.

E arrivano gli inviti ai matrimoni.

Di ritorno da un tour tra Campania e Basilicata, dove ho osservato usi e costumi di vari sposalizi, butto giù qualche appunto su come rendere indimenticabile un matrimonio ai propri invitati.

 

1- Organizzare il fausto evento rigorosamente in una data infrasettimanale.
Attenzione a non scegliere lunedì o venerdì, perché gli invitati potrebbero trarre giovamento dal vicino weekend per organizzarsi senza dover prendere mille ore di ferie.

2- Scegliere per il giorno più bello della propria vita una chiesa sperduta, lontano dai centri abitati, difficile da raggiungere e possibilmente con un tratto di strada sterrata.

3- A parità di chiese sperdute presenti nella zona, scegliere quella più brutta e scomoda. Tra una fresca cappellina medievale dalle mura  affrescate, e una costruzione degli anni ’60 in cemento e vetro, prediligere quest’ultima.

4- Accertarsi che:

         4.a. Nel giorno prescelto ci siano almeno 35 gradi

         4. b. L’orrida chiesa anni ’60 sia vigilata da feroci monache da guardia  che impediscano fisicamente l’ingresso alle invitate con scollatura più profonda di cinque centimetri
di modo che le invitate entrino nella chiesa-serra così pudicamente coperte che gli sudano anche gli occhi.

5- Selezionare accuratamente il prete che terrà la cerimonia. Si consigliano un paio di giornate di provini, per essere sicuri di avere il sacerdote con maggiore talento per le gaffes (soprattutto se la sposa è incinta, o se si ha una storia familiare delicata).

6- Dopo la cerimonia nella chiesa sperduta, scegliere per il ricevimento un hotel-ristorante ancora più lontano. Privilegiare strutture con slogan improbabili, tipo Hotel X: il meglio che non si aspetta.

7- Far giungere gli invitati al ricevimento molto prima degli sposi, di modo che si apressino al rinfresco offerto ai bordi di una piscina. Attenzione però a non aprire il suddetto rinfresco finchè non arrivano i neo marito e moglie: si lascino gli invitati affamati a guardare bramosi mozzarelline fritte e olive ascolane.

8- Scegliere una sala esposta al sole tutto il pomeriggio, così da annullare il pernicioso effetto rinfrescante dell’aria condizionata.

9- Ove possibile, scegliere un ristorante con poca esperienza in fatto di banchetti di matrimonio, così che il servizio sia più lento e i cibi troppo o poco cotti.

10- E più importante di tutti. Non lanciare il bouquet alla fine dei festeggiamenti. Perchè illudere le amiche zitelle?

 
 
 

Della gaia scienza

Post n°65 pubblicato il 23 Luglio 2007 da jo_march1979
 

Ho trascorso lo scorso fine settimana dai miei: come al solito ho dedicato i due giorni alla lettura compulsiva dei giornali accumulati nelle ultime settimane. Al momento ho un po’ di confusione in testa: non ricordo più se il Governo è stato affossato in una votazione parlamentare dal voto contro di Corona e  se Anna Falchi era in spiaggia con Casini.

Mi è rimasto molto impresso però un articolo letto su Panorama del 5 luglio scorso (sorvolo su quello che penso di Panorama, limitandomi a dire che non so perché continuo a leggerlo). Il pezzo in questione, firmato da tale Camillo Langone era intitolato “Ma il futuro non sarà gaio” . Poichè è davvero mirabolante, ve ne riporto alcuni stralci in corsivo.

Nella foto: deprecabile bacio omosessuale

 tra il sen. di Forza Italia Jannuzzi e

 l'ex-ministro delle discoteche De Michelis

Il nostro Camillo Langone ha idee ben precise sugli omosessuali.

Prima di tutto, ne è assai preoccupato. Pare che i sodomiti (sic) in Italia siano milioni, destinati ad aumentare. Mi chiedo se qualcuno abbia spiegato al buon Camillo che non esiste il bacillo dell’omosessualità, e che qualcuno gli starnutisce accanto al massimo gli passa il raffreddore. Comunque Langone è uomo di cultura e sa sviscerare la questione gay da innumerevoli angolazioni.

 

a. Il problema dei gay dal punto di vista letterario.

Quando l’omosessualità si trasforma da vizio in diritto civile sono guai. Prima di tutto, l’omosessualità normalizzata uccide la letteratura: oggi non ci sono più Proust, Kavafis, Pasolini: i lettori preferiscono la turgida eterosessualità (giuro, ha scritto così) dei ragazzi di Federico Moccia.

 Federico Moccia messo sullo stesso piano di Proust. Devo aggiungere altro?

 

b. Il problema dei gay dal punto di vista linguistico.

Il lessico odierno è deprecabilmente ridotto dalle manie del politically correct: non si possono più usare termini classici della nostra bella letteratura quali pederasta, busone, finocchio o invertito. Tutte  parole usate da fior di autori: e oggi, pensa un po’, la gente si offende, scambiando per insulto la citazione colta dell’uomo di destra.

Il declino della varietà lessicale è preoccupante. Aggiungo io, già abbiamo dovuto rinunciare al pregiato latinismo  della parola negro, come privarci di altri  termini così rappresentattivi della nostra civiltà?

 D’altronde, chi conosceva poche parole e quindi poche cose era destinato ai campi, oggi ai call center (!!!). 

Invierò a Camillo un invito per visitare un call center a caso: gli innumerevoli laureati che vi lavorano avranno diritto ad una spranga di ferro e a cinque minuti di solitudine con lui.

c. Il problema dei gay dal punto di vista storico.

Il problema è, dice Camilo, che o il futuro è secondo natura o assomiglierà al declino dell’Impero Romano. Per farvela breve: l’Impero Romano non è caduto per una serie di ragioni storiche, politiche ed economiche. No. E’ caduto perché i romani erano diventati una manica di sodomiti, e non ne vollero sapere di rivitalizzare quelle virtù grazie alle quali conquistarono il mondo. Duemila anni di dibattito storiografico inutile: meno male che c’è Camillo che ci spiega tutto con metodo scientifico.

 

d. Il problema dei gay dal punto di vista economico.

Bisogna mettere al primo posto la famiglia e non il lavoro, per incoraggiare la nascita dei bambini e quindi il sano esercizio eterosessuale. Che per crescere i figli occorrano soldi e quindi lavoro, è un bieco discorso marxista.

 

e. Il problema dei gay dal punto di vista religioso.

Qui Camillo tocca il vertice della scienza: i Paesi con il più alto tasso di natalità sono tutti Paesi dove il tasso di omofobia è almeno pari a quello di fecondità. Questo dipende dalla sana educazione cattolica: chi si allontana dalla religone, zacchete! comincia a guardare gli altri uomini con sguardo concupiscente.

D’altronde, il futuro della religione va in direzione opposta a Sodoma (come dimostrano i milioni di risarcimento che il Vaticano sta elargendo alle famiglie di bambini vittime di preti pedofili) [...] Chi ha la fortuna di vivere in un paese dove il cattolicesimo ha forgiato leggi e coscienze non deve temere nulla.

No, certo: deve stare solo attento alle attenzioni del prete che fa catechismo al figlio.

 
 
 

10 regole per organizzare male un festival letterario

Post n°64 pubblicato il 13 Luglio 2007 da jo_march1979
 

Qualche giorno fa sono stata ad un festival letterario a Roma, per assistere al recital di alcune poesie che ho tradotto. Sono rimasta strabiliata dall’organizzazione dell’evento: in un paio di giorni ho appreso una serie di preziose norme, che vorrei condividere con il popolo della rete.

Il punto di partenza per affossare un festival è avere pretese eccessive.

 Il fine è ottenere il minimo risultato con il massimo sforzo.

Pertanto, chi voglia sabotare il suo stesso festival dovrà attenersi scrupolosamente a queste regole di base:

1- Dargli un nome pretenzioso e improbabile, inversamente proporzionale alla qualità degli eventi offerti. Un festival di bassa lega pertanto non sarà nazionale, o provinciale, ma intercontinentale.

2- Mentre si inventa un nome sontuosamente eccessivo, ci si premuri di non fare alcuna copertura pubblicitaria nelle settimane precedenti, per risparmiare.

3- Si formi l’ufficio stampa e lo staff organizzativo con fanciulle (sono più arrendevoli e affidabili) di età inferiore ai 28 anni. Lo scopo è pagarle quattro soldi e far fare loro cose per cui non sono preparate, senza un coordinatore, così da scaricare su di loro tutti gli sbagli.

4- Giunti all’apertura del festival, si organizzi una conferenza stampa che preveda più poltrone per i relatori che per i giornalisti. Il fine, oltre che assicurare la minima copertura mediatica possibile, è puntellare l’ego dei numerosi assessori ansiosi di parlarsi addosso.

5- Si prevedano nel programma solo punti pretenziosi. Nulla dovrà essere inferiore per magniloquenza a “Pace nel mondo “ e “Dialogo interculturale”.

6- Mentre si strombazzano i temi del festival (si veda il punto 5) ci si premuri di non assumere interpreti per gli ospiti stranieri, che  di conseguenza non potranno partecipare al dialogo interculturale.

7- Assicurarsi che gli eventi incomincino sempre in forte ritardo rispetto al programma. La puntualità sarà considerata un caso deprecabile.

8- Ricordarsi di chiedere l’autorizzazione per l’uso delle sale il più tardi possibile. In questo modo si eviterà di ottenere il permesso, e si sposterà tutto, all’ultimo momento (per garantire la riuscite del punto 7),in uno sgabuzzino senza finestre e microfoni.

9- Si escludano da interventi e recital poeti che non siano di sesso maschile (si sa, le donne al massimo possono fare la calza), e di età inferiore ai 70 anni, per evitare performances troppo vivaci che potrebbero scuotere il pubblico.

10- Ci si assicuri che attori e dicitori invitati a leggere le poesie abbiano uno spiccato accento romano. Ci si premuri di invitare graziose ragazzette scosciate e/o scollacciate, che distraggano dalla qualità dei versi.

Seguendo queste poche, semplici regole, il vostro festival sarà un gran fiasco. Probabile quindi che vi diano nuovi fondi per rifarlo l’anno successivo.

 

 

 

 
 
 

Di 5 strane abitudini (più una) che fortificano l'amore

Post n°63 pubblicato il 08 Luglio 2007 da jo_march1979
 

L’ultima blog-catena prevede che si descrivano 5 proprie cattive abitudini: la mia stima a tutti coloro che hanno avuto il coraggio e l’autoironia di mettersia nudo sulla piazza virtuale (in particolare a Manu_80.m, che ha scritto un post carino assai).

Riflettendo sull’opportunità di rivelare 5 cose che cerco di dissimulare (ovvero sull’opportunità di sputtanarmi), mi sono resa conto di non averne molta voglia, e che avrei trovato più gratificante fare qualche piccola variazione sul tema.

Di seguito elenco quindi 5 strane abitudini nonostante le quali continuo a fare progetti di vita insieme con il Colui (© del nome colui: Fayaway), in ordine decrescente di gravità:

 

1. Prima mi regala i libri, poi se li riprende “per leggerli” e non me li restituisce più

 (Piccolo promemoria: Amore mio, in questo momento hai Q e  Il Signore degli Anelli, che mi hai regalato tu; Pensiero greco e cultura araba, Opinioni di un clown e una grammatica araba che hai preso direttamente dalla mia libreria. Vedi un po' tu).

 

2. Lo scorso anno aveva il cellulare rotto, con il tasto di spegnimento e accensione sfondato. Invece di sostituire il cellulare, o quantomeno il tasto, accendeva il telefonino inserendo nel foro le chiavi di casa e ravanando finchè non riusciva a trovare il contatto. Indimenticabile quando lo fece per spegnere il cellulare a teatro, aspettando l’inizio del concerto di Giovanni Allevi.

 

3. Poiché il mio fidanzato è un ometto emancipato, si occupa senza problemi delle faccende domestiche. Poiché è una personcina gentile, dividiamo i compiti: se  io cucino, lui lava i piatti. Poiché è una personcina molto gentile, al mattino, mentre io tento di risollevarmi dalle brume del sonno, lui prepara la colazione e poi lava le tazze. Ma, in ognuna di queste occasioni, gli cascassero le mani se lava mai la caffettiera. Interrogato varie volte al riguardo, non ha saputo darmi una risposta soddisfacente.

 

4. Quando ha fame, mangia. Dov’è la cattiva abitudine, si dirà? E’ nel fatto che potrebbe non dico apparecchiare la tavola, ma almeno togliere la mercanzia accumulatasi sopra e non poggiare piatti e posate facendo slalom tra: cellulare, portafoglio, chiavi di casa, telecomando, quotidiani di 20 giorni fa, caricabatterie, borsa 24 ore ... eccetera.

 

5. Anche rifare il letto è contro i suoi principi. Quando poi  si decide non si preoccupa dei dettagli: una mattina ho scoperto di aver dormito con una copia del Signore degli Anelli (incidentalmente, mia) sul fondo del letto.

 

Detto questo, per equità – e per evitare di restare zitella - devo aggiungere che anche lui mostra infinito affetto nei miei confronti in svariate occasioni. Ad esempio quando, mentre si sta addormentando io lo sveglio perché sono ossessionata dal frastuono dal tic-tac del mio orologio da polso che fa tic-tac, o dall'insopportabile bzzzzz del led della televisione.

 
 
 

Di convegni e contegni

Post n°62 pubblicato il 04 Luglio 2007 da jo_march1979
 

Una decina di giorni fa ho partecipato per la prima volta ad un convegno di letteratura, ad Ischia. Un’esperienza interessante, più che per i risvolti accademici, per quelli umani: fuori dalle aule universitarie professori, dottori e dottorandi cambiano.

Il convegno si è svolto nel Castello Aragonese di Ischia, un posto a dir poco fiabesco. Organizzare in un luogo così bello un evento in cui numerosi relatori fanno variazioni infinite intorno ad uno stesso tema ha dei pro e dei contro. Da un lato si bendispongono i dottorandi cooptati  a partecipare per fare pubblico (se proprio tocca presenziare, meglio in un castello a  Ischia che in qualche lurida aula dell’Orientale). Dall’altro si rischia che i medesimi dottorandi cooptati, attraversando l’isola per giungere al convegno, vi arrivino con lo stesso brio dei galeotti verso le cave di pietra. O non arrivino proprio più, perché casualmente caduti nel mare trasparente di Ischia.

Una volta arrivati al convegno, si scopre che il dibattito di chiusura del giorno è stato anticipato all’inizio dei lavori. Ottima mossa per rompere il ghiaccio: costringere a parlare gente che non ha ancora capito perché è lì. La moderatrice si guarda intorno, invita a prendere la parola. Segue assordante silenzio. Lei comincia a guardare nella mia direzione, dicendo soavemente: “Invito a parlare anche chi si occupa di altre aree...- continua a guardarmi- ad esempio la letteratura araba...”. Pausa. Mi sentirei più osservata solo se avessi  una freccia fluorescente puntata verso la testa.

Mi tocca. Devo alzarmi e andare al microfono. In confronto a me i galeotti di cui sopra camminano facendo la coreografia di Singing in the rain. Biascico qualcosa.

Dopo qualche altra stentata domanda, il convegno ha ufficialmente inizio.

L’atmosfera è inizialmente sonnacchiosa, come in ogni conferenza che si rispetti. C’è però un interessante fenomeno: le sedie (da giardino, in plastica) tendono a schiantarsi a terra sotto il peso degli occupanti. Il primo a cadere è un tondo professore d’inglese che resta anche incastrato nei relitti della sedia (esattamente davanti a me). Pochi minuti la moderatrice elogia una professoressa: “Ringraziamo la prof. X”. Pramm! La prof. X precipita al suolo.

 Sarà questo il peso della cultura di cui si sente tanto parlare?

A quel punto temiamo tutti di schiantarci, per cui il convegno prosegue in un’atmosfera vigile: tutti monitorano l’equilibrio del proprio fondoschiena, adoperando incidentalmente l’alto livello di attenzione per ascoltare anche i relatori.

Dopo quattro ore di faticosi bilanciamenti sulle sedie, arriva il premio: cena su una terrazza del castello, a picco sul mare. Bello da togliere il fiato.

I gabbiani passeggiano sui tavoli. Le zanzare banchettano. I relatori torinesi si commuovono davanti ai pomodori al forno.

Nel corso della cena si chiacchiera, si scherza. Piano piano si palesa la tipica  perversione del dottorando: parlare male del proprio tutor, possibilmente seduto al tavolo accanto.

Dopo la cena, alle 21, è prevista una sorta di lezione-concerto. La cena finisce alle 23 inoltrate. Ci si appresta a lasciare il castello, quando arriva la notizia che il professore è pronto e scattante per la sua lezione musicale.

Con molto slancio ci si accomoda. In effetti la lezione è interessantissima, peccato che metà del pubblico stia cecando dal sonno; l’altra metà già dorme. Un professore alto e sottile come un insetto-stecco, misteriosamente caduto dalla sedia nel pomeriggio, ronfa beato, stendendo il suo metro e novanta sulla fragile sedia da giardino.. Si capisce come abbia fatto a schiantarsi anche se è più leggero di me. Quando parte la musica salta in aria, si guarda intorno e simula un colpo di tosse, come a dire “Non dormivo, macchè, riposavo gli occhi”

 

Il giorno dopo (40 gradi all’ombra) il mare ammicca beffardo ai prigionieri del castello. La vostra webmater, relatrice nel pomeriggio, ostenta sicurezza e progetta piani di fuga. L’atmosfera del convegno intanto si fa elettrica: l’arsura del giorno più caldo dell’anno è infuocata da un animato dibattito sul teatro francese del ‘600. Appassionante. Fortuna che la cena in terrazza mitiga gli animi a colpi di bicchieri di vino bianco.

 

Il giorno seguente mi scampo l’ultima mattina di convegno: l’aliscafo delle 8 da Ischia a Napoli usa come aria condizionata il vento marino.

Torno a casa morta di fatica, scottata dal sole preso nel tragitto dall’hotel al castello, contenta dell’esperienza e arricchita di una nuova consapevolezza: in fondo i professori universitari sono esseri umani come tutti. Solo più pesanti.

 

 
 
 

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