Creato da le_corps il 27/02/2007

punto sul rosso

il teatro il delirio l'oblio

 

 

Ah, le figlie le figlie...

Post n°204 pubblicato il 22 Ottobre 2008 da le_corps

Dico io per affermarmi, dico io e ripeto io perché mia madre da bambina mi riprendeva sempre e mi faceva sentire inadeguata: insicura, come mi ha suggerito con garbo la terapeuta.
Insicura, sì, ho ripetuto io con sicurezza.
Dico io sempre e con tutti, dico io prima di qualunque altra cosa e prima di tutti perché tutti sappiano dove sono e chi sono e che “io sono”, a prescindere da tutto e da tutti. Ma poi alla fine non prescindo mai davvero, io presumo di prescindere ma così non è, e lecco la mano di chiunque mi dica che ho ragione o che sono splendida o che ho delle belle tette o delle belle idee, e quando qualcuno mi dice brava, brava, così si fa, bene, hai ragione, mia cara, ragione da vendere, be’, solo allora io mi sento forte del mio io e allora con ancora più forza dico io, io, io. E lo dico come se posassi una pietra, la prima pietra, una pietra a fondamento di solide mura, le mura di una cittadella; e lo dico come se scolpissi i fianchi di un altare su cui risplendere, perché io risplendo solo così; e se nessuno mi parla se nessuno mi compiace o compatisce io non esisto e sto male e piango al telefono con la mamma, la mia cara mammina che c’è sempre, lei sì, è sempre con me quando ho bisogno. Ho provato a crescere a sua immagine e somiglianza ma qualcosa non ha funzionato, qualcosa s’è messo di traverso sulla strada dell’identificazione, dell’emulazione, qualcosa ha sbarrato il compimento della mia realizzazione, e quel qualcosa deve essere ancora in me, nascosto da qualche parte in me, mentre resto qui, ferma, ferma attorno al mio io io io al mio bisogno di distinguermi di sentirmi piena e potente, con tutte le mie idee sistemate e agganciate come strofinacci puliti e stirati, rigidi perché stirati, con tutte le mie conquiste da portare in alto come vessillo pericolante sulle teste dei passanti, degli interlocutori, che poi non è proprio un interloquire con le persone è più che altro un interloquire con me stessa, con quella parte di me bisognosa di conferme, le conferme della mamma, che non arrivavano mai, ed io sì che le aspettavo sera dopo sera assieme ad un bacio della buona notte ma neanche il bacio arrivava mai, ma io l’aspettavo, l’aspettavo comunque e intanto raccoglievo e mettevo da parte l’esempio di mia madre e le sue parole che mi si avviluppavano intorno come saliva, la saliva della mia mamma che voleva tutto il meglio per me, e non mi baciava mai ma mi stringeva con le sue braccia possenti e mentre mi stringeva mi sussurrava cose di un amore terribile di un amore mai più udito né provato: le sue parole filavano un bozzolo che mi riparava, un bozzolo più suo che mio, un bozzolo che mi sarei dovuta guadagnare infilando, nell’ordine, fatica e successo: un bozzolo da riscattare, sì, perché io, il bozzolo, me lo dovevo meritare!
Io io io, ma io non mi ritrovo più, io non sono più, fuori da quel bozzolo (che sto ancora pagando) io non sono, no, fuori non ci sono, fuori non ho confini né voce: che cosa terribile non aver voce.
Ed è per questo che se dico qualcosa la dico alzando la voce, facendola grossa, grossa e tagliente forse sprezzante, ma lo faccio solo per ricordarmi di aver voce, per immaginare di averla davvero una voce, ma poi, non sto qui a dirlo, ma poi è un dire più che altro a me stessa, mica agli altri.
Gli altri, gli altri; gli altri chi? Gli altri o mi blandiscono o non ci sono. Non mi interessano le loro ragioni, pertanto fingo di ascoltarli e rispondo come se li avessi davvero ascoltati: il come se è la salvezza dei miei giorni insulsi, fatti di passi falsi e di lunghe chiacchierate con mia madre che mi protegge, mi protegge sempre e mi dà tutte le indicazioni di cui ho bisogno, per orientarmi in questa vita senza confini, dove non ho voglia di ascoltare non ho voglia di dubitare: ciò che ho acquisito è inamovibile, ed è ciò che sono: qualcosa di solido e sicuro dove poggiare le mie gambe cedevoli e da cui lanciare la mia voce stentorea che mi ricorda tanto quella della mia mamma: abbiamo la stessa voce io e lei, anche se per il resto non ci assomigliamo granché, ed io mi sento impallidire al suo cospetto, perché ho fatto meno di lei e malamente, perché sono meno di lei, e peggiore non so, dopo tutto posso essere peggiore solo di me stessa, della me stessa che avrebbe dovuto riscattare il bozzolo. Ma no, non l’ha fatto; no, non ce l’ho fatta. E pago, pago l’affitto a mia madre, l’affitto di un bozzolo che non è mai stato finito che non è mai stato mio: colpa di questa mia saliva, saliva di pessima qualità: una saliva che evapora appena filata una saliva che non avvolge che non ripara, una saliva inutile. Come me. Non è vero, mamma?

 

 

Dove sono
 io
 c’è un meno
un meno in un
buco
un buco e un’attesa
immobile
e un vuoto
elastico
preso in prestito
tirate
tirate
tira
te
p
u
r
e
.
.
.

 

 

 
 
 

I bottoni di A.

Post n°203 pubblicato il 14 Ottobre 2008 da le_corps

La familiarità con la morte è una vertigine; la sfida con la morte è il mio solo pasto quotidiano: un pasto che mi affama e non mi ingrassa.
Mi illudo di conoscere il mio avversario mi illudo di essere io a condurre il gioco mi illudo di poter sopravvivere sempre, di un grammo o due sopra la morte, e mi diverte puntare su di me, e guadagnarmi l’attenzione l’affetto e la considerazione del prossimo saltando sul filo della morte.
Com’è il filo della morte? È un filo sfibrato sospeso nel vuoto, è un filo per capriole, dal quale appendersi a testa in giù o ciondolare con i piedi nel vuoto, è un filo da cui spiccare un salto in alto e su cui ricadere, e se sbagli atterraggio finisci nel vuoto, se sbagli atterraggio puoi solo sperare che il filo si intrecci ad un bottone per capriccio, allora tu sei salva, salva ancora una volta, e tutto per un bottone. È mia madre che me li cuce addosso: basta poco perché io muoia, lei lo sa, sa che sono diventata leggerissima, pelle e ossa, senza muscoli senza grasso e quasi senza organi: un involucro raggrinzito che un po’d’aria fa gonfiare, da dentro, un involucro che trema come luce tremante che sta per spegnersi, ma non è ancora spenta, che trema ma resiste, ed è una luce calda e ambrata che colora le superfici della stanza, a partire dal soffitto.
Appesa a un bottone divento luce, luce che trema. Ma c’è. E mia madre lo sa, e allora rinforza i bottoni con filo messo a doppio, con filo duro e spesso che le taglia la pelle delle dita quando lo spezza a mani nude dopo l’ultimo punto: lo spezza e fa un nodo ben stretto per assicurarsi che, semmai dovessi sbagliare atterraggio, ci sia un bottone saldamente cucito a salvarmi.
Mia madre ormai confida nei bottoni: si arma di ago e ditale e tutti i giorni controlla i miei bottoni, li stringe e annoda per sicurezza, a volte ne aggiunge qualcuno, su un polsino e perfino su un calzino: ho bottoni ovunque, ormai, anche sui calzini!
Fosse per mia madre, mi cucirebbe bottoni anche sulle braccia, sento che è questo il suo pensiero quando accarezza la lanugine delle mie braccia, e della schiena e del viso: ho una morbida e folta peluria su tutto il corpo: è la mia pelliccia, è la mia difesa contro il freddo, anche se ogni giorno che passa, e notte, sento sempre più freddo, e la luce che sono si fa sempre più tremula, e incerta, e mi pare di sentire uno stridore di fili consumati anneriti bruciati e allora chiudo gli occhi in attesa dello scoppio e della scintilla prima del buio.
Il buio finale, sì: la caduta e il vuoto che accoglie, questo vuoto che mi circonda e mi aspetta, questo vuoto morbido come un tappeto di morbido pelo, soffice come una coperta di soffici piume: la morte dev’essere questo: calore e morbidezza: uno scivolare infinito senza dolore, senza rabbia senza pianto: un nulla che abbia finalmente un senso: una assenza fatta di quiete, una quiete che è tutto, un tutto in cui fondersi, un fondersi senza urto e di pura materia.
Nella morte non c’è pensiero, no, nessuna tirannia: nella morte c’è l’unica vita possibile. Per me.
Per me che sono questa: questo mucchio di pelle e ossa: venticinque chili in tutto, bottoni compresi. Sono leggera come una valigia leggera, ma non ho gambe né rotelle. Sono leggera e immobile, tutta rannicchiata in un letto, a covare le ultime energie: il cuore è un grumo sfiancato, i polmoni una spugna rinsecchita, e intanto lo stomaco si sta chiudendo su di sé e presto si strozzerà e mi spezzerà in due mentre l’intestino si scioglierà e mi colerà dall’osso del culo.
Però sono leggera, ora. Se qualcuno mi sollevasse da questo letto e mi lanciasse fuori dalla finestra, forse non cadrei, forse mi involerei più in alto delle nuvole, con questo corpo leggero più dell’aria con questo corpo di gas, gas che ascende agli strati più alti del cielo; sì, sono leggera, estremamente leggera, e se proprio dovessi cadere, cadrei sicuramente più lenta di una foglia, e ondeggerei lungamente come una foglia descrivendo circoli nel cielo che tutti guarderebbero estasiati, tutti estasiati e col naso all’insù, per un tempo indefinito, a guardare la mia lenta discesa, una discesa senza fretta, perché la morte è così: quieta e senza fretta, quieta e senza tempo.
Io e il mio corpo di foglia: quando ci penso mi si stira la bocca, e un sorriso si fa largo tra le ossa, fin quasi a sgretolarle, le mie ossa friabili, le mie ossa di polvere.
Gioco con la morte come fosse un elastico: la tendo fino allo spasmo per vedere se resiste, se resisto, ed ogni volta la allungo un po’di più, sì, insomma, alzo la posta alzo il limite e lo supero; è una scommessa al ribasso, al ribasso di peso: meno pesantezza più leggerezza, allora tolgo cibo tolgo carne muscoli e organi, e rasento il perimetro della morte, e la seduco e mi avvicino a lei sempre un po’di più, ancora un po’, e le faccio uno sberleffo: sì, è il mio gioco: la invoco e la imploro, la scongiuro di agguantarmi, di prendermi, di farmi sua inghiottendomi e poi la ricaccio indietro, se è troppo vicina: le dico no, la prossima volta, se è troppo vicina; e la volta successiva la faccio avvicinare un altro po’, un po’di più, quasi bocca su bocca, tanto da sentire il caldo umido del suo alito, e la ricaccio indietro anche quella volta e quella dopo fino a quando la mia volontà di ferro (è la parte più pesante che ho) non si ammollerà, e allora non sarò più io a condurre il gioco a giocare con i confini, perché non ci sarà più nessun confine, perché io e la morte saremo un’unica cosa perché lei mi inghiottirà, e verrà il buio, il buio del suo ventre sterminato che accoglierà questo mucchio di pelle e ossa che sono, e questo cuore avvizzito e inutile, e stanco, troppo stanco per far luce.
Ed io tremo, tremo sempre di più, oscillo come luce tremula e incerta, e sento che lo scoppio si avvicina, e allora devo chiudere gli occhi e immaginare un volo, un volo soffice e infinito, un volo di quiete.
Se solo non ci fossero tutti questi bottoni legati a filo doppio ai miei pantaloni alle mutande e alle braccia, potrei fare un salto sul filo sbrindellato della morte e sbagliare atterraggio, sicura di cadere; se solo non ci fossero tutti questi bottoni che mia madre stringe a filo doppio, un filo duro e spesso che spezza a mani nude con la pelle delle dita che sanguina, e spezza con i denti, con le gengive che si feriscono; se solo non avessi bottoni dappertutto (ho bottoni anche al posto degli occhi!) e una madre che lega e stringe e mette punti e fa nodi, illudendosi così di salvarmi, con questo impasto di fili e saliva, di nodi e sangue; ecco, se solo non avessi bottoni dappertutto e una madre, ecco, una madre anche al posto degli occhi, io potrei…
Ma io a malapena mi muovo, sto qui ferma e immobile, ferma nel mio proposito di non mangiare di non tentare di non sperare di non far nulla, immobile nell’attesa di un fiato caldo, di una bocca sulla bocca che pian piano si apra e mi inghiotta, a partire dalla testa.

E allora non ci saranno né bottoni né madri a salvarmi.

 


Il mio cane è pelle e ossa, è stremato, a fatica solleva il suo scheletro a fatica inarca il suo dorso fatto di vertebre inanellate sporgenti pungenti. Il mio cane è pelle e ossa, è stremato e pesa 25 chili.

Ha gli occhi ancora grandi e liquidi, sebbene ciechi.

A. pesa quanto il mio cane, ora.

 
 
 

Vita con Vista

Post n°202 pubblicato il 09 Ottobre 2008 da le_corps

Ci vuole ordine
Ordine e pulizia
Ci vuole una vincita e un profitto
Ci vogliono azioni profittevoli, e allora
Ci vuole ordine
Ordine e pulizia
Nelle case nelle strade
Nei ricordi e
sentimenti;
ordino un ordine delle cose e delle persone,
per quel che valgono
per quel che vale
Ordino l’ordine secondo l’ordine prestabilito, stabilito prima, stabilito in
tempo per essere
ammirato esibito scambiato e digerito
magari cash magari selz
magari in un privé
un po’a te e un po’a me
un po’a me e un po’a te
Ordino un ordine e una scia
Una scia tutta da bere
Una scia fatta di
Macchina e lavoro
televisione e aperitivo
Una scia da sottoscrivere e seguire
E berla
Berla tutta
mescolata e shakerata
E berla
Berla tutta
Addizionata e lievitata
Macchina e lavoro
televisione e aperitivo
Su sedie di bambù
L’importante è che ci siano le sedie
di bambù
e i fuochi
di bambù
e le ferie
di bambù
ferie con vacanze
coda mare
Abbiamo un bellissimo appartamento coda mare
Abbiamo una bellissima spiaggia a due chilometri dal mare
anzi tre anzi quattro
è una spiaggia a chilometri forfait
un affare mare incluso
e menu bevande incluse
e menu sorriso incluso
E poi abbiamo sdraio e lettino ombra inclusa
e ombre per tutte le taglie
e taglie sulle nostre teste
E allora corriamo sfrecciamo e
Schizziamo
Su chiunque quantunque ordunque
Perché senza canoa non si può stare
in mezzo al mare
no senza canoa non si
può
Nel blu del mare

Anzi no
Nel blu dell’oceano

Oceano è meglio

Anzi no
Una piscina

è meglio
una piscina
Vista Oceano
ma che sia blu
tassativamente blu
poi detraiamo
poi condoniamo

poi vediamo
ché
visto l’oceano
hai visto
Tutto
Allora
ordino una scatola per pranzo
Ordino una scatola nuova
Una casa scatola
Una scatola lavoro
Una scatola divertimento
Acquistiamo scatole ristrutturiamo scatole mangiamo scatole
Tutto in scatola
Come il sesso
pulito e inscatolato
Automatico come il lavaggio
Come un lavaggio
Uno
Ho solo una moneta
Due sono troppi a due non ci
Arrivo
Ho solo una moneta

Per i giorni dispari
allora esco

oggi è pari

esco, Tesoro

Ho da lavare la macchina

Ho da rifinire un

Discorso

Con certi tappetini

Prestami una moneta

Tesoro

Indebitati con me

Col mondo

Oggi il debito

paga, Tesoro

Passami una scatola

Tesoro

Una scatola qualsiasi

dammi quella dei programmi

Tivvù o quella del pranzo

da mia madre
O del bucato

Da mia madre
Ché oggi c’ho la partita
Tesoro
La partita da
mia Madre
Che è partita
tesoro
In nave
tesoro
Una nave
Tutta Lusso pret-à-porter
Una nave inscatolata
Di latta cromata
con linguetta
e chiavetta

Una nave
Di programmi centrifugati
e lavaggi pre-pagati
E allora?
Sul ponte!
Tutti sul ponte
Alle nove nove in punto

Ché passa la spazzola
La spazzola del

Lucido
Alle nove
Nove in punto

Tutti lucidati
sul ponte
assieme al ponte

Tutti stesi
Sul ponte
Ché passa la spazzola
Del lucido
Del lucido di sugna
Del lusso di sugna
E ride
Mia madre ride
Quella donna insetolata
Quella donna invertebrata
Che salta giù dal ponte
Tutto lucidato
E ride
Tutta lucidata
E tocca l’oceano
Ridendo

Come un pesce
Come un mollusco
Vista oceano
Mamma
Vista oceano
E non…
Vabbe’non lo ripeto
Non te lo ripeto
Più
Ti sei buttata e te la sei
Cercata
Ed io ho la mia
Vita
E non la butto
e non mi butto
È una vita con giardino e
gazebo
anzi due anzi tre
con gazebo forfait
è una vita tutta mia
mamma
con moglie figli e gazebo
è un bel gazebo bianco
mamma
dovresti vederlo
dovresti provarlo
un bel gazebo forfait
tutto per me
ho una vita con gazebo
mamma
e scatole per ogni cosa
e cose tutte da provare
e da assaggiare
e da buttare
E poi ho una parete
mamma
una parete che regge la tivvù
e allora no
no, non posso chiedere di più
e poi ci sei tu
mamma
ci sei tu nella
tivvù    
ci sei tu
mamma
perché ti ho vista
e sei tutta blu
e sei tutta gonfia
mamma
ma ci stai
ci entri tutta
nella
tivvù
sei grande come la
tivvù
sei a misura di tivvù
mamma
e ci stai
ci stai tutta
e sei tutta da
strizzare
e sei tutta gonfia
con le alghe
appese e sei tutta
gocciolante
collo
caviglie
e orecchie
E le alghe ti fanno
languida
mamma
e ti fanno
bella

Sei proprio un pesce
mamma
un pesce tutto
blu
lo so
perché ho acceso la
tivvù
mamma
e c’eri tu
e c’era l’oceano
mamma
e l’ho visto
e t’ho vista
Ed eri
Blu.

 
 
 

Dispari

Post n°201 pubblicato il 07 Ottobre 2008 da le_corps

Mezza guancia è attraversata da un taglio, è una striscia non molto profonda ma una bella striscia rossa che risalta sulla pelle pallida. Se qualcuno mi chiede il perché di quello sfregio in bella mostra, rispondo che i gatti possono colpire ovunque.
Un’unghiata felina che poteva costarti un occhio! - mi apostrofano i più.
Già, dico io.     

Se solo avessi davvero un gatto, penso tra me e me.
Ma gli altri non lo sanno, non sanno nemmeno dove abito esattamente: appena fuori le mura, dico io (ma le mura girano tutt’attorno alla città), e vivo sola, aggiungo, per scongiurare domande d’altro genere.
Gli altri sanno ciò che vedono, ciò che riescono ad intuire vedendo ciò che io porto fuori, o meglio, ciò che io indosso fuori per coprire il dentro. Indossiamo segnali, è vero, li indossiamo nostro malgrado ma ciò che possiamo fare è confonderli. L’assenza di coerenza e la contraddizione possono a loro volta essere un segnale, e qualcuno potrebbe dire: quella ragazza è un coacervo di contraddizioni, è un’accozzaglia di indecisioni, un pozzo di indecifrabilità o, semplicemente, quella ragazza non ha stile, o, ancora, il suo stile è proprio nel non avere stile.
Di certo non possono dire ch’io parli poco. A me piace parlare, e ridere. E rispondo sempre a tutte le domande, a volte le ingoio, le domande, è vero, ne faccio un sol boccone, e l’interlocutore non si ricorda più che domanda aveva fatto o se aveva domandato qualcosa. Ma la discussione procede comunque, nonostante questi inconvenienti, questa stranezza delle domande inghiottite, disperse, smarrite, una volta formulate, ma poi chissà se erano state formulate davvero.
Vestendomi posso dissimulare le fattezze del corpo in una certa misura, posso giocare con le dimensioni del seno, con l’altezza, posso nascondere tatuaggi e cicatrici, e il colore della biancheria intima, così come il numero di nei che ho sulla schiena o tra le cosce, e la durezza dell’anca o la morbidezza del ventre. Posso dare ad intendere una cosa e l’altra, perché il mio corpo, se voglio, è ora una cosa ora un’altra, visto da fuori, visto ammantato, visto vestito ovvero rivestito.
E’un corpo riscritto, ad uso e visione degli altri che chiedono indagano sondano e spiano, ma senza convinzione senza spregiudicatezza.
E’un corpo aggiustato, rattoppato, camuffato, perché dica meno di quello che direbbe, perché lasci credere quello che non è o quello che è molto distante da ciò che è. Tanto la verità non interessa; tanto preferiscono al vero, il credere che sia vero. Il vero è non necessario, non utile alla comprensione non utile all’interazione sociale: il vero non porta alcun valore; anzi, il vero può essere disturbante. Il vero della realtà, e il mio corpo è reale, è fisico, è carne, è qui; e il vero dell’onirico, e le mie idee e le mie immaginazioni hanno sostanza del vero pur essendo immateriali, ma sono il principio formatore della materia stessa.
Oddio, non so più quel che dico, ed ho perduto un guanto, forse mi son persa proprio a causa di questa mancanza: ora sono irrimediabilmente asimmetrica, senza un guanto, e se ne indossassi uno solo qualcuno potrebbe chiedersi perché e potrebbe chiedermi di sfilarlo per vedere sotto cosa c’è.
Ma cosa vuoi che ci sia sotto? Una mano. Delle dita. Un palmo. Un polso. Tutta roba regolare, denunciata e dichiarata, tutta roba mia, roba del mio corpo, che ricopro e proteggo e ammanto come voglio come meglio credo che sia. E finché sono io a decidere come e se vestirmi, il mio credere vale sopra ogni altra volontà di credere, e ciò che è giusto lo decido io.
Perché dovrei togliermi questo unico guanto? Solo per dare soddisfazione alla tua morbosa curiosità, solo per concedere una risposta alla tua domanda? Ma la domanda l’ho già inghiottita, assieme a questo boccone di torta al limone.
Ma l’altro guanto dov’è? - mi chiedo tra me e me.
Qualcuno me l’ha nascosto per farmi uno scherzo, per farmi tremare di paura, perché una cosa persa dimenticata è come un buco perso dimenticato, dunque pericoloso, che può risucchiarti in qualsiasi momento, allora per non rischiare di cadere stai ferma immobile, sperando che non si apra una voragine proprio sotto il tappeto sul quale hai incollato, per sicurezza,  la tua schiena. Ma il timore dell’insicurezza può agguantarti ovunque e in qualunque momento, soprattutto se hai perduto un guanto: non si è più al riparo senza uno dei due guanti! Ma cercarlo non darebbe frutti, anzi, guai a cercarlo! perché il guanto disperso è un’esca, un’insidia, un invito a cadere nel buco, ed io non posso abboccare, se lo facessi qualcuno potrebbe dire: c’è cascata, c’è cascata! È cascata nel buco del guanto. Ora rubiamole qualcos’altro. E facciamola disperare. Che brutta parola, rubare. Va bene, allora: nascondiamole qualcos’altro. Ma anche disperare è una brutta parola, ma loro non se ne avvedono. E dicono: miniamo il suo bisogno di simmetrie, la sicurezza che le dà il paio il due il pari; gettiamola in un mondo dispari, che poi è il mondo. Ma lei non lo sa, e si ostina a voler pareggiare i conti e a stare nell’ordine del 2 e dei suoi multipli: senza resti senza avanzi senza esuberi senza difetti.
Ad ognuno il suo mondo vorrei obiettare io, e schermirmi, ma ho una mano offesa, priva del suo guanto e allora non posso difendermi, sono indifesa imbelle inerme in balia di un dominio impari, del dominio dei dispari, sono in disequilibrio numerico, algebricamente spacciata.
L’1 tiranneggia il mio essere, quasi mi fa soffocare, e allora mi incollo al tappeto ma non basta, perché sento il pavimento cedere da un lato, e un occhio scivolarmi dalla faccia, e mezza faccia scivolarmi assieme all’occhio, o viceversa, ed io vorrei trattenerla e ricomporre la simmetria del mio corpo, ma non riesco: da una parte scivolo, dall’altra sono paralizzata. Eppure una volta la mia polarità funzionava benissimo, e mi teneva in equilibrio, una polarità appagante fondata sul due.
Ma ora c’è solo l’1, e niente può devastare come o più dell’1, questo dispari insolente in quanto primo tra i dispari e primo tra i primi, questo dispari pieno di sé, che si regge benissimo sulla sua unica gamba.
Un’unica gamba? Ma è impossibile per me. Senza una gamba come faccio dove vado? Eppure dopo il guanto ho perso anche quella, ecco perché mi ritrovo distesa incollata al pavimento, e dopo la gamba, la faccia: metà della faccia è scivolata via. Ed io mi ritrovo asimmetrica, dunque. E’questo, dunque, il mio destino? Eppure pensavo che il 2 mi avrebbe sempre accompagnata e rassicurata. Pensavo che…
Ma ora non c’è più tempo per pensare. Devo uscire, i colleghi mi aspettano, con le loro domande da inghiottire e i loro sguardi da imbottire. 

 

 
 
 

Esercitazione da Balestrini

Post n°200 pubblicato il 02 Ottobre 2008 da le_corps

Ma voi vi credete davvero che tutta questa bella roba noi ce la mangiamo o che ce la vendiamo al mercato per qualche lira per fare i morti di fame a pesche e pomodori che sono pure belli è vero ma non fanno i soldi fanno solo lavoro e lavoro lavoro senza soldi e allora che lavoriamo a fare ad alzarci col buio a sudare in mezzo alla terra come  bestie attaccate solo per qualche lira solo per fare i pezzenti è un lavoro che non ha senso è una fatica sprecata e tu sei un morto di fame che non tiene cervello se vai a faticare la terra manco fossi un animale invece tu il cervello devi fartelo camminare i fessi esistono per essere fottuti dice mio padre e allora fottiamoli dico io così quando arriva il giorno di andare al centro di raccolta chiamo qualcuno degli amici miei di quelli pesanti inquartati di quelli dal quintale in su li passo a prendere col camion a rimorchio e ce ne andiamo tutti al macero perché noi del clan ci facciamo i favori e una mano ce la diamo sempre è questo il bello del clan siamo tutti fratelli fratelli di sangue e se tu sei fratello di sangue a uno sai che quello non te la punta una pistola alla testa almeno tra ragazzi è così sai che quello si taglia pure una mano se ti serve e pure tu gliela dai perché noi del clan siamo una famiglia una famiglia vera che sa come va la vita e non gliene frega un cazzo della morte la vita la devi spremere e devi prendere tutto quello che puoi così quando la morte arriva tu l’hai già fottuta e poi la morte è anche giusta cioè è necessaria perché se sei un infame devi morire ammazzato e tutti ti devono vedere mentre te ne stai a faccia a terra col sangue che ti esce pure dalle orecchie ammazzato come un cane sì perché il clan deve farli fuori questi pezzenti di merda che pensano di fotterti loro a te questi pezzi di merda

Il macero è un bell’affare è una cosa pulita nonostante la parola nonostante il posto e la puzza dei quintali di frutta messa a marcire tanto chi se la mangia quella frutta tanto tutto deve diventare soldi business come dice mio padre e il business è per chi tiene la testa e non si fa fottere perché se tu vuoi vivere bene devi averci i soldi ma tanti soldi e senza faticare tanti soldi senza sforzo perché se ti sforzi vuol dire che sei un fesso un coglione e allora nemmeno te li meriti tutti quei soldi e i soldi sono tutto se tieni i soldi puoi dire alla gente che si puzza di fame quello che deve fare e come lo deve fare tanto i pezzenti sono dappertutto e aspettano solo di essere comandati perché sono pecore sono vigliacchi e non sanno manco tenere in mano un fucile e allora possono solo tenere la testa bassa e dire di sì e dire di sì se bisogna andare tutti al macero così noi ci facciamo i soldi tanti soldi i soldi ce li facciamo mandare dall’europa che sembra che l’hanno inventata apposta per noi l’europa una bella vacca da spremere e mio padre se la ride e pure io appresso a lui e faccio finta di succhiare

L’affare del macero lo gestisce mio padre e i miei zii del clan ed è un bell’affare di quelli tutti regolari puliti di quelli che si vede chi comanda perché i soldi sono importanti è vero ma il potere è quello che conta ed io ce l’ho il mio potere quando vado al macero col mio rimorchio e vado dritto al cancello ed entro davanti a tutti e poi scarichiamo pesiamo e ce ne andiamo con la tasca piena con quelle facce di poliziotti che sono amici nostri e che ti dicono salutami tuo padre e quando dicono tuo padre l’occhio gli va alle mie scarpe perché hanno già capito chi comanda qua qua è una bella zona ed è tutta di mio padre e dei miei zii e allora io passo dritto sul mio rimorchio e al primo giro porto frutta della bella frutta eh e ai giri dopo porto ferro sì avete capito bene ferro noi qua ci facciamo pesare il ferro e pigliamo i rimborsi per le pesche i rimborsi dall’europa chilo per chilo senza farci scappare niente e ci pesiamo pure io e gli amici miei e così pigliamo questi rimborsi per ferro e grasso a quintali e per quattro pesche ma belle eh davvero belle e quando al macero passo dritto c’è una fila di trattori fermi a sinistra una lunga fila di trattori con sopra i contadini morti di fame che stanno a marcire pure loro in attesa di entrare quei pezzi di fessi stanno lì per giorni zitti e buoni con le loro cassette belle ordinate e riempite una sopra l’altra con tanta bella frutta vera che quando arriva alla pesa fa già schifo e puzza da farti rivoltare le budella me l’ha detto un poliziotto che sta lì per il controllo eh sì ci sono i poliziotti e pure i funzionari dello stato perché ve l’ho detto è tutto pulito tutto regolare perché noi il business lo sappiamo fare

Ci sono quelli delle commissioni che si pigliano la mazzetta della giornata e la sera li portiamo pure a mangiare nei locali e tutti siamo contenti ci sono poi i poliziotti che arrotondano con i contadini in fila per entrare si fanno dare qualche centone per farli stare tranquilli dicono loro e fanno proprio la figura dei morti di fame ma almeno hanno capito il sistema e ci provano a sfruttarlo insomma vanno da questi contadini morti di fame per davvero e gli chiedono un centone e quelli glielo danno perché così pensano di entrare prima e che va tutto liscio dentro ma alla fine se ne vanno con le fave secche nelle tasche come erano venuti e se le mangiano mentre se ne tornano a casa perché quella è la loro vita e se la sono meritata

 
 
 

Se tra le tue gambe.

Post n°199 pubblicato il 25 Settembre 2008 da le_corps

Se tra le tue gambe si aprisse una fica, io saprei cosa fare; se tra le tue gambe si aprisse una fica, io potrei anche morire, con la bocca caduta nella tua fica, a inghiottire umori a leccare sapori, con la lingua perduta nella tua fica, voragine filamentosa e calda, voragine improvvisa tra le tue gambe spaccate e magre, e le tue cosce sode tese pelose. Peli morbidi e soffici, peli di uomo, di uomo delicato che sei, tu e le tue cosce tese, e soffici, che si spalancano lente e in mezzo hanno un risucchio, un risucchio di carne molle e bagnata, bagnata da un mare profondo e scuro un mare spumoso con al centro un vortice. Se tra le tue gambe di uomo che sei, si aprisse una fica, io saprei come fare. Ti farei ricordare di quand’eri donna, quella donna che eri e che sei: aperta e liquida, con la fica protesa e i pugni stretti, stretti su di me, da donna a donna, da donna che mi fa sua e mi possiede, da uomo che si ricorda e si allarga e si allaga, con quella sua fica piantata al centro delle gambe con quella sua fica conficcatagli nel pube dalla notte. Questa notte che ti schiude le labbra queste labbra insalivate e sfatte da troppo desiderare, ora, ora che l’oblio s’è ritirato e il ricordo s’è piantato lì tra le tue gambe, e ti è colato a fondo sempre più a fondo, dentro questa meraviglia di fica che hai che sei che ansima ed esala un lamento, un lamento di uomo, di uomo che sei, con le tue cosce sode e i peli soffici e i fianchi morbidi, ma stretti, perché tu sei uomo ed io non posso ingravidarti ma leccarti leccarti sì e inzuppare la mia lingua nella tua fica notturna e delicata, nella tua fica di uomo che si apre solo per me. Solo per te, e nell’aria scura risuona il tuo lamento come canto, e promessa, e turbamento del creato. E così io ti genero, con la faccia sprofondata nel tuo ventre allagato, e così tu mi generi, con la tua fica di uomo che mi divora.

 
 
 

Esercitazione da Malerba

Post n°198 pubblicato il 25 Settembre 2008 da le_corps

La donna gli offriva la sua schiena nuda ed esposta, adagiata su un fianco. Respirava in modo regolare come se dormisse come se sognasse, un giro in barca una barca in alto mare e un mare di pesci e conchiglie, di stelle marine e fondali sabbiosi. La linea dell’anca era un profilo di duna, sabbia morbida e volatile, da toccare e annusare prima che il vento s’alzasse. La linea dell’anca era un lungo ragionamento sull’impermanenza della vita. E sapeva di sale, la lingua non mentiva. E sapeva di pietre cotte al sole e ciottoli bagnati e lucidati dalla risacca.
 La donna gli offriva la sua schiena nuda e respirava profondamente, respirava assorta come se contasse conchiglie. Lui le sollevò i capelli, e trovò sul collo un nodo.  Un nodo grossolano da sciogliere con un dito. Un nodo messo lì come indizio. E lui era bravo a leggere gli indizi, a comporre il quadro delle prove a decifrare i segnali. Scioglimi, sussurrò il nodo. E lui ubbidì.
Ora anche il collo era nudo:  l’anca di lei ebbe un sussulto. Come una duna che si apprestava a cambiar sembiante, pensò l’uomo, e quel pensiero guidò la sua mano a sfiorare la risalita del fianco, un fianco caldo che esalava pensieri marini. La sua mano si fermò e premendo il fianco diede all’uomo la spinta per affacciarsi al viso della donna e sussurrarle qualcosa. Qualcosa tipo una voglia qualcosa tipo un giro in alto mare con tutto quel mare che c’era, lì, nella stanza, e con tutti quei pesci che erano lì ad osservare.
La donna aprì un occhio, guardò il mondo tra le ciglia, e disse no: ho da fare, no: ho ancora molte conchiglie da contare; la donna richiuse le ciglia e aspettò. Aveva il respiro di lui sulla bocca ma sembrò non curarsene.
Il respiro di lui era un respiro profondo e calmo tipo di bestia che ascolta l’orizzonte in cerca di un fruscio, un fruscio di preda.
Lei era la sua preda assopita, con la schiena offerta e il collo, quel suo collo liberato che lui rimirava, e rimirandolo si ricordò del nodo appena disfatto e si soffermò sulla facilità con cui i nodi di lei si disfacevano: per mano di chiunque, forse. Come tre anni prima, come quella volta in cabina o in alto mare come quella volta che lei nuotava e rideva con quel tipo peloso, dal muso di uccello, che attentava a tutti i suoi nodi. Era accaduto tre anni prima sulla spiaggia di Kursaal: era una domenica.
La sua memoria era ferma e netta, e lui aveva fissato ogni particolare di quel giorno: i suoi nervi tesi e la mandibola serrata mentre osservava le nuotate del tipo peloso assieme alla sua donna, alla sua Miriam.
Miriam l’aveva conosciuta solo l’estate successiva, è vero, ma un tradimento è un tradimento: il tradimento non conosce barriere temporali, e predilige la retrospettiva.
Ripensò a quella domenica: era lei, era sicuramente lei, era già lei; ripensò a quella domenica di tre anni prima mentre osservava quel collo liberato con troppa facilità.
Si accostò all’orecchio di lei e le disse: “chi era quell’uomo peloso sulla spiaggia di Kursaal?”.
La donna ne aveva contate 167, di conchiglie tutte di foggia diversa, quando sentì pronunciare Kursaal e ripetere Kursaal, sì, a Kursaal tre anni fa.
Pensò che ci fosse un errore un equivoco, e perse il conto. Intanto il corpo di lui premeva sul suo.
Le sembrò naturale resistere, e resistette.
Lui la incalzava chiedendole di un tipo, di un tipo peloso con uno slip stinto che aveva approfittato di lei in una cabina, una domenica di tre anni prima sulla spiaggia di Kursaal.
Lei protestò la sua innocenza, ma più protestava più la voce di lui le ghermiva il collo e più la ghermiva più lei si difendeva, negando. Perché lei era forse stata a Kursaal, ma mai con un uomo peloso. Ma lui diceva di sì, che se lo ricordava bene, che era peloso e col muso di uccello e che lei era lei, e che lui le slacciava il nodo sul collo per approfittarsi di lei e che lei lo lasciava fare, quell’uomo dal muso di uccello, quell’uomo peloso che infilava le sue mani pelose ovunque e la sua lingua, anch’essa pelosa, nei nodi di lei, per scioglierli e poi berla, berla tutta.
E lei, Miriam, non opponeva resistenza, perché lei, la sua donna - sacrilegio!, la sua donna sostava nella cabina con quel tipo oltre il conveniente oltre il decoroso togliendo ogni dubbio sulla sua lascivia perché lei, sì, lei, la sua donna l’aveva tradito.
Miriam sentiva il fiato di lui insinuarsi in ogni poro della pelle ed ebbe un sussulto, e ancora protestò di non ricordare, protestò la sua innocenza, e più protestava più sapeva di alimentare la rabbia di lui e di nutrire la sua insistenza e i suoi dubbi e l’ossessione del suo ricordare.
E se avesse ragione lui? Questo pensiero le attraversò la mente, e intanto il suo corpo cominciava a sudare. Che lui avesse ragione e l’avesse scoperta? Sì, a Kursaal poteva esserci stata, anche tre anni prima, era plausibile, sì, ma lui, lui l’aveva conosciuto l’estate successiva, di questo era certa, e allora doveva negare, negare e ancora negare, ad ogni sua domanda ad ogni suo incalzare: doveva semplicemente negare. E lui sì che la incalzava e lui sì che premeva: era parola che si faceva corpo, corpo che risuonava.
Intanto lei sudava, e si sentiva stremata, come sotto una sacra inquisizione, i particolari che lui metteva nel racconto facevano vacillare le sue certezze, le certezze di donna fedele e schietta, di donna fedele al suo uomo, di donna offerta solo a lui. Resistere, solo resistere: a quelle pressioni verbali, a tutta quella pressione con cui lui voleva inchiodarla alla sua natura finalmente rivelata di donna disdicevole di donna sporca e traditrice.
Ricordo che portavi un due pezzi rosso stinto, ricordo che eri tu con lui sulla spiaggia ricordo anche la tua lingua che parlava con la sua e le vostre lingue che si promettevano cose oscene di là in cabina – lui rievocava quel fatto con precisione e crudezza. Perché lui era così: implacabile, e crudo. Perché lui era un inquisitore, l’inquisitore, e lei la sua inquisita, e perquisita e requisita.
Troia, le disse.
E lei ebbe un sussulto più grande, la sua anca balzò in aria come pesce che guizzava, e lui capì che la stava finendo, che a breve lei, quella troia che giaceva nel suo letto offrendogli la sua schiena nuda e il suo collo profanato, avrebbe ceduto, e finalmente confessato: sì, sono una troia, ero io quella domenica sulla spiaggia di Kursaal, ero io in quella cabina con quell’uomo peloso, perché è vero, mi hai scoperta, mi hai scoperta col tuo fiuto con la tua logica indiziaria che non dà scampo, ed io ora scampo non ho, io che sono troia, proprio come tu dici. Sì, ero io quella domenica in quella cabina, a fare cose indicibili tra i peli di quell’uomo, quell’uomo dagli slip rosso stinto, quell’uomo dal muso di uccello.
Quella confessione era imminente, lui lo sentiva, e le sue vene pulsavano e il suo cuore si gonfiava e si gonfiava, sì, lui l’aveva scoperta.
Aveva scoperto che era una troia quella che giaceva nel suo letto, aveva scoperto che nel suo letto giaceva una donna meravigliosamente troia.
Lei sentiva il fiato denso di lui farsi vischioso sul suo collo e sulla sua schiena, sentì che era il momento di ricordare tutto, sì, la verità era vicina, era lì a un passo pronta a farsi agguantare, e ingoiare e digerire.
E allora esplose: sì, è vero, ero lì quella domenica, su quella spiaggia, ero io, lì, con il mio due pezzi da troia, con la mia schiena da troia, perché io sono troia, e sono la tua troia.
Il cuore gonfio di lui esplose, e fu un’esplosione deflagrante: una spettacolare demolizione.
Come da copione.   

 
 
 

Stanza numero zero. Stanza del cerchio.

Post n°197 pubblicato il 23 Settembre 2008 da le_corps

Gli dico va bene usciamo, mi lavo mi vesto mi trucco con precisione e infilo le scarpe col tacco: se i miei passi risuonano so che sto camminando, se i miei passi risuonano so che sto andando.
Gli dico va bene usciamo perché per me una cosa vale l’altra, una sera vale l’altra, un corpo vale l’altro, ma i passi devono risuonare ogni volta che poggio un piede a terra ogni volta che mi sposto da una parte all’altra: dal letto all’armadio, dall’armadio al bagno, dal bagno alle scale al portone al viale, e poi alla macchina: sportello. Che apro e poi richiudo, ma senza suono: solo i miei passi risuonano e mi dicono che sto andando. A spasso, nell’indifferenziato.
Regola numero 1: io sono senza passato.
La regola numero 2 è: chi è senza passato abita in una stanza vuota, cioè: io abito in una stanza vuota, e devo farmi un giro da sola nella mia stanza vuota almeno una volta al giorno per ricordarmi come è fatto quel vuoto, ripassarlo con gli occhi e berlo tutto cogli occhi, e ricordarmi così cosa significa essere senza passato, senza eredità, senza bagaglio.
Io sono senza passato né bagaglio, e a volte è un po’dura vivere così, ma non conosco altri modi: il passato non esiste, il passato è regolarmente abbattuto e spianato, esiste solo la mia stanza vuota. Vuota, sì, e la gente non ci crede, mi guarda e mi sorride, un po’furbamente, come se fossi io la furba come se giocassi io a fare la furba, e invece i furbi sono loro, loro vogliono fare i furbi con me pensando di usare un sorriso per insinuare il sospetto nelle mie affermazioni: ma io affermo ciò che è; io non invento nulla, come potrei inventarmi il vuoto? Come potrei darlo a vedere? Il vuoto c’è, non si può non vederlo: regola numero 3.
La regola numero 4 è che io non cambio mai: il cambiamento è un’illusione con cui fare soldi.
La regola numero 5 è che a me di far soldi non me ne frega nulla,tanto meno ingravidarmi di illusioni o altro (a scelta). Accettare la mia sterilità: corollario della regola numero 5 (corollario importante da non sottovalutare: avvertenza per l’altro).
Queste cinque regole, o regolette, non devono essere ricordate per forza, appuntate su un foglio o imparate a memoria.
In fondo basta tenere a mente la regola numero 1, la regola fondante: io sono senza passato.
In fondo basta vedere questa stanza tutta bianca e vuota, dove io sono, indiscutibilmente sono, da sola assieme a nessuna mancanza: ci sono io e una mano di vernice fresca, ma sempre asciutta, vernice inodore, una mano di vernice che è sempre la prima: non ci sono strati, sotto: garantisco.
Non c’è un qualcosa (o un tutto, fate voi, dipende da quale senso usate per vivere: se è il gusto, e dunque la vita la mangiate la ingurgitate servendovi della bocca, allora per voi è un tutto, e vi invito a leggere tutto), dicevo: non c’è un qualcosa (o un tutto) che è stato ricoperto, e che è pronto a riaffiorare o trasudare, in superficie, dagli strati sepolti.
Non ci sono cadaveri, in questa stanza: è questo che intendo. Non ho riverniciato per nascondere il sangue, non ho passato del bianco per cancellare tracce e impronte dai pavimenti o per riempire buchi nelle pareti.
Gli dico va bene usciamo, anche se è tardi anche se fa freddo e non ho messo le calze; usciamo, sono pronta tra cinque minuti, usciamo perché è l’unica cosa che so fare: camminare fino alla macchina, aprire lo sportello sedermi senza guardarlo e posare la borsa a terra tra le gambe. Sono pronta, andiamo; sono pronta, pronta a dire cose stupide con voce chiara ma strozzata, con voce che nasce dalla gola che nasce tutta in superficie (voce di pessima qualità umana, ma umano e vuoto non si accordano granché, dopo tutto), una voce che risuona però come voce gentile nell’abitacolo della macchina, a volte è metallica ma sono solo punte, punte di metallo che non disturbano: basta non leccarle; è una voce che non riscalda ma riempie, è una voce che fa il pieno, e tanto basta: il pieno rassicura, come se scacciasse il vuoto. Come se.
E infatti il vuoto è sempre lì: negli occhi tra le dita dei piedi nella bocca sotto le unghie e dietro l’orecchio, che non ascolta, che non può, in tutto quel rumore che la voce fa mentre cerca di fare gentilmente il pieno mentre cerca di dire che è normale, di dirti che va bene, va bene così: è quello che sai fare, e lo stai facendo.
Tutto è uguale tutto è indifferenziato, mentre esci, e vai, e i tuoi tacchi fanno rumore, così, per farti sentire il vuoto, per rammentarti la tua vuota presenza nella tua stanza vuota, perché da lì, dalla stanza, tu non ti sposti mai, nemmeno quando esci e cammini, sì, anche quando esci e cammini sei lì dentro, nella stanza vuota, anche quando guardi qualcuno e lo guardi negli occhi sei lì, nel bianco della tua stanza, e non importa di che colore l’altro abbia gli occhi e non importa che sapore abbia il suo fiato i capelli o la pelle, perché tutto è vuoto e bianco, perché tutto è pieno di un rumore che fa silenzio, perché tutto è come tu lo conosci ed è vero, e non fa sconcerto; perché tu sei come tu ti conosci, ed è un’armonia perfetta a cui bastano solo cinque regole, le tue cinque regole di cui non puoi fare a meno perché non puoi fare a meno di te stessa.

Chi voleva un pezzo autobiografico, l’ha avuto. Bene.  
Proseguiamo.

C’era una stanza bianca e vuota, c’era uno sguardo crudele e una volontà di distruzione, c’era uno sguardo distolto e cieco, dei legami soffocati dei raccordi tagliati; c’era una stanza di protezione e offesa, pulita e asettica: la stanza dell’assenza, dell’oblio, del patto con l’incapacità. C’era una stanza bianca come la paura, come la morte, una stanza vuota dietro i sorrisi e le facce buffe dietro i giochi di voce e di luce, c’era una stanza desolata dalle spesse pareti, una stanza che sopiva e azzerava, che aveva un’unica forma, di linea liscia piatta continua: una lunga stanza grattata e riverniciata: nuova, ogni volta nuova, una stanza senza passato senza presenze senza ricordo. Una stanza tutta bianca e vuota.
C’era una ostinazione a tacere, a digerire tutto a far sparire tutto, a perdersi e a odiare, odiarsi; c'era una pervicacia nel mentire, a se stessi, a se stessi: esiste stupidità maggiore? La menzogna imbianca le pareti di bianco assieme alla paura: esiste condanna più assurda? Una vita spesa a imbiancare una vita spesa nell’essere sospesa: nessun impegno nessun dolore nessun coraggio.
C’era una stanza bianca e vuota, una volta.
Poi la stanza inizia a prendere colore, il bianco si sgretola, le pareti si fanno friabili: la stanza inizia ad aprirsi a farsi spazio smisurato a farsi mondo, mondo da abitare, con poco con niente, a parte un po’di coraggio a parte un po’di amore, che parte da noi e poi si allunga si allarga e si spande fino a farsi onda, inaspettata improvvisa, un’onda che non t’aspettavi un’onda che avevi imbiancato e seppellito.
I cadaveri. Certo che c’erano, i cadaveri, e ci sono, sennò  mica si spiega tutto quel bianco, sennò mica si spiegano tutte quelle regole: cinque regole sacre, la prima fondante: io non ho passato. Come dire, io riparto da zero, ogni volta, e questa è la mia forza, e questo è il mio bene di scambio. Come dire, scambio il presente, la sola cosa che ho ed esiste, perché il passato non esiste: scambio presente con presente, così recita l’annuncio. Così si recitava nella mia stanza dalle spesse pareti, che ora pian piano si sfaldano si fanno briciole, briciole di onda, e quell’onda, be’, quell’onda è un rischio irresistibile è un rischio assoluto è un gioco al rialzo, e non puoi non rilanciare. Chi si ritira è perduto, di nuovo perduto, come prima come sotto quella mano di vernice bianca e inodore che ne copre, di strati, e di tracce e di sangue e di cose perdute e di persone ferite, e di solitudini e abbandoni e incapacità.
C’era una stanza bianca e vuota, una volta.
Poi un giorno sei entrato tu, e ho sentito un pieno; poi un giorno sei entrato tu e mi hai descritto un colore e mentre lo descrivevi me lo facevi vedere, sì, vedevo quel colore: non più bianco, ma colore. Poi un giorno m’è venuto da sorridere, ma non un sorriso furbo, era un sorriso di gioia, di pura gioia, di quella gioia che bagna le ciglia di pianto, ed ho pianto che sorridevo, sorridevo troppo. E le pareti si son fatte sottili, e poi hanno cominciato a sgretolarsi, per un attimo ho pensato a un crollo, e ho avuto paura, ma la paura mi sorrideva e mi diceva: che stupida che sei; mi diceva: ora basta, però; allora ho capito, ho capito che era la gioia che si prendeva gioco di me, prima sciogliendosi in pianto poi travestendosi da paura. Gioa burlona, gioia riconosciuta e finalmente ricordata, gioia riscoperta.
E così ho cominciato a gioire, e così sono tornata a gioire, in una stanza non più bianca e non più vuota; a gioire con te, di me e di te, in una stanza non più stanza, con gli occhi nei tuoi occhi, e il loro colore lo vedo, certo che lo vedo, e il tuo sapore lo sento, certo che lo sento.
Certo che ti sento.

 
 
 

She's dancing

Post n°196 pubblicato il 20 Settembre 2008 da le_corps

Ho ballato da sola al centro della stanza, ho ballato allargando le braccia, ad occhi chiusi la testa fluttuante; ho ballato da sola a luci spente ho ballato fino a restare senza fiato, con la testa che mi girava e gli occhi che si smontavano. Ho ballato finché la musica andava finché il mio corpo s’alzava, e s’alzava, ed io potevo sentirlo e sentivo l’aria sentivo ogni singola particella che m’attraversava; ho ballato senza confini, ho ballato al centro della stanza, ho ballato che ero aria.
Lui se n’è andato, era ora. Un matrimonio sbagliato, e questo è tutto. L’amore non c’entrava, era stato convocato a sproposito in un equivoco d’amore. Stare insieme sembrava naturale, sembrava inevitabile come è inevitabile una sciagura naturale, una furia che travolge all’improvviso, un disastro che s’abbatte senza avvisare perché s’era assopito: dormiva. Anch’io dormivo, dormivo su un tappeto sbattuto per bene tre volte alla settimana, dormivo su un pavimento lucidato dormivo su superfici sterilizzate: il nostro era un amore pulito, igienico. Senza polvere senza aloni senza briciole nel letto.
Lenzuola croccanti e tese, e poi sacchetti di lavanda disseminati nei cassetti: maglie camicie e calzini imbottiti di lavanda, che poi la lavanda era la sua fragranza preferita, che poi quando tutto sa di lavanda è come se non avesse odore. Ma questo non potevo capirlo, allora; allora mi sembrava tutto univoco, non discutibile: il possibile era uno e si era già realizzato, non c’era altro da considerare: le alternative erano state rimosse o forse non avevano mai germogliato, be’ certo, in mezzo a tutta quella lavanda!
Ma era tutto così pulito e ordinato, con gli spigoli che brillavano, e le tazze disposte in ordine crescente e gli orli lisci e i manici levigati; ma era tutto così sistemato e soppesato, misurato e incastrato, era tutto così: un amore a fil di piombo, non potevi sbagliare.
E allora perché lui mi chiamava cicciona?
Ero una cicciona, dunque? Sì, evidentemente lo ero: se lui mi chiamava cicciona, ero indiscutibilmente una cicciona: significato univoco. Ma nella sua voce e nell’espressione del suo volto non c’era disprezzo no, c’era più che altro un senso di quieta superiorità, di rassegnazione alla mia inferiorità, inferiorità insita nella mia informità.
Perché le ciccione non sono pulite precise ordinate, e non hanno profumi, tanto meno di lavanda: le ciccione sono informi pure nell’odore; e non hanno spigoli da far brillare o piatte superfici da lucidare, e poi sudano, sudano dappertutto, anche sui tappeti e allora bisogna lavare i tappeti tre volte al giorno, e allora bisogna insaponare i pavimenti togliendo via il grasso tra mattonella e mattonella perché tutto sia bianco e deterso, perché tutto sia calpestabile in sicurezza: dove lui metteva piede non dovevano albergare germi: per lui il pavimento era un luogo pulito, più pulito di sua moglie.
Che poi la moglie ero io, sì, proprio io: la cicciona, quella sporca, quella che disturbava le linee rigorose dell’arredamento, quella disarmonica con tutti i mobili: del salotto del bagno e della camera da letto; disturbavo ogni ambiente con la mia presenza informe, con la mia presenza informe disturbavo la sua vista: macchiavo la superficie bianca della sua visione, e in più alteravo le forme nette e definite del tavolo dei comodini delle sedie, anche le piante avevano una forma più definita della mia!
Io ero priva di forma, ed ero buona per grattar via lo sporco dalle mattonelle per lucidare i rubinetti e lavare tappeti. Ero buona per rimediare ai miei errori, per far dimenticare la mia natura cicciona, la mia non conformità di cicciona, il mio debordare e insozzare.
Io ce la mettevo tutta per rimediare, ma per lui restavo sempre una cicciona.
Una cicciona in tutto e per tutto. Avevo tutto della cicciona, tutto tranne la bocca. Credo che lui considerasse la mia bocca un luogo sterile e sicuro al pari del pavimento, visto che con fiducia vi introduceva il suo pene, e lì lo lasciava permanere tra le 22 e le 22.30 di ogni sera.
Appoggiava la mano sinistra sulla mia testa, ed io sentivo la mia morbida capigliatura schiacciarsi, con tutti quei morbidi ricci biondi che perdevano forma, diventando anch’essi ciccioni. La sua mano aveva questo potere, la sua bocca il suo sguardo avevano questo potere: rendevano cicciona ogni cosa su cui si posavano. (Dunque anche me, ma questo lo capii solo dopo). Quando la luce si spegneva ed io mi ritrovavo carponi al suo fianco non ragionavo su di noi come coppia non ragionavo sulle implicazioni delle sue parole dei suoi rimproveri dei suoi silenzi, non ragionavo sulle eventualità dell’esistenza sulle circostanze impensate sulle improvvise virate, quando la luce si spegneva e la sua mano sinistra calava sulla mia testa non c’erano possibilità, c’era solo la realtà, l’univoca realtà della nostra storia impregnata di lavanda, del suo cazzo sbattuto sul mio palato e del mio essere cicciona.
La luce si spegneva. Lui se ne stava ad occhi chiusi, io invece li tenevo aperti, cercando di penetrare l’oscurità dell’aria mentre lui penetrava in tutta sicurezza le profondità delle mie mucose.
La luce si spegneva, e quando si riaccendeva era tutto uguale, invariato, era tutto pulito e ordinato. Il suo pene s’era sgonfiato e lui subito l’aveva ricacciato sotto la cinta sigillandolo dietro i bottoni dei pantaloni; i miei capelli invece erano tornati a gonfiarsi, lasciati liberi da quella mano tenace nell’oppressione impositiva nel ritmo: dopo tutto una cicciona che ne sa di musica e armonia, di accelerazioni e decelerazioni, dopo tutto una cicciona che ne sa di sospensioni e affondi: una cicciona può solo pulire, e ripulire tutto, alla fine, perché tutto torni uguale, perché tutto resti invariato: pulito e ordinato.

***

Così S. ha comprato uno specchio, a figura intera dalla forma oblunga. L’ha scartato e lucidato, e l’ha posto al centro della stanza.
S. ora è davanti allo specchio, e si spoglia di tutto con circospezione: non guarda dritto, ma sbircia, sbircia e arrossisce, non riesce a capire. A capire cosa ci fa davanti allo specchio, a quello specchio a figura intera dalla forma oblunga. Reclinabile e fedele, stava scritto sull’imballo: per questo l’ha comprato.
Ha pensato: questo specchio dirà sempre la verità, comunque lo sposti, comunque lo inclini, indietro o avanti.
S. aveva bisogno di recuperare il rimosso: verità e fedeltà. Si trattava di un rimosso notevole di un rimosso che aveva lasciato una voragine, una voragine che lei aveva tentato di coprire con un tappeto, un tappeto!, un tappeto da sbattere tre volte a settimana un tappeto senza germi, igienico, su cui poter vivere un’intera esistenza.
Ora S. è davanti allo specchio, e si guarda. Non sbircia più, ma guarda dritto, dritto davanti a sé. Davanti a sé c’è una donna, la vede sì, e la riconosce come donna, sì è senz’altro una donna, ma ha bisogno di osservarla bene, nell’insieme e nel dettaglio, ha bisogno di seguire le linee, gli avallamenti e le sporgenze, di distinguere i colori e la consistenza del suo essere: dentro-fuori, è  necessario che lei faccia questo movimento: dentro-fuori. Davanti a lei c’è una donna, e lei non può permettersi di tralasciare nulla.
A partire dalle ciglia. È una donna con ciglia lunghe e chiare che racchiudono un colore, un colore sul quale è necessario soffermarsi e separarne le venature, è un colore frastagliato, è un colore multiluce.
Nemmeno i colori sono univoci – le sembra di mormorare, ma non è un mormorio, è un boato, una deflagrazione che fa tremare polsi e mandibola che fa chiudere le ciglia per lo spavento: un ginocchio si abbandona molle, l’altro resiste, anche lei resiste: le ciglia si riaprono, lo sguardo è fermo, dritto davanti a sé, e vede, vede una donna e la sua potenza. Dentro-fuori è un movimento spietato, quando il dentro è quel dentro, denso e plurivoco, e il fuori è quel fuori, una donna dai riccioli biondi e aerei, con un colore frastagliato negli occhi e una domanda negli occhi, una domanda così prepotente da cacciarle un urlo.
Un urlo che le inarca la schiena e le rovescia la testa all’indietro: il mento punta al cielo, e per prenderselo sfonda il soffitto.
Sì, sono io, e sono qui.
L’urlo ha parole che solo lei può udire.
L’urlo s’è fatto parola; e la parola, azione.
Lo sguardo è fisso davanti a sé: puntella sonda scava. Il petto, scosso, sussulta ancora: è l’urlo che si riposa, che riposa nel suo petto. Lei lo sente e lo vede mentre respira assieme ai suoi seni, mentre s’alza e si abbassa al ritmo dei suoi seni. Ha dei seni meravigliosi – riesce a vederli, e questo pensiero si tramuta in fitta, una fitta di coscienza bruciante e improvvisa che le dischiude la fica; gliela allarga fino a spaccarla, fino a scioglierla in un pianto, un pianto di singulti, un pianto scomposto. Che lei non asciugherà.
Glielo chiede il suo culo e glielo chiedono le sue mani: non asciugarlo, lascia che ti inondi lascia che ti sommerga: non asciugare non rimediare non pulire. Anche i suoi capezzoli glielo chiedono: sono così protesi e duri da farle male. Ma non abbastanza. Allora con due dita li preme, li gira e inizia a tirare, e tira fino a farli diventare gonfi e duri, sempre più duri, ed espansi; allora preme e tira con più forza, sempre più, fino ad aprirli, fino a farli sbocciare.

S. ha ballato da sola al centro della stanza, con gli occhi chiusi la testa fluttuante, ha ballato dentro e fuori dal suo corpo, ha ballato nel disordine dei suoi umori, nella densità del suo essere molteplice, del suo essere immensa e magnifica. S. ha ballato sui suoi passi.
Ora sì, ora lo so. Sono io, e sono qui.

 
 
 

Peli

Post n°195 pubblicato il 17 Settembre 2008 da le_corps

Adoro i tuoi peli, sono morbidi e folti, sono nuvola sono ovatta: li vorrei sulla mia fica, al posto dei peli della mia fica, che sono ispidi duri pungenti. Come rovi. Spine cresciute dopo troppo tagliare.
Tagliare tagliare sempre tagliare, perché la fica deve essere pulita e nuda, rosa ed esposta. La fica deve essere messa in bella mostra: un osso sporgente ricoperto di carne, carne senza peli e senza pelle, un osso proteso che punta in avanti e attiva l’impulso, e allora  il corpo parte di scatto e si lascia guidare, dalla sua fica naso-di-cane: spoglia e umida, senza neanche un pelo, gocciante e dilatata, per annusare meglio.
Loro la volevano così: grattata, quasi erosa: carne viva e inerme; loro volevano vedere il pezzo di carne, con tutte le sue grinze e le rughe, e i pori come grumi e i bulbi svuotati e le difese atrofizzate: un pezzo di carne da guardare dall’alto in basso: una fica da tenere in pugno con lo sguardo, una fica che è carne, nient’altro; carne che respira, con un respiro così debole e discreto da non disturbare: il pugno che la tiene; da non disturbare: l’occhio che ammira, gravido di sé, quel pezzo di carne spellata e sgrassata, deposta sul tagliere e fatta a brani, brani con poco respiro, crudi e sanguinolenti quanto basta. Ad eccitare l’occhio. Che guarda sicuro, dall’alto in basso, tutta quella carne pulita, per lui, e offerta, a lui, quella carne gocciante e viscida spaccata in due e disposta sull’osso che sporge, tra due gambe spalancate, quella carne rosa e viva con qualche rivo di sangue che la riscalda, prima di rapprendersi prima di diventare crosta.
Ogni pelo va tolto: tagliato estirpato; bruciato, se necessario, perché la carne va pulita e vista bene, prima di essere battuta e mangiata. Ed io tagliavo estirpavo: bruciavo, se necessario; e me ne andavo in giro con questo pezzo di carne tra le gambe, con questo pezzo di carne che mugolava e sospirava come se ragionasse tra sé e sé di qualcosa, ma lo faceva a bocca chiusa per non essere sentito perché era tutto un ragionare privato, un ragionare fine a se stesso, che non produceva nemmeno un lamento ché qualcuno avrebbe potuto sentirlo ché qualcuno avrebbe potuto scoprirlo, mentre se ne stava senza piume e senza pelle a scaldarsi col suo sangue, a ripararsi tra le gambe, nel riserbo delle gambe, che custodivano la sua carne viva e rosa finché potevano finché non dovevano allargarsi e fermarsi, nella giusta posizione, nella posizione del vedere, altrui, finché non dovevano aprirsi ed offrirlo, il loro pezzo di carne custodito, il loro pezzo di carne senza un pelo. Senza respiro.
È per questo che adoro i tuoi peli, che sono sempre stati lì: mai tagliati mai estirpati mai rimossi, ed anche la tua pelle è sempre stata lì, con i bulbi intatti e la superficie liscia e tenera, ricoperta da morbidi peli, peli morbidi e soffici come nuvola, una nuvola che leviga la pelle e ripara la carne, una nuvola che profuma di cielo. Una nuvola che custodisce il luogo della tenerezza della tenerezza immaginata. Quel luogo che sotto i peli sta.
Ma i miei peli adesso sono  rovo, un rovo inchiodato alla carne, che sanguina in silenzio, e il sangue rappreso diventa spina e la spina chiodo, e i chiodi affondano nella carne e la ricoprono, ma non la riparano, e la difendono, ma non la guariscono, perché i chiodi sono rovi: rovi, non nuvola.

 
 
 

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